La legge più bella: ubbidire al padre.
ESCHILO
Io credo di aver capito perché continuo a pensare che mia madre fosse una madre esemplare, la sola che sono disposto a riconoscere come tale. Lei rispettava mio padre: lo riconosceva come tale, ci parlava di lui, creava per lui lo spazio linguistico indispensabile perché i nostri cuori potessero incontrarsi con il suo… Quell’uomo non era solo suo marito. Era anche mio padre. Lei rispettava mio padre: mi ha permesso di ‘vederlo’, di vedere stagliarsi davanti a me una figura nitida di uomo autorevole. Oggi lo so: la sua autorità derivava da mia madre, dal ‘lavoro’ che lei svolgeva quotidianamente presso di noi, perché imparassimo a percepire la sua autorità. Non usurpò mai quel ruolo. Non pensò mai che potesse fare meglio di lui: oscuramente avvertiva che – pur con i suoi mezzi limitati di uomo semplice che egli era – quello spazio apparteneva solo a lui. Fu occupato sempre solo da lui. Nella mia mente e nel mio cuore, sono riuscito sempre a tenere ben distinti il volto di mio padre e quello di mia madre. Il merito è stato di mia madre. Da ‘vecchia’ donna abruzzese soleva dire: Una buona moglie fa un buon marito. Caricava su di sé tutto il peso dell’esistenza di mio padre. Anche i suoi errori. Condivise tutto. Quando mio padre ci picchiava – e accadeva tutti i giorni – lei non interveniva mai a mitigare le punizioni: è stata una vera madre. Quando lui andava via, ci consolava, curava le ferite del corpo e dell’anima, senza criticare mai le punizioni. In quel tempo, l’educazione era fatta di premi e di punizioni. Come ama dire oggi don Antonio Mazzi, avevamo paura della scuola. E avevamo paura di nostro padre. Fino all’ultimo giorno della sua vita, sono riuscito ad obbedirgli sempre. Dopo le trasgressioni e i ‘tradimenti’ – a cui un figlio è tenuto, per realizzarsi oltre il proprio padre – sono tornato sempre ad amarlo, con l’amore mite e docile di un figlio che sa inchinarsi di fronte alla vita. Pur avendolo superato presto in cuor mio, per i doni ricevuti dalla vita e per il processo di miglioramento personale dovuto alla scuola, alla Chiesa e alla famiglia, io l’ho collocato sempre al di sopra di me. Per questo, io mi sono salvato. Cioè, sono riuscito a dare senso al tempo, alle stagioni della mia vita, all’esperienza del dolore. Ho impiegato tempo per comprendere quale fosse la legge del padre, ma ad essa so di aver ubbidito sempre. Emergere alla consapevolezza forse è proprio questo: riconoscere la propria radice dopo essersi staccati da essa e ad essa sempre ‘ritornare’, di essa sapere di essere il ‘frutto’, non importa quanto diverso.
Chi non ha un padre se lo deve dare.
NIETZSCHE
L’immagine più importante della nostra civiltà è quella di Enea che si carica sulle spalle il vecchio padre e lo porta in salvo lontano dalle rovine della storia. I figli si salvano solo se accettano di portare quel peso. Salvarsi significa darsi un futuro. E’ stato scritto che il futuro è un territorio del passato. E’ nella memoria veterum che realizziamo il nostro destino. I padri stanno lì a ricordarci chi siamo. La cecità del nostro tempo è tutta qui, nell’oblio della radice, nella pretesa di camminare rinunciando a procedere sulle spalle dei giganti che ci hanno generati. La prescrizione di Eschilo pertiene senz’altro all’epoca del patriarcato. Mio padre e mia madre sicuramente appartenevano ancora a quella civiltà ormai scomparsa, della quale non proviamo alcuna nostalgia, se non altro per il fatto che le donne erano sottomesse e ‘infelici’, anche se non lo dicevano mai. Tuttavia, della civiltà da cui provengo ricordo nitidamente l’esistenza del padre. Il padre c’era. C’erano i padri. Il rimedio ai mali del nostro tempo è qui, nella necessità di darsi un padre: riconoscere prima di tutto la scomparsa del padre, denunciarne la mancanza, postularne il bisogno, darsene uno.
Oggi ha buon gioco chi manipola ad ogni piè sospinto l’opinione pubblica, fino al punto di provocarne la dissoluzione. L’apprendista stregone, però, non sa che il vento che ha generato è lo stesso vento che lo travolgerà. La Nemesi storica farà giustizia dell’empietà dei parricidi.
Come chiamare ancora il dispregio della Legge e dell’autorità dello Stato, delle sue libere istituzioni, per amore di sé, della propria ricchezza, del proprio onore? Chi restituirà ai giovani smarriti il ricordo del padre, la nostalgia del suo nome, il compito di rispettare la sua legge?