I processi di identificazione personali sono importanti nella vita dei singoli. Non parlo tanto del tifo nello sport o delle preferenze per i personaggi famosi, quanto della scelta di una cultura, di una civiltà, elette ad emblemi dell’esistenza, simboli viventi.
Io mi sono sempre identificato con lo Judentum, cioè con l’Ebraismo come cultura, come civiltà. Ho amato e studiato tutto ciò che avesse a che fare con gli Ebrei. Inizialmente, era pura simpatia umana, interesse per i vinti e i perseguitati, studiati assieme alla realtà operaia e contadina, delle donne e dei Meridionali… Mettevamo gli Ebrei nell’elenco degli oppressi, assieme alle donne, agli operai, ai contadini e ai Meridionali!
La scoperta, poi, di una letteratura ebraica di lingua tedesca, assieme al fascino che ha esercitato su di me la Germania con la sua letteratura e con la sua filosofia, orientò le mie letture in direzione degli autori meno frequentati, per carpirne i segreti. Attraverso di loro, cercavo l’anima ebraica, che per lungo tempo identificai con il misticismo chassidico. Ancora oggi, non riesco a separarmene. Il lessico della teologia e della filosofia penetravano nella carne, come l’idea che bisognava pregare per Dio, perché con la creazione dell’Universo si era depotenziato: occorreva aiutarlo a ricomporre i vasi spezzati. La preghiera come abbraccio corale e ‘magia’.
Già Hans Jonas con Il concetto di Dio dopo Auschwitz si era chiesto perché Dio non fosse intervenuto ad Auschwitz, a fermare il corso delle cose. Quanti si sono chiesti dove fosse Dio, mentre la speranza moriva nei campi della morte! In quegli stessi luoghi, molti decisero che Dio era morto ad Auschwitz.
Sul significato di Auschwitz non ho mai smesso di riflettere e di studiare. Come dimenticare la risposta di Jonas? Si trattava di scegliere tra due sole possibilità: o non ha potuto o non ha voluto. Quando il mio migliore amico mi pose lo stesso quesito – prima che leggessi l’operetta del filosofo – attraverso l’alternativa di Jonas, fui colto da violento stupore. Dio non ha voluto? Dio non ha potuto? Il cumulo dei pensieri che intervenne ad occupare la mia mente non mi abbandonò più. Qualcuno, dunque, riteneva che Dio non fosse onnipotente! che in lui potesse ‘annidarsi’ l’ombra del Male! La Creazione come evento cosmico che aveva depotenziato Dio! Per questa ragione, per Jonas Egli non aveva potuto…
Auschwitz ha cambiato la mia vita. La tristezza che calò su di me quando compresi cosa fosse l’immane fu superata solo dalla denuncia della ‘banalità del male’. Mi sono scoperto spesso a pensare se sarei riuscito a sopravvivere in un Lager. Ho sempre concluso che ce l’avrei fatta. Resistere era per me un compito quotidiano. Dunque, ero allenato. Mi sentivo pronto ad affrontare la prova!
Il girasole di Simon Wiesenthal mi aprì alla consapevolezza della responsabilità individuale. Wiesenthal non perdonò il soldato morente, che chiedeva perdono per tutti i morti. Il giovane soldato ebreo non poteva perdonare a nome dei milioni di morti. Il tedesco avrebbe dovuto chiedere perdono a tutti, uno per uno! Questa circostanza accresceva il senso dell’immane che si era abbattuto su di un popolo.
Il saggio di Hannah Arendt intitolato La responsabilità personale sotto la dittatura mi dette il colpo di grazia: non potevo nascondermi più. Se potevo chiedere scampo, non essendo ebreo, mi trovavo comunque di fronte al tribunale della coscienza, che rivendicava astratte priorità e si nascondeva dietro altrettanto astratte bandiere. Nel titolo del saggio vedevamo tutta intera la verità della nostra condizione. In tema di responsabilità, non sono mai andato avanti. Sono sempre più convinto che sui luoghi di lavoro e nella società, per quanto riguarda i destini collettivi, tutto dipenda dalla coscienza dei singoli. L’ignoranza è colpa, per me. Subire il fascino di un miserabile, che costruisce le proprie fortune politiche sulla seduzione e sulla paura, è doppiamente colpevole: per l’influenzabilità e per la viltà personale. I Tedeschi sono tutti responsabili, uno per uno, dell’hitlerismo, dei pogrom e della Shoah. Non semplicemente colpevoli. Si può essere colpevoli, senza sapere bene da dove provenga la colpa. I Tedeschi sono responsabili, perché scelsero quel Führer come loro Capo: lo amarono e lo seguirono in tutte le sue scelte, fino all’infamia più grande. E’ possibile amare e seguire qualcuno e poi dire alla propria coscienza di non sapere, di non aver capito?
La letteratura yiddish e la musica Klezmer, Kafka e Svevo, le parabole letterarie e le filosofie della caducità, il Mistico e il metropolitano, la shtetl e il tempio… Ogni volta, mi chiedevo quale posto assegnare alla nuova scoperta… Ma il pensiero correva sempre alla terra contesa, ai fragili confini, all’antica madre, lungamente cercata e finalmente trovata… A me sembrava ragionevole convivere sulla stessa terra con gente altrettanto antica, legata alla stessa terra. Mi piaceva dire: con la Palestina nel cuore. E il pensiero correva ai Palestinesi, alla pace invocata per il presente, non per un futuro lontano… L’espressione più bella era quella del gruppo: Pace, ora. Negli anni dell’Università mi portavo dietro come segnalibro la riproduzione di un disegno che proponeva una colomba bianca sullo sfondo colorato con i colori della bandiera di Israele. Il ramoscello d’ulivo in bocca era inequivocabile. La colomba in volo era diretta a portare la pace. Il mio cuore è rimasto lacerato, come la terra che è condannata ad ospitare i due popoli che non vogliono convivere e che non riescono nemmeno a coesistere.
Siamo oggi a questo punto. Sotto le bombe di Gaza, piango i bambini uccisi dalla mano di chi ha perduto un bambino sotto i colpi del ‘nemico’ vicino.
Riusciremo a separare le ragioni degli uni e degli altri senza dare una terra ai Palestinesi, perché siano finalmente una Patria?, senza riconoscere a Israele il diritto di vivere in pace dentro sicuri confini?
Mentre gli uomini che amano la pace cercano instancabilmente soluzioni, possiamo solo ascoltare la voce dei figli più grandi dell’uno e dell’altro popolo, per trovare almeno conforto nella poesia e nella letteratura, con la speranza che un giorno i figli dell’uno e dell’altro popolo leggano gli stessi poeti e gli stessi scrittori, senza chiedersi da quale parte stesse chi scriveva.
Mi sono ritrovato ad identificarmi con Israele e con tutta la sua storia culturale, da quando sono emerso alla coscienza e mi sono sollevato a dignità di uomo, perché non potevo stare da un’altra parte. Le ragioni a me note sono chiare. La più grande è questa: non posso fare a meno di stare dalla parte di chi subisce aggressioni, patisce torti, è costretto a difendersi. In mezzo alle ragioni dei Palestinesi, che sono più grandi di quelle di Israele, ho conservato sempre nella mente e nel cuore il sentimento di simpatia per Israele, per il suo tragediare quotidiano, cioè per la necessità di scegliere ogni giorno, in mezzo all’impossibilità di scegliere.
Quando furono aperti i cancelli di Auschwitz, si è aperta una ferita che per me non si è richiusa più. Gli altri dimentichino pure.