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Molto ha esperito l’uomo.
Molti celesti ha nominato
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l’un l’altro.
Friedrich Hölderlin
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Fin dalle sue origini, la Filosofia ha tentato una definizione dell’uomo, a partire dalla ricerca dell’origine di tutte le cose. Prima che si facesse antropologia, infatti, ha cercato il senso fuori dell’uomo. Con l’illuminismo greco prima e con Cartesio poi si è affermata un’idea che sembra ancora contraddistinguere l’identità dell’Occidente: la razionalità come tratto distintivo dell’uomo. Aristotele aveva parlato dell’uomo come animale politico (sociale), Cartesio come di un essere pensante, perennemente assediato dall’errore. Il XX secolo, con Ernst Cassirer, parlò di animal symbolicum, cioè della capacità umana di produrre linguaggi. La considerazione semiotica, poi, dei processi di significazione completò provvisoriamente il quadro. Come se fosse stato raggiunto un vertice dal quale era possibile contemplare ogni altra qualità dell’uomo, che in qualche modo veniva ricompresa nella più alta, nell’attitudine alla comunicazione e alla produzione di senso.
Recentemente, Salvatore Veca ha rivendicato il principio secondo il quale «gli esseri umani sembrano essere un particolare tipo di esseri o almeno sono riconoscibili come tali, se adottiamo una prospettiva filosofica, non in quanto animali parlanti (e pensanti) quanto piuttosto come animali parlanti (e pensanti) e agenti (e pazienti) in un mondo strano e complicato che non è intrinsecamente “loro”.» (pag.6) – «Lo slogan “loquor, ergo sum” [parlo, dunque esisto] o forse meglio “loquor, ergo cogito” [parlo, dunque penso] va rimpiazzato con slogan forse meno eleganti e un po’ goffi ma più umili e più realistici, del tipo: “loquor, ago et patior, ergo cogito” [parlo, agisco e patisco, dunque penso] (p.14, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, 1997).
Noi riteniamo, con Veca, che, senza negare le sue importanti qualifiche della socialità e della razionalità, l’uomo sia innanzitutto un essere che parla e che agisce e che soffre, meglio ancora: che fa esperienza del dolore. Gli animali soffrono, nel senso che i patimenti occorrono dall’esterno; l’uomo fa esperienza della sofferenza e del dolore.
Quello che la Modernità, con Cartesio, aveva separato – pensiero ed errore, pensiero ed emozione – va a costituire non una coppia di opposti, il primo termine dei quali rappresenterebbe l’umano in modo esclusivo, ma una somma di caratteristiche estranee al puro pensare, ma non separabili da esso; anzi, congiunte al pensiero in modo così inestricabile da non poter essere pensate senza il pensiero. D’altra parte, lo stesso pensiero non può più essere pensato indipendentemente dalle altre forme incarnate. Tanti secoli di ricerca e discussione sono stati ‘chiusi’ dalla convinzione che delle passioni non sia possibile ‘liberarsi’ in alcun modo: tutt’al più, esse possono essere disciplinate, governate, ma ogni tempo della vita dell’uomo è segnato dalla loro presenza. Oggi sappiamo che non è possibile ‘domare’ per sempre le passioni personali, ma disciplinarle sì, tenendole sotto controllo, sviluppando la consapevolezza del proprio daimon, cioè del proprio carattere, di quella parte di sé che non muta.
Emozioni, affetti, sentimenti, passioni vanno a costituire il tessuto del sentire e si danno come qualcosa che precede, accompagna e segue il puro pensare.
Il modo di esplicarsi dell’umano, allora, non andrà cercato nell’attività che è propria dello scienziato, dell’economista e del politico soltanto, come se le loro fossero attività preminenti. La nobiltà dell’agire politico si fa calcolo utilitaristico e delitto. L’intervento dell’economista sulle attività umane viene messo al servizio del guadagno e basta. La conoscenza della natura, che ha inaugurato la Modernità, si fa manipolazione della natura stessa. Stentiamo, in sostanza, ad identificarci in modo esclusivo con questa o quella figura d’eccezione. Abbiamo i nostri Maestri, ma li abbiamo trovati tra i Filosofi, i Poeti, i Narratori, gli studiosi di neuroscienze, i Teologi, i Politici. Spesso, tra le donne. Mai in un solo uomo e in una parte politica.
Abbiamo creduto lungamente che occorresse farsi guidare dalla Verità. L’abbiamo scritta sempre con la lettera iniziale maiuscola, perché ritenevamo che potesse essercene una sola, valida sempre e per tutti gli uomini. L’abbiamo cercata. E abbiamo creduto di averla trovata. Abbiamo anche smesso di credere che sia verità la verità scientifica o quella filosofica. Alla scienza riconosciamo l’istanza della certezza, per quanto attiene alla conoscenza dei fenomeni della natura. L’istanza della verità, da sempre rivendicata dalla filosofia, ha generato i mostri della ragione, ché in nome di essa uomini inermi e innocenti sono stati perseguitati e uccisi.
Contro l’etica della verità, noi professiamo il valore dell’incontro, che genera accettazione e scambio disinteressato. La relazione educativa è per noi l’espressione più alta della condizione umana: c’è qualcuno che favorisce nell’altro la conoscenza e la crescita personale, lo sviluppo della consapevolezza di sé e l’apertura al mondo. Un’attitudine educativa dovrebbe essere presente in tutte le attività umane. C’è sempre un uomo che non sa e che attende risposte.
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Lo scrittore viennese Hugo von Hofmannsthal ha detto: «La verità è il tono di un incontro». Consideriamo questo un testo definitivo per noi. Sul tema della verità non ci interessa sapere altro, a parte tutto ciò che ci viene dai saperi regionali, dalle certezze che andiamo acquisendo con i progressi delle conoscenze umane disinteressate. Quale verità dovrebbe illuminare il nostro cammino? ‘Possediamo’ già il fuoco della conoscenza: ci nutriamo quotidianamente di scienza, facendo derivare dalle conoscenze scientifiche l’orientamento più importante per quanto attiene alla realtà della natura.
La realtà dell’anima, tuttavia, cade al di fuori del dominio delle scienze esatte. Esattezza e anima non sono sorelle. L’anelito alla speranza, il sospiro affannato dell’uomo smarrito, il timore e la preghiera, l’invocazione e la pietà, l’arrendevolezza delle passioni – che chiamiamo grazia -, assieme alle infinite espressioni di sé che ogni singolo individuo produce e che contraddistinguono le situazioni proprie dell’umano sentire non possono essere misurate né definite in modo esaustivo e definitivo. Non facciamo altro che scrivere sull’amore, su cui tutti i filosofi hanno scritto e su cui tutti i poeti hanno poetato. Ogni volta di nuovo ci troviamo di fronte alle ‘stesse cose’, ma scopriamo sempre che non si tratta propriamente delle stesse cose. Il sorriso della nostra donna ci dice cose che nessun’altra donna conosce e che non si confondono con il sorriso di nessun’altra persona.
Le nostre Pratiche filosofiche a questo mirano, a illuminare le zone dell’esperienza sulle quali non cade la luce così come cade solitamente sulle cose. La verità ci viene incontro spesso per speculum et in aenigmate. Il gran libro del mondo chiede di essere interpretato. La cosa si dà e nel darsi si ritrae, e questo è il suo proprio. L’anima spesso tace, e il suo silenzio è compito per noi. Il nostro vano interrogare dovrebbe cedere il passo a più umili attitudini all’ascolto. Massimo Cacciari ha scritto: «La creatura è nell’ascolto».
Noi siamo qui in ascolto. Propriamente, il nostro non è un indagare metodico e convinto. Spesso, ci sediamo ai margini della strada. E aspettiamo. Abbiamo fiducia nei viandanti. I passanti non ci interessano. Non si fermeranno ad ascoltarci. Gli uomini tutti passano. Talvolta, ci accade di incontrare una voce amica. Le parole che ci arrivano da lì chiedono un’ospitalità che riusciamo ad offrire sempre. L’ospitalità che riceviamo in dono è altrettanto disinteressata. L’apertura al mondo, che contraddistingue tutti i viandanti, non genera timore alcuno, se non quello che è congiunto alla speranza. Le nostre parole camminano sicure nel lago del cuore, guidate dalla mano amica che con noi è impegnata a percorrere i sei lati del mondo, che toccherà con mano accorta e sicura: il filo di Arianna è ben stretto nelle nostre mani. Non ci smarriremo. I viandanti non si perdono mai di vista. Ognuno è faro per l’altro. Di volta in volta, specchio e lampada. Sono «trucchi di radianza» quelli che provengono dallo sguardo e dall’abbraccio dell’Ospite. Chi andrà a misurare l’ampiezza delle ali, in cerca di tiepide sicurezze, non troverà altro che luce. E’ questo il tremendo della bellezza al suo inizio. Lo spossessamento di noi che essa provocherà deciderà del nostro destino. Se ad esso sapremo corrispondere e presteremo fede alle voci che tacciono alle nostre domande, ci salveremo. Ma è solo nella condizione di ‘beanti’ – se lasceremo sanguinare la ferita che l’altro avrà aperto in noi – che troveremo il senso che cerchiamo, nello sforzo perenne che ci spinge a combattere l’insensatezza del mondo.
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EUGENIO BORGNA, Noi siamo un colloquio, Feltrinelli1999:
Parte III. La comunicazione sospesa
Capitolo 2. Il fascino insondabile della dissolvenza
Il vuoto esistenziale, pp. 120-122
Nello scacco di un’emblematica struttura portante dell’esistenza, quella dell’incontro dialogico, sembra manifestarsi la fondazione (la genesi di senso) di una tossocomania.
La categoria dell’incontro è stata delineata nella sua radicale significazione umana dalle filosofie dell’esistenza; e di questa categoria vorrei poi parlare più ampiamente nel prossimo capitolo: limitandomi ora a qualche considerazione mutuata dal pensiero sfolgorante di Martin Heidegger.
Come fionde sferzanti, che si trascendono nel loro slancio e nella loro tensione, le parole di Friedrich Hölderlin svelano l’essenza delle cose e le sigillano nella loro sconvolgente enigmaticità. Non c’è discorso, in psicopatologia, che non abbia bisogno delle parole dei poeti che frantumano la ruggine dei segni e li fanno lievitare nella loro leggerezza e nella loro profondità.
Così, in una delle sue liriche più belle e insondabili, Hölderlin dice:
Molto ha esperito l’uomo.
Molti celesti ha nominato
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l’un l’altro.
Le riflessioni di Martin Heidegger su queste parole straziate ed alte del grande poeta tedesco consentono di indicare la radicale importanza del colloquio, come struttura dell’esistenza, e le conseguenze che ne scaturiscono, quando essa si lacera e si frantuma implacabilmente (ad esempio) in una tossicomania.
Queste sono alcune delle cose che egli scrive: «Noi siamo un colloquio. L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gesprächt)»; e ancora: «Ma che cosa significa allora un ‘colloquio’? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. E’ in tal modo che il parlare rende possibile l’incontro. Ma Hölderlin dice: ‘da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un altro’. Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è, piuttosto, al contrario, il presupposto».
L’inaudita rilessione heideggeriana così prosegue: «Ma Hölderlin non dice semplicemente: noi siamo un colloquio, bensì: ‘da quando noi siamo un colloquio…’. Là dove c’è ed è esercitata la facoltà del linguaggio propria dell’uomo, non vi è ancora senz’altro l’evento essenziale del linguaggio: il colloquio»; e infine: «Un colloquio, noi lo siamo dal tempo in cui ‘vi è il tempo’. E’ da quando il tempo è sorto e fissato che noi siamo storicamente. Entrambi – l’essere un colloquio e l’essere storicamente – hanno lo stesso tempo, si appartengono l’un l’altro e sono il medesimo» (M.Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi 1988).
Non sono parole facili, queste, ma sono le sole parole che consentano di indicare qualcosa dell’enigma della comunicazione e del mistero dell’esistenza: quando questa non riesce più a realizzarsi nel colloquio e nel dialogo, nella relazione interpersonale e nella apertura agli altri e al mondo delle cose.
In ogni caso, le parole di Heidegger, nel loro sovrapporsi mimeticamente al discorso poetico di Hölderlin, sono significative: nella misura in cui testimoniano (anche) delle connessioni segrete fra l’ascoltare e il parlare, fra il linguaggio e il tempo; e nella misura in cui fanno immediatamente presagire cosa accada, come si inaridisca e si stravolga il colloquio (il dialogo), quando si cada in una condizione di solitudine disperata e di deserto della parola (e della comunicazione): in una condizione di lacerazione esistenziale.
Certo, la tossicomania (su di essa, ovviamente, mi interessa riflettere; anche se, a volte, il mio discorso possa sembrare allontanarsi dai confini psicologici e umani da questa enigmatica e straziante esperienza) è solo una delle possibilità, ma fra le più sconvolgenti e le più angoscianti, con cui si tenta di sottrarsi alla solitudine e alla disperazione, alla frantumazione di ogni colloquio e alla dissolvenza della speranza (delle speranze), alla perdita di senso e di valori, e alla ricerca di esperienze bruciate nella loro esteriorità e svuotate di interiorità.
Non c’è, del resto, condotta psicologica e umana che non possa sconfinare nell’oblio di sé e nel deserto di una tossicomania (di una tossicodipendenza): il lavoro, la smania di ‘potere’ e di ‘successo’, l’essere divorati dal fascino ambiguo e straniante della televisione, l’essere prigionieri di una sfrenata assunzione di farmaci (che trascina con sé una farmacomania non dissimile non solo nelle sue motivazioni psicologiche ma anche nelle sue espressioni esistenziali da quella che è una tossicomania in senso tradizionale), l’essere risucchiati nel gorgo inarrestabile di esperienze destituite di senso e di valore che calamitano la vita in sequenze sempre uguali.
La tossicomania non è, insomma, se non una situazione estrema – [ per questo, noi ce ne occupiamo dal 1989, essendo ispirati già da allora dall’idea di S.Kracauer secondo il quale la realtà si comprende a partire dai suoi estremi: la fabula parla di noi! ] nella quale si esprime una tendenza (radicata nella condizione umana) alla “dipendenza” da qualcosa e dalla “ripetizione” (nel senso dell’eterno ritorno delle cose, e delle esperienze, di cui parla Nietzsche nel suo discorso (Così parlà Zarathustra) lampeggiante di intuizioni profetiche e sconvolgenti). La tossicomania rappresenta, così, un rischio comune a ciascuno di noi: quando siamo divorati dal vuoto e dal silenzio (dal deserto degli affetti), e quando al nostro grido disperato di aiuto non c’è nessuno che risponda.
Ascoltate le parole sanguinanti di Simone Weil: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordi a queste grida».
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