Quando mi ritrovai con gli altri Volontari del Centro di ascolto in una stanza chiusa, intorno al tavolo con un Fondatore di Comunità, non potevo immaginare che da lì sarebbero venute indicazioni di lavoro che avrebbero influenzato non solo il metodo del gruppo ma la mia stessa esistenza. Era il 1989.
A proposito del rapporto con i ragazzi che si sarebbero rivolti noi in cerca d’aiuto egli ci disse: «Siate sempre gentili con loro!»
Non smetto mai di pensare le cose che meritano di essere pensate fino in fondo. Quelle parole valevano un programma di vita, non solo un atteggiamento ‘professionale’.
In seguito, negli interventi personali con i Volontari che si sono avvicendati non ho mai omesso di segnalare come principio guida per l’azione il ‘comandamento’ della gentilezza.
E’ curioso il fatto che sia nato un Movimento mondiale per la gentilezza. Non mi stupisco del fatto, considerata la tempra morale di chi ci governa e lo stile personale con cui i più intervengono in pubblico: la spudoratezza è la regola; la menzogna è metodo; il disprezzo della realtà dell’altro è mestiere diffuso; la persona più stupida è volgare si sente in diritto di calpestare chi le appaia appena esposta, fragile. Siamo nell’età degli sciacalli.
Giovedì 21 maggio è apparso nelle librerie un Elogio della gentilezza, dello psicanalista londinese Adam Phillips e della storica Barbara Taylor. Edito da Ponte alle grazie, in 109 pagine divise in cinque capitoli – Contro la gentilezza, Breve storia della gentilezza, Gentili come?, L’istinto della gentilezza, La gentilezza moderna -, l’Elogio propone, appunto
«l’elogio di un valore sommesso e discreto, declinabile in varie maniere: la gentilezza, quella capacità di ascoltare e accogliere le fragilità altrui, che è anche generosità, altruismo, solidarietà, amorevolezza.
L’intento non è né moralistico né edificante: la gentilezza è semplicemente un dei modi migliori per essere felici, è un piacere fondamentale per il nostro benessere.
La domanda che muove l’indagine è la seguente: perché la gentilezza è diventata per la nostra epoca un tabù? Oggi molte persone trovano questo piacere incredibile o quanto meno sospetto, la maggior parte di noi pensa che in fondo siamo tutti pazzi, cattivi e pericolosi, competitivi e autoreferenziali.
Scritto da una storica e da uno psicanalista, questo libro cerca di rispondere alla domanda e affianca al confronto con la psicanalisi una dettagliata ricostruzione storica, che va dalla grecità ai giorni nostri, del tema della gentilezza, come valore irrinunciabile della vita buona. Mostra quando e perché tale fiducia si è dissolta e spiega le conseguenze di tale trasformazione.
E’ la gentilezza che rende la vita degna di essere vissuta e ogni attacco rivolto contro di lei è un attacco contro le nostre speranze». [dal risvolto di copertina]
Nei venti anni trascorsi accanto all’esistenza spezzata non ho mai trascurato di essere gentile, ma non per abito acquisito, né per metodo: l’attivazione degli strati profondi della sensibilità personale è stata sempre da me promossa a vantaggio di una comunicazione che mirasse alla costruzione di relazioni significative. Ho avuto di mira la liberazione della persona che avevo di fronte dalle sue schiavitù, perché io stesso ne uscissi liberato ancora dalle mie schiavitù.
Perché fosse possibile l’incontro di queste due libertà è stato necessario mostrare la trasparenza della mia anima, pur nella necessità del ‘setting’ educativo: il colloquio di motivazione ha le sue regole. Non essendo terapeuta né assistente sociale, avevo da esibire solo la mia umanità di Educatore. Quest’ultima prerogativa, infine, non può essermi contestata da nessuno, essendo stata da me conseguita con gli studi universitari e con una pratica professionale nei Licei durata trentacinque anni. Conclusa l’esperienza professionale, posso riconsiderare retrospettivamente anche i venti anni di ‘volontariato’ alla luce di quella esperienza, che è forse l’esperienza della mia vita: se ho acquisito un’identità pubblica, che ha illuminato anche la mia vita privata, è stata quella di insegnante.
Ai miei alunni non ho mai impartito nozioni né ho preteso la restituzione della mera conoscenza.
Il sapere ‘erudito’ è dispendio delle energie mentali: più importante per me è stato ricordare i nomi, le situazioni, le emozioni; dare un nome alle vicissitudini della coscienza; instaurare un dinamismo etico nelle relazioni con i ragazzi che motivasse allo studio, per il bisogno urgente di bonificare l’ignoranza personale; ho accolto nella mia mente ognuno di loro, riservando a ciascuno di essi uno spazio adeguato; ho anteposto l’enciclopedia al sistema; ho indicato la giusta attesa e la via dell’intelligenza, che è sempre più lunga; non ho contrapposto il cuore all’intelligenza, perché tutte le facoltà dei ragazzi fossero parte di un unico sforzo teso alla conoscenza di sé e del mondo; ho fatto nascere in loro la curiosità per le profondità dell’anima dei compagni, facendoli esercitare a dare un nome a sentimenti, emozioni, passioni; ho indicato il governo di sé come una delle mete ambite della vita, senza trascurare l’esperienza del dolore che sola favorisce il governo dei sentimenti.
Per questa via, non ho mai trovato il tempo di punirli per le loro intemperanze, di cui non ricordo la gravità, forse per il fatto che esse non hanno mai turbato la mia sensibilità e il mio onore.
Ho impiegato tutto il tempo che avevo per amarli, favorendo in tutti i modi possibili la loro crescita. Di questo amore essi hanno potuto avere sentore solo vedendomi lavorare. Qualche giorno prima di andare in pensione, Elena è stata costretta a chiedermi se volevo bene alla classe. Evidentemente, non era contenta del fatto che andassi via. Solo allora ho manifestato i miei sentimenti apertamente, rimproverandola del fatto che me lo chiedesse: tutta la mia carriera era stata un solo atto d’amore vero i ragazzi. La loro liberazione dai ceppi dell’ignoranza e dal rischio della stupidità era già ricompensa.
Il segreto era chiuso in una sola parola: pazienza. L’energia spirituale degli Educatori è nella personale capacità di attendere i risultati dell’azione educativa, non smettendo mai di credere che i ragazzi possano farcela.
Dalla scuola alla vita – dovrei dire, forse, dalla scuola alla strada – il passo è stato breve per me. Nel Centro di ascolto la gentilezza è stata associata alla fermezza.
Ancora oggi raccomandiamo alle famiglie, fin dai primi contatti, fermezza e gentilezza come principi a cui ispirarsi.
Se fermezza è capacità di far valere ancora domani quello che si afferma oggi, gentilezza è non scadere mai nell’offesa personale, nell’insulto, nello sproloquio, nell’elucubrazione privata: abbiamo di fronte una persona affetta da un disturbo grave – tale è la tossicomania – che attende risposte, che non sa nemmeno formulare a volte la richiesta d’aiuto.
Il dono del tempo, lo spazio linguistico comune in cui far esprimere il vissuto doloroso personale, il ritmo del colloquio di motivazione preparano il contatto emotivo, lo scambio emotivo, l’attitudine empatica alla condivisione di significati da contrattare nel tempo, perché l’alleanza educativa acquisti valenza ‘terapeutica’. La capacità di costruire reti solidali intorno alla persona che chiede aiuto, avvalendosi poi di tutte le competenze professionali richieste dal caso, genera la fiducia nell’altro, che si sente accolto, finalmente compreso, accettato così com’è.