HUGO SIMBERG, L’angelo ferito
Giovedì 20 agosto è stato un giorno triste. Esattamente un anno fa moriva Danilo. La famiglia lo ha ricordato con una Messa di suffragio nel paesino dove visse. La Chiesa era piena di gente. All’ingresso, accanto al padre una donna minuta con gli occhi inumiditi dal pianto, come lui. Anche lei era lì a ricordare suo figlio, amico di Danilo. Come se avvertissi il sentimento che li accomunava, ho detto che il tempo non guarisce. E non cura nemmeno. Quando si tratti di un figlio, sembra che il trascorrere del tempo peggiori le cose: il dolore si fa più amaro, il vuoto più allucinato. Entrambi hanno riconosciuto che è così e mi hanno sorriso debolmente. Avevo sentito dire nel Centro di ascolto da alcuni genitori che è così. Marscia mi aveva chiesto, qualche anno fa, l’indomani della morte di Ernest: «Come si fa a seppellire un figlio?». Ora, eravamo lì a considerare con pochi sguardi e pochissime parole quanto sia difficile affrontare un dolore che non diminuisce e non scema con il lutto. La perdita di un figlio giovane è veramente l’Irreparabile per eccellenza. Sulla piazza, da una panchina appartata ho scorto la compagna di Danilo, con il piccolo Mattia, che non conoscerà mai suo padre.
I pensieri che sono venuti dopo non possono essere comunicati a nessuno, perché attengono a quell’ordine di cose che nemmeno la Morte autorizza a nominare: le scelte non fatte, le responsabilità, le colpe. C’è un modo speciale di pregare, oltre il canto corale e il rito ecclesiale. E’ il lavoro paziente ed ostinato della mente che rievoca i giorni perduti e i sorrisi, le voci e le pause della vita. Queste ultime, più di ogni altra cosa, sono responsabili dei mancati giorni: ah, se potessimo riempire in fretta quei vuoti e lanciarci nella mischia della vita e dire Sì! acconsentire a chi si fa angelo per noi e indica la strada che poi percorreremo insieme!
Noi viviamo invece in quell’intervallo, che dilatiamo a dismisura, rimandando ad altre ore e ad altro giorno quello che dovremmo fare subito, perché la vita ci chiama. Occasioni perdute? Appuntamenti mancati? Quale nome dare alla facile illusione che le cose miglioreranno, senza che noi mettiamo nelle cose stesse parte del nostro sangue, il sudore della fronte, l’ansia di fare?
E’ proprio di fronte alla perdita irreparabile che risalta il valore dell’Educazione, la fatica di Sisifo sempre rinnovata degli oscuri agrimensori del reale che ricreano per le giovani menti le carte della terra e del cielo, infaticabilmente.
Plasmare ciò che c’è di più irreale e indicare le strade nel deserto è compito: e cos’altro dovremmo fare se non affidare alle parole il compito di dire quello che salva? Dobbiamo forse rinunciare all’idea che possiamo essere fonte di speranza e occasione di salvezza? Saremo dunque timidi di fronte alle parole più grandi – speranza, pace, salvezza – e declineremo l’invito che ci è stato rivolto la prima volta da chi ci prese per mano e ci spinse a donare il tempo e con esso la parte migliore di noi, per salvare il mondo? Non è più vero che «chi salva una vita salva il mondo intero»? Ci arrenderemo di fronte all’Oceano, spaventati dal pensiero che da esso potremo sottrarre solo poche gocce d’acqua con il nostro cucchiaino, ingannati dagli strumenti ben più potenti di coloro che ciechi avanzano senza vedere che distratti calpestano i corpi e le anime dei loro figli, incuranti del bisbiglio che sale tremendo dalla Terra, voce che implora e che accusa e che non trova pace, perché i Padri sono assenti, lontani, distratti dalle cure del mondo, resi muti dal dolore dei figli ormai lontani? Dove troveremo il coraggio di consistere nelle nostre case, senza cercare lontano le nostre ragioni? Quando apriremo il nostro cuore al grido che sale da ogni parte del mondo dei figli smarriti e dolenti, storditi dalle luci artefatte della città, istupiditi e stanchi di cercare chi tace accanto a loro, immemore del compito?
Sempre di nuovo, la porta spalancata che si staglia davanti a noi aspetta di essere varcata proprio da noi. Essa è stata aperta per noi. Se indugeremo ancora, sarà chiusa e resterà chiusa per sempre.