Quello che abbiamo ‘di fronte’, ‘in presenza’, e che chiamiamo ‘altro’, che pensiamo di capire, che sentiamo di comprendere non è una semplice-presenza. E questo lo sapevamo già: c’è dell’altro. Occorre superare, oltrepassare il mero fatto fisico, i dati sensoriali, le impressioni, i conati, per realizzare un contatto, un incontro non occasionale e non superficiale.
La realtà dell’altro – come la nostra – trascende l’apparenza sensibile, ma non è da questa separata, identificandosi come totalmente altra: un’essenza indifferente alla corporeità, al linguaggio incarnato, alla realtà concreta dell’anima. Marina Cvetaeva ci illumina al riguardo: «… l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne».
La pasta, dunque, di cui è fatta la persona che mi guarda è data da sguardi, pieghe del viso, movimenti delle braccia, intonazioni della voce, apostrofi, singhiozzi, talora lividi irrigidimenti, esplosioni di gioia, fiduciosi abbandoni.
I dolori innominati di Pietro Verri, il non detto delle emozioni di Claude Olievenstein, il silenzio dell’Abate Dinouart, la dissimulazione onesta di Torquato Accetto, l’indifferenza di Marcel Proust, ma anche il Presupposto di Schelling, l’indicibile di Platone, l’indecidibile di Jacques Dérrida…
Al di qua dell’espressione di sé noi avvertiamo nell’uomo, in ogni uomo, l’esistenza di una parte nascosta che aspiriamo ad illuminare, a far emergere, ad afferrare. C’è del mistero, ma più spesso qualcosa è sottaciuto, negato, rimosso.
L’Inconfessabile, poi, a dispetto della spudoratezza dei tempi, continua a costituire parte grande della vita della coscienza.
Noi ci affacciamo esitanti sulla vita al mattino, in cerca di conferme e di riconoscimenti, spesso sicuri di noi e indifferenti alla risposta che riceveremo; più spesso, bisognosi di un sorriso, di parole gentili, addirittura di cure.
L’indifferente e l’onnipotente difettano gravemente di umanità. La loro umanità è dimidiata, offesa, pericolosamente protesa verso di noi, giacché da essa non verrà ciò di cui abbiamo bisogno: solo dolore ci sarà riservato dal freddo che ha dentro chi non è capace di medesimezza umana e da chi ha bisogno di affermarsi indipendentemente da ogni umano riconoscimento. Questi due tipi umani sono esempi di chiusura al mondo, non importa se inconsapevole o patologica.
Siamo interamente situati dalla parte dell’Aperto, dalla condizione animale prima alle forme spontanee, irriflesse dell’espressione umana. L’ingenuità infantile e l’innocenza primigenia, la verginità e la purezza sono cose che vengono meno. Eppure, Paul Ricoeur ha postulato la possibilità di un’innocenza seconda che è consentito attingere. La niciana malinconia del così fu non ci appartiene. Giustamente, Elie Wiesel ha scritto contro la malinconia.
All’individuo sovrano promesso da una società che genera follia, come rivelato da Claudio Risé, noi opponiamo l’uomo nomade, che si congeda dalla Terra, per imparare a rispettarne la legge, lasciandola in eredità a coloro che verranno, grazie alla rinuncia a sfruttare la Natura, deturpandone la bellezza.
All’anima, che aspira ad aprirsi all’altro, mossa dal desiderio di conoscenza e di felicità, si presenta uno scenario inquietante. La folla solitaria di David Riesman, l’individuo eterodiretto nell’epoca della colonizzazione delle coscienze, è un esempio di ‘assenza’. Povertà e schiavitù, ignoranza e corruzione delle coscienze, addiction, sociopatia.
Il dolore che suscita in noi lo spettacolo dell’umanità ferita è sentimento di giustizia, aspirazione a sanare antiche ingiustizie e forme di sopraffazione e minorità spirituale che si ripresentano in forme nuove.
L’ansia e l’angoscia, le angustie della mente e il male oscuro della depressione accompagnano, precedono o conseguono ai vizi sociali e a tutte le derive del tempo.
Spesso noi cerchiamo una umanità che non troviamo: negli altri scopriamo la sofferenza generata dagli istinti incontrollati e dai bisogni deviati dalla loro giusta meta.
C’è da meravigliarsi quando sia possibile veder emergere una persona da ciò che opprime e sfigura l’umano in noi. L’anima dell’altro, «quasi carne», è ciò che cerchiamo: l’affermazione di sé nelle forme autentiche che è possibile realizzare, rendere reale, visibile allo sguardo di chi abbia capacità di visione.
Il farsi carne dell’anima è sguardo, voce, desiderio. Ciò che aspiriamo ad incontrare è tutto ciò, in mezzo alla foresta dei simboli, certo!, ma sicuramente oltre indifferenza e diniego, nell’aperto.
La tonalità del contatto è promessa e speranza.