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Le moderne Neuroscienze e le Scuole psicoterapeutiche conoscono bene la natura della ‘risposta’ all’azione d’aiuto che abbia ricevuto una persona affetta da disturbi psicologici quando la terapia giunge al termine. E’ noto, altresì, il dibattito su “analisi terminabile e analisi interminabile” in psicoanalisi.
Nel campo sociale ed educativo si pone più ‘modestamente’ la questione della gratitudine, cioè l’attesa di forme di riconoscenza che non sappiamo bene nemmeno noi come debbano manifestarsi e in quale misura. Come Operatori sociali e come Educatori siamo portati a pensare generosamente che ci aspettiamo soltanto che la persona che si era legata a noi si allontani mostrando di aver appreso a vivere autonomamente e consideriamo questa la maggiore ricompensa che ci possa venire per il lavoro svolto. Diciamo anche apertamente a chi si ponga la questione e ci interroghi sul da farsi che solo questo ci sta a cuore, che l’altro riprenda a vivere senza il disagio sociale che l’aveva spinto a cercare il nostro aiuto. Sentiamo veramente un benessere non generico ed effimero, ma un senso accresciuto di pace per aver ristabilito un po’ di giustizia nell’Universo, dopo che una ferita presente nel corpo sociale si è richiusa e tutto il mondo sembra gioirne con noi.
Eppure, talvolta avvertiamo un piccolo disagio per il modo in cui l’altro si allontana, per il silenzio di anni che interviene a suggellare una relazione finita, perché interrotta. E’ accaduto spesso che le persone che hanno ricevuto aiuto siano scomparse. Non sono arrivati più nemmeno gli auguri di Natale. Il vecchio Musatti, padre della psicoanalisi italiana, a proposito di termine dell’analisi rispose una volta che l’analisi si poteva dire conclusa quando il paziente non gli mandava più gli auguri di Natale. E’ facile comprendere a cosa alludesse. La libertà ritrovata non dovrebbe riguardare anche chi ha restituito la persona alla sua libertà?
Con questo, sembrerebbe tutto chiaro. Se non che, resta il nostro piccolo disagio, il bisogno di ‘continuare’, la sensazione che qualcosa ci sia stato sottratto. Il disagio si manifesta nella forma ingenua dell’attesa di un ringraziamento che forse pure c’è stato ma che non ci appaga. Tra gli Educatori c’è chi coltiva ancora per anni un rapporto che si nutre di ‘verifiche’, di contatti telefonici in cui l’utente del Servizio chiede aiuto in momenti di incertezza sul da farsi. Igiene mentale? Consulenza breve? Controllo del canale, per accertarsi che sia ancora possibile comunicare? Insicurezza da ‘bonificare’?
La manutenzione degli affetti è anche parte di questi comportamenti ‘residuali’: dalla parte nostra, pensiamo che ci debba essere ancora cura dell’altro; che il compito sia finito, ma che resti aperto e impregiudicato il campo del vivere comune, della normalità delle relazioni e degli affetti: che si possa accedere a un nuovo modo di relazionarsi all’altro, non più dipendente da noi, ma pari a noi, quasi amico, ormai.
In verità, immaginiamo la riconoscenza nella forma disinteressata dell’amicizia. Che dall’altro venga un naturale bisogno di coltivare in forme rinnovate la relazione educativa. Ma può l’amicizia nascere solo perché noi lo desideriamo? Sappiamo che non è così. E poi, non è amicizia il sentimento che ci attendiamo dall’altro. La gratitudine è un acconsentire e un lungo ringraziare che prende in ogni essere umano forme inedite. Il silenzio di anni non è assenza di gratitudine. Il benessere (ri)conquistato è la meta e il risultato atteso. Altro non è dato ‘chiedere’.
Quel nostro bisogno deve morire. Ad esso noi dobbiamo rinunciare. Occorre sacrificare questa ‘domanda’ del nostro Ego, in nome di un rispetto dell’altro che se ne va, alimentando in noi il sentimento adulto che osserva la vita prendere forma e acquistare capacità di autogoverno che non dipendono (più) da noi. Dobbiamo far tacere le nostre emozioni, per quanto blande e innocue esse siano. Anche il piccolo disagio deve cessare. L’assedio del disagio presente nell’altro è finito: non c’è motivo di attendere ancora. La vita è in ordine intorno a noi.
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Le basi dell’educabilità di un Educatore (in Exodus) sono tre: muovere verso se stessi, verso gli altri, verso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.