Dei giorni trascorsi nel Centro di ascolto – il pomeriggio dalle 17.00 alle 20.00 – i più duri sono quelli passati con i genitori che si presentano all’improvviso, senza appuntamento, che si siedono senza nemmeno rendersi conto del fatto che c’è un altro colloquio in corso, e che prendono a parlare dei loro figli senza aspettare che si chieda loro perché sono lì e cosa li porti a comportarsi così.
La loro angoscia è evidente. Anticipano catastrofi, per sentirsi dire che non sarà così, che il loro figlio non è in pericolo e che abbiamo già una soluzione pronta, se hanno interrotto il programma di recupero bruscamente, dopo un tempo non sufficiente per poter dire che siano fuori pericolo. Magari imprecano e si augurano che un vento improvviso si porti via il figlio degenere. Lamentano stanchezza, vecchiaia, malattie. Dicono di aver fatto tutto il possibile. Di aver tentato tutto. Scetticamente considerano il nostro lavoro, quasi a volerci sfidare: esistono altre soluzioni al problema? Si allontanano. Si staccano da noi e dai loro figli. Quasi a voler difendere quello che resta, che di solito è poco. Come se tutto intorno non fosse che paesaggio desertico, ormai. Le labbra sono asciutte, come gli occhi, che hanno pianto tutte le lacrime possibili. Noi siamo accanto al loro deserto, evocato quasi per convincerci del fatto che è giusto arrendersi. Il tempo è scaduto. Non abbiamo più carte in mano da giocarci…
Li lasciamo parlare fino a quando hanno fiato per farlo, talvolta anche per ore. Di fronte al loro dolore, tutto il Centro si ferma. Nessuno reclama per vedere rispettato il proprio turno, per un colloquio ‘saltato’… Nessun rumore nella stanza interviene ad interrompere i lamenti e le recriminazioni, i rimpianti e i sarcasmi amari. Questo è il tempo del dolore. Sembra un dolore estremo, senza rimedio. Invece non è così.
Noi non ci arrendiamo mai. Anche la morte di tanti ragazzi che abbiamo conosciuto ed amato, che abbiamo assistito e affiancato, che abbiamo cercato inutilmente di salvare, è materia di contestazione. Non possiamo fare a meno di piangere i nostri morti, ricordandoli tutti i giorni silenziosamente e segretamente. Ma non consideriamo ineluttabile nulla, nemmeno l’evidente scacco della morte. Nemmeno da essa ci sentiamo toccati, fino al punto di doverci chiedere se ne vale ancora la pena.
In agenda ci sono sempre nuovi ragazzi – spesso ragazzi-adulti – che tornano a cercarci, perché il dialogo avviato non si interrompa. Le file di continuità promosse non possono essere spezzate da nessuna incomprensione e da nessun fraintendimento. Passiamo il tempo a scontrarci sul da farsi e a discutere sulla verità delle cose. Invochiamo onestà e trasparenza, per creare le condizioni del cambiamento. Ma alla fine di ogni colloquio ci lasciamo sempre con un nuovo appuntamento. Annotiamo subito il numero di telefono e ci affrettiamo a lasciare il nostro, perché non intervenga il silenzio a interrompere la discussione avviata.
Ci ritroviamo dopo pochi giorni sempre pronti a riprendere il discorso da dove lo avevamo interrotto, perché il tempo era scaduto o perché un vecchio padre, avvilito e stanco, si era presentato all’improvviso a chiedere senza chiedere, perché solo noi sappiamo attraversare la disperazione più grande e in mezzo a tante parole individuare quella che costituisce il varco in cui inserirsi, per riaprire la strada della speranza, che non rinunciamo mai a invocare perché la sua timida ala non ci abbandoni.
Noi sappiamo schiantarci e in mezzo al vuoto del dubbio che divora e alla perdita di ogni certezza rialzarci con chi era caduto accanto a noi, implorando aiuto. Dopo essere scesi nel fosso, dove era precipitato il ragazzo, risaliamo la china, incuranti del frastuono degli elementi che non favoriscono mai le risalite.
Noi dobbiamo imporre al dolore di tacere, perché è tempo di agire. Aiutiamo i genitori a capire quando si agitano senza muoversi, quando dicono di voler fare e non fanno perché hanno paura e li aiutiamo a sconfiggere la paura. Il timore e la vergogna paralizzano ogni buona intenzione, ma soprattutto è la scarsità delle conoscenze a non favorire un intervento appropriato.
Ansia, paura e vergogna si accavallano e non aiutano a ragionare sul da farsi. Allora bisogna raccomandare gentilezza e fermezza, richiamando l’attenzione sull’io frammentato del ragazzo, per rendere chiaro il fatto che egli cerchi risposte di qua e di là, senza trovarne mai. Solo l’attivazione della rete intorno a loro diventa risolutiva. Occorre, per essa, la collaborazione dei genitori, perché il ragazzo percepisca nei cambiamenti intorno a sé un motivo di speranza: se cambiano i genitori, c’è speranza anche per i ragazzi…
Questa sera il padre di Marco era disperato, ma lucido. Diceva di dover pensare solo alla sua salute, ormai. Non c’era più alcun dubbio: era stanco e senza risorse per poter continuare ad aiutare il figlio. Eppure, tra le cose raccontate sull’uscita di Marco dalla Comunità, proprio nella fase del reinserimento, io sono riuscito a trovare il varco, l’idea da abbracciare, dopo oltre dieci anni di tentativi tutti falliti o interrotti prematuramente. La costante da me rilevata è diventata subito oggetto di ‘studio’ per noi. Al di là degli insuccessi con le donne, al di là della fragilità e della ‘semplicità’ culturale che fanno di lui una persona instabile socialmente, psicologicamente insicura, ho ricordato il fatto della mia vita che poteva servire a quel padre per capire: io avevo paura di mio padre. E l’ho scoperto il giorno della sua morte. Percepii chiaramente il fatto che non avevo più paura di lui.
E se suo figlio stesse provando qualcosa di simile, che lo portava a ‘perdersi’ tutte le volte che usciva di casa da solo, perché paralizzato dalla paura di sbagliare?
Abbiamo discusso a lungo su questa eventualità. L’idea di impedire a Marco di tornare a casa, per aver interrotto il programma sul più bello – mentre stava per partire il reinserimento sociale e lavorativo -, è stata messa da parte. Alla disperazione è subentrata l’idea di accogliere Marco nel caso fosse tornato dal Nord, dove era diretto in cerca non si sa bene di cosa, per aiutarlo ancora ad affrontare le sue paure.
A quel padre non più disperato, al termine di tutte le discussioni, ho potuto dire che Marco ha solo noi: tornerà qui a cercare di dare senso alla sua vita. Noi dobbiamo continuare a pensare la sua esistenza, per tentare ancora di raggiungere il suo cuore. Al padre che sembra non conoscere più la strada che conduce fino a lui abbiamo suggerito di procedere alla maniera dell’eroe tragico, che va incontro al suo destino dopo aver deposto le insegne regali.
Marco tornerà a casa. Cercherà di capire se sia possibile ancora, ma tornerà, quando il suo tentativo di affrontare la fortuna a mani vuote fallirà. A quel padre non più eroe, non più re, si rivolgerà ancora, per raccontare la sua storia improbabile. Privo delle sue insegne, il padre dovrà aprire il suo cuore a questa nuova evidenza. Oltre il dolore più grande, perché non spera più di salvare suo figlio, dovrà trovare la via che conduce al suo cuore. E’ solo lungo quei sentieri da nessuno mai battuti prima che si salveranno. La terra da calpestare non è segnata da nessuna pietra che indichi in quale direzione procedere. Ma non è sempre così? Non vale anche per noi, quando cerchiamo di dare radici a un amore, perché il vento non sconvolga i teneri germogli e perché i ladri e la tigna non sopraggiungano a sottrarci ciò che abbiamo lungamente accarezzato e che abbiamo sperato di non perdere mai?