Un giorno parlerò dei morti, dei nostri morti, di tutti i ragazzi che sono morti senza essere mai diventati vecchi, senza essere stanchi, senza malattie del corpo, senza colpi del destino… Dovrò decidermi a fissare la memoria, magari dicendo tutti i loro nomi e basta. Come abbiamo fatto a volte, in questi lunghi venti anni, quando un Fondatore di Comunità nel mezzo di una Messa ha invitato i presenti a dire ad alta voce il nome di un ragazzo che non c’è più.
Abbiamo anche imparato a seppellirli. Per ognuno di loro scriviamo una pagina che viene letta da un ragazzo che sta bene, perché testimoni con la sua voce ferma che non vince sempre la morte. Ricordiamo a chi non sa quanta mitezza e dolcezza ci fosse in quel cuore, quanta paura, quanto bisogno d’amore.
Sappiamo bene che ogni morte non è servita a niente. Non ha fatto ‘scuola’. Non ha insegnato quanto sia facile morire. Non ha fermato nessuno. Una famiglia si è affannata a scrivere, a testimoniare in pubblico. Una madre è venuta a parlare ai genitori, convinta di trovarcene pochi, perché pensava che la morte di suo figlio avesse scavato nei cuori! che gli altri ragazzi avessero appreso da quella perdita cosa ci sia da fare per impedire che si verifichi l’irreparabile! Quella madre era sbigottita. Disse chiaramente: ma siete ancora tutti qui? La morte di suo figlio allora era stata inutile!?
Marscia mi aveva detto: «Ma come si fa a seppellire un figlio?» – Abbiamo imparato anche questo. Riusciamo perfino a non piangere.
Lo scioglimento arriva molto tempo dopo. Quando, in una fredda sera d’inverno, ci sembra di sentire che qualcuno bussi alla porta, ma non c’è nessuno. Lo sappiamo bene. Sono loro che sommessamente chiedono di essere ricordati. E non c’è giorno che il pensiero non vada a uno di loro. Il nostro cuore è campo anche per loro.