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10 dicembre 2010
A Karen Blixen va il merito di aver raccontato di sé nella maniera più significativa per noi, consegnando all’altro il compito di farlo. Dopo di lei, non possiamo fare a meno di desiderare per noi la stessa cosa. E nello stesso tempo dobbiamo raccogliere la lezione che ne deriva. Il nostro compito è suggerito dall’altra metà della ‘storia’: il nostro sguardo si farà voce narrante; saremo noi a raccontare la storia di coloro che amiamo.
In apertura del suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti (recensione), Adriana Cavarero riferisce la ‘vicenda’ della scrittrice danese:
Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da uno strano rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna.
“Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, e altri vedranno una cicogna?” [Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli 1996, p.200], si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?
La stessa filosofa avverte che la nostra domanda di senso, la richiesta di un significato da dare alla propria esistenza, all’interno della relazione amorosa, nasce dal desiderio: la vita avanza sotto la spinta del desiderio. Tuttavia, non è detto che riusciremo a dare un senso alla nostra vita. Non resta che continuare a desiderare che lo sguardo dell’altro sappia posarsi su di noi, facendosi nel tempo la voce narrante che noi non possiamo essere per noi stessi.
Se consideriamo le cose dalla nostra parte, relativamente al compito che l’altro assegna a noi, troveremo un secondo significato da dare all’espressione arredare la provincia dell’uomo. Le regioni inferiori dell’essere da noi abitate, lo ‘spazio della vita’ (Lebenswelt) in cui siamo immersi e che ci definisce da ogni lato, costituiscono l’ideale ‘provincia’ dell’impero abitato dagli umani, ritaglio esistenziale spazio-temporale in cui si gioca e si consuma il personale modo di consistere di ognuno.
Solo uno sguardo di seconda vista riuscirà a fare storia di un’esistenza; solo lo sguardo amorevole di chi sa si inchinerà sull’altro per raccogliere giorno dopo giorno i frammenti di senso, salvando l’istante intenzionale che lampeggia attraverso il corpo, la coscienza, la continuazione di sé.
Istituire file di continuità là dove c’è solo accidente, effimero concedersi delle cose, stupefatto intervallo, pausa interdetta e timore.
Prendersi cura dell’altro non è soltanto sovvenire alle sue necessità, ai bisogni, alle mancanze, per riempire il vuoto di un’esistenza che non sa trovare in sé il senso del proprio umano ek-sistere. Se l’amore ha la proprietà morale di farsi compimento di narrazioni interrotte, è questo il senso dell’arredare la spazio dell’ek-stasis mondana: trascendere il mero dato sensibile, per attingere senso e poter finalmente respirare piano la felicità è possibile a condizione che l’esistenza che si affida a noi possa contare su uno sguardo – il nostro – che non verrà mai meno, perché impegnato a tessere quelle file di continuità che sono già la trama del racconto che verrà.
La ‘provincia’ che dovremo visitare con lo sguardo amoroso è da custodire nel proprio cuore, perché in ogni istante della propria vita la persona da noi amata senta la presenza in noi delle sue ragioni: forniremo periodicamente prova della nostra capacità di ‘narrare’, mostrando frammenti della memoria dell’altro da noi costruita.
Si è sempre in quattro in ogni relazione duale: noi, l’altro, l’immagine che l’altro si è fatta di noi, l’immagine che noi custodiamo dell’altro. Ciò che qui chiamiamo immagine non è semplicemente ‘figura del cuore’, allegoria vivente del fuoco della passione o metonimico slittare del senso alla maniera del piacere che progressivamente procede da una figura all’altra. Si potrebbe dire che ogni vero amore è questo costrutto dell’altro che ci portiamo dentro per decenni e che siamo impegnati a rifinire e a modellare per farne finalmente narrazione.
Ma che cosa avremo da narrare? quale cicogna disegneremo lungo lo spazio che ci si para dinanzi, autentica terra incognita per noi? Io credo che servirà al racconto possedere la figura che salva, essere noi stessi quella figura, incarnare continuità e compimento, senza rinunciare alla parola liminare sulla vita che se ne va a poco a poco. L’arte che dobbiamo esprimere è tutta qui: la parola ingaggerà la sua guerra con la Morte, per affermarsi fino in fondo su di essa. Dovremo credere che quanto è oggetto del nostro credere sia destinato a durare: la bellezza che non cessiamo di esaltare dovrà essere continuamente riguardata come bene destinato a durare per sempre. Riuscire in questo compito è compito dell’amore.
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Si raccomanda la lettura dei seguenti interventi di Adriana Cavarero:
(dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche della RAI – Il Grillo, 17 febbraio 1998): Il racconto dell’identità e
(dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche della RAI – Questioni di filosofia, 22 febbraio 1998): L’identità
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ANTONIO GNOLI intervista Adriana Cavarero a Tuttoingioco, 6 settembre 2009: