La forza del desiderio

La fenomenologia come pratica spirituale (382): La forza del desiderio
Sabato 15 febbraio 2025

Voi ch’ ascoltate in rime sparse ‘l suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
Francesco Petrarca, Il canzoniere, 1356

Alle sorgenti della letteratura europea moderna incontriamo un testo che esalta subito l’ascolto, più che la lettura, il suono, più che la parola, il sospiro, più che l’invocazione. Diremo, senz’altro, primato del significante, assunto a registro risolutivo del dissidio interiore che lacera la coscienza inquieta del poeta. Nella tensione tra biografia ed opera, infatti, nella quale cercheremo sempre un elemento decisivo della poetica degli autori, tutte le volte che ci dedicheremo alla lettura non occasionale delle loro opere, risalta il carattere non componibile della divisione petrarchesca tra terra e cielo, amore sacro e amore profano. La ‘soluzione’ trovata dal poeta è nell’opera, nella quale i due termini convivono nel farsi voce del desiderio, in un risalire alle ragioni della Fonè, che rende visibile l’errare in cerca che è proprio del desiderio umano.

Canto di donna che si sa non vista
dietro le chiuse imposte, voce roca,
di languenti abbandoni e d’improvvisi
brividi scorsa, di vuote parole
fatta, ch’io non discerno.
O voce assorta, procellosa e dolce,
folta di sogni,
quale rapiva i marinai in mezzo
al mare, un tempo, canto di sirena.
Voce del desiderio, che non sa
se vuole o teme, ed altra non ridice
cosa che sé, che il suo buio, tremante
amore. Come te l’accesa carne
parla talora, e ascolta
sé stupefatta esistere.

Sergio Solmi, Poesie, 1950

Qui, l’invocazione aperta alla donna è evocazione del suo canto, riconoscimento di un’istanza di discorso che si fa immediata voce del desiderio: è attraverso il canto che la donna riesce a dare voce al suo desiderio. Ciò che è in questione, per noi, allora, è il raccordo ‘necessario’ tra voce e desiderio, l’assunzione del Desiderio come forza insopprimibile dell’esistere umano e il risalimento alla Voce come luogo d’incontro tra desiderio e linguaggio, nella zona dell’esperienza in cui si dà la nascita dell’individuo.

 La natura del desiderio, le sue vicissitudini e le sue aporie

Il desiderio è la marca della mancanza.

Il nostro assunto fondamentale è riassumibile nella nozione stessa di desiderio, in una natura che ne fa un primum, la radice dell’umano, se ad esso occorrerà far risalire ogni istanza spirituale, come ogni stato di coscienza, per spiegare i modi in cui le singolarità che chiamiamo persone si declinano nel mondo. In ogni gesto, azione, atto è possibile rintracciare l’istanza del desiderio. Ad esso bisognerà far risalire le condotte suntuarie tipiche delle dipendenze, come ogni forma di normale dipendenza dall’altro, anche se un maturo sentire si qualificherà sempre come saper esprimere le affezioni dell’anima come moti relativamente indipendenti dall’altro. L’approdo maggiore è costituito dalla nozione hegeliana di desiderio, ché esso viene ricondotto alla dialettica del riconoscimento da parte dell’autocoscienza: il desiderio umano, come marca della mancanza, si definisce e si ‘esprime’ soltanto rispetto all’altro.

E’ stata chiamata ingresso inaugurale della morte nella vita la scoperta del peso della lontananza, dell’assenza, della privazione, di cui fa esperienza il bambino quando vede allontanarsi la madre, non importa se per andare nella stanza accanto, per uscire di casa, o perché intenzionata ad abbandonare suo figlio, o perché raggiunta dalla morte. Nel famoso gioco del rocchetto, Sigmund Freud osservò il bambino esorcizzare quella mancanza con il lancio di un rocchetto, a cui aveva avvolto un filo, sotto un mobile, per procedere poi al movimento inverso: mentre giocava a far scomparire e a far riapparire il rocchetto, il bambino pronunciava suoni che Freud interpretò come Fort e Da. Di fronte all’esperienza della mancanza, gli umani procederanno sempre allo stesso modo, elaborando simbolicamente come perdita la semplice distanza, la lontananza, l’assenza, l’abbandono, perché separati dall’unità originaria con la madre, alla quale aspirano a ricongiungersi. Se il momento del Fort che caratterizza la manipolazione ludica della realtà, che mira ad esorcizzare la mancanza, è più ‘facile’ da gestire, si rivela problematico e complesso il momento del Da, cioè l’adozione di strategie di apparizione che valgano a far durare nel tempo chi è solo distante, assente; ad assegnare un significato simbolico alla mancanza, all’abbandono, alla perdita.

E’ costitutivo della condizione umana il riconoscimento della mancanza. I gesti, le azioni, gli atti liberi del soggetto del desiderio sono una risposta all’esperienza del negativo: da ciò che è semplicemente distante da noi fino alla perdita delle persone a noi care, non facciamo che sopperire a una mancanza. Dunque, lo statuto del desiderio, del nostro tendere inesausto al compimento della spinta ad esistere, risiede nella condizione degli umani, che hanno bisogno di nascere del tutto, di realizzare da ogni lato l’apirazione all’unità, non importa se vissuta come un ‘ritorno’ a una origine improbabile, perché ormai irreversibilmente consegnata all’esperienza della prima nascita, l’uscita dal grembo materno, o se vissuta come tensione a costituirsi come singolarità espressiva o persona.

Ogni pratica rivolta all’educazione del desiderio, perché il soggetto impari a consistere sempre meglio nella mancanza, è auspicabile: la cura di sé, la trasformazione con la presa di distanza dal proprio sé, ogni nuovo processo di individuazione, saranno benvenuti, se orientati a un esercizio che valga a far sì che non risulti danneggiato il desiderio dell’altro, per l’erranza e le aporie del nostro desiderio.

Anticipando una nostra conclusione, diremo che solo percorrendo insieme i sentieri del reciproco riconoscimento potremo rispondere produttivamente all’erranza del desiderio, al suo trascorrere metonimico da un ‘oggetto’ all’altro: è la causalità metonimica, infatti, l’origine di ogni deriva del desiderio. Esso è chiamato altrove, avverte il richiamo di altre voci, subisce l’attrazione di sempre nuovi sensi che le cose assumono. Di qui l’esperienza sempre cangiante che noi  facciamo della vita.

Per sua natura, il desiderio resta inappagato, anche dopo ogni godimento e soddisfazione delle sue ‘richieste’. Più che spiegarsi nei termini del rapporto soggetto-oggetto – che si qualifica in termini di bisogno -, il desiderio umano si definisce nella sua ulteriorità in termini di riconoscimento: a questo riguardo, è esemplare la lettura che ne dà Jacques Lacan quando interpreta un aneddoto riportato da Kant nella sua Critica della ragion pratica, per spiegare il ‘destino’ del desiderio stesso, quando sia messo di fronte a un impossibile. Tutta la prima parte del Libro VII del Seminario, che è dedicato a L’etica della psicoanalisi, mette in discussione la ‘risposta’ kantiana al seguente quesito: come si atteggerà un uomo che abbia lungamente desiderato una donna, se gli verrà concessa la possibilità di possederla per una notte, a prezzo, però, della vita? Secondo Kant, egli rinuncerebbe alle pretese del desiderio, per avere salva la vita; secondo Lacan, invece, proprio in virtù del prezzo da pagare, non importa quanto grande, il soggetto non esiterà a soddisfare il suo desiderio, eludendo quello che accadrà dopo il soddisfacimento stesso del desiderio, perché la natura del desiderio è tale che si afferma sullo sfondo di un impossibile, non arretra di fronte a nessun ‘ostacolo’.

 Dal desiderio come mancanza
alla causalità metonimica del desiderio

Se è vero che la situazione del desiderio è profondamente connessa, fissata, inchiodata a una certa funzione del linguaggio, a un certo rapporto del soggetto con il significante, l’esperienza analitica ci condurrà abbastanza lontano in questa esplorazione da far sì che troveremo tutto il tempo per servirci dell’evocazione propriamente poetica che si può farne, il che ci permetterà inoltre di capire più a fondo la natura della creazione poetica nei suoi rapporti con il desiderio.

Jacques Lacan, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione 1958-1959, Einaudi 2016, pp.7-8

Potremmo anche dire, rispetto al titolo del Libro VI del Seminario lacaniano, che il desiderio è la sua interpretazione, che tutta l’esistenza personale è protesa alla realizzazione del desiderio, che i gesti, le azioni, gli atti degli umani non fanno altro che velare, tradurre, alludere ad esso. La scena primaria, dopo Lacan, non sarà più gioco di forze e basta: il destino del soggetto inconscio del desiderio che noi siamo si giocherà sul terreno del linguaggio.

Al cuore delle questioni teoriche sulla creazione artistica e, prima ancora, sulla costituzione del soggetto, incontriamo la teorizzazione del registro dell’Immaginario in Lacan, che definisce «l’incidenza dell’immagine nella costituzione del soggetto, quello che egli denomina come l’azione “morfogena dell’immagine”. Si tratta […] di mostrare cme l’azione identificatoria dell’immagine operi una vera e propria plasmazione del soggetto. […] Secondo Lacan la grande novità del concetto freudiano di identificazione consiste nel suo configurarsi come il luogo di un’inedita causalità psichica inconscia. L’inconscio appare come potenza causale dell’identificazione, strutturato come una serie di identificazioni. Per questa ragione l’azione morfogena dell’Imago viene eletta da Lacan alla dignità dell’oggetto specifico della teoria psicoanalitica in quanto tale, così come Galileo ha potuto fondare scientificamente la fisica sul “punto materiale inerte”. […] Lacan non accetta la contrapposizione tra “spiegazione” e “comprensione”, tra causalità e senso […]. La sua scommessa è quella di preservare la novità epistemologica della psicoanalisi che consiste nel fatto di porsi come una scienza della causalità psichica che però sappia includere al suo interno la nozione di senso. […] La psicoanalisi è una “scienza delle tracce”, […], una scienza che adotta il senso stesso come una nuova forma di causalità. […] La definizione dell’Imago inconscia – l’azione morfogena dell’immagine – come una causalità psichica […] ha come conseguenza diretta la discriminazione tra la funzione causale dell’immagine e la facoltà soggettiva. Mentre quest’ultima si configura come un’attività creativa del soggetto, la prima si pone come funzione di produzione del soggetto. L’immagine – l’Imago inconscia – non ha tanto a che fare con l’immaginazione, non è un prodotto intenzionale dell’attività del soggetto, ma è paradossalmente senza immaginazione in quanto è un fattore di eterodeterminazione del soggetto stesso; l’azione è dell’immagine sul soggetto e non del soggetto attraverso l’immagine» (Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore 2012, pp.13-14). Lo snodo teorico maggiore, qui, è dato dal Discorso sulla causalità psichica di Jacques Lacan (Jacques Lacan, Scritti. Volume I, Einaudi 1974 e 2002, pp.145-187).

Le neuroscienze confermano il ruolo dei processi simbolici
nella vita della mente

Posto che «la mente è un processo incarnato e relazionale che regola i flussi di energia e informazioni» (Daniel Siegel, La mente relazionale), possiamo anche dire che è «il processo regolativo che crea pattern nei flussi di energia e informazioni».

«L’integrazione è il principio organizzativo che collega i vari modi in cui i flussi di energia e informazioni vengono condivisi (le relazioni interpersonali), plasmati (i meccanismi del sistema nervoso incarnato o, più semplicemente, il cervello) e regolati (la mente)».

«La mente può elaborare le informazioni in molti modi diversi; per esempio, i nostri sistemi sensoriali possono rispondere a stimoli che provengono dall’ambiente, come immagini o suoni, e rappresentarli sotto forma di pattern di eccitazione neurale che corrispondono a simboli mentali. Il cervello crea tali “rappresentazioni” a partire da vari tipi di informazioni che riguardano il mondo esterno o interno: abbiamo rappresentazioni che si riferiscono a sensazioni corporee, a percezioni mediate dai nostri cinque sensi, a idee, concetti o parole».

 Das will das Weib? Encore

Il tema che io stesso ho messo all’ordine del giorno del nostro prossimo Congresso, la sessualità femminile, è uno dei segni più evidenti della carenza di una tale elaborazione nell’evoluzione dell’analisi. Non c’è neanche bisogno di ricordare quel che Jones ha raccolto da una bocca che senza dubbio non ha nulla di particolarmente qualificato ai nostri occhi, ma che si suppone per lo meno aver trasmesso testualmente, con tutte le riserve del caso, quel che aveva raccolto dalla bocca di Freud. Jones ci dice di aver saputo in confidenza da questa persona che un giorno Freud gli avrebbe detto qualcosa di questo genere: Dopo quasi trent’anni di esperienza e di riflessione, c’è sempre un punto su cui continuo a non poter dare una risposta, ed è: Was will das Weib?Che cosa vuole la donna? Per essere più precisi: che cosa desidera? Infatti il termine will, in questa espressione, può avere un tal senso nella lingua tedesca.

Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Einaudi 2008, pag.12

Occorrerà ripetere con Freud Was will das Weib? (Nadia Fusini, Was will das Weib? Encore, Nuova corrente n.86/1981, pp. 471-490), e con Lacan rispondere Encore (Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX, Ancora 1972-1973, Einaudi 2011).

Il Was Will freudiano, che andrebbe tradotto ‘semplicemente’ con Che cosa vuole la donna?, trova in Nadia Fusini la risposta: vuole il potere, vuole esercitare il suo potere sulla vita e sulla morte, avere l’ultima parola sul nascere e sul morire. Oltre tale assunto radicale, diremo: Che cosa desidera la donna?, per rispondere: avere dall’altro il segno del riconoscimento, che l’amore si esprima finalmente attraverso i segni, con il farsi segno del desiderio dell’altro, che la dialettica tra i sessi si faccia dialettica del desiderio, mutuo riconoscimento. Solo percorrendo insieme, infatti, i sentieri del reciproco riconoscimento, nella relazione amorosa gli umani riusciranno a superare lo storico dissidio tra i sessi che anatomia e cultura ancora anacronisticamente ripropongono.

La ‘storia’ delle relazioni fra i due sessi, illustrata da Letteratura, Antropologia, Scienze psicologiche e, oggi, Neuroscienze, è costellata, tuttavia, di fruttuose incomprensioni, mancati incontri, fraintendimenti, difficoltà nella comunicazione emozionale degli umani.

Solo l’Esercizio ripetuto di cura del desiderio personale potrà sortire l’effetto di non danneggiare il desiderio dell’altro, intervenendo sulla «fratellanza inquieta» (Nadia Fusini, Uomini e donne. Una fratellanza inquieta, Donzelli editore 1995) che contraddistingue il rapporto uomo-donna, oggi.

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Come cresce la conoscenza delle cose in ChatGPT

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Conversazione con ChatGPT del 14 febbraio 2025

COME CRESCE LA TUA CONOSCENZA DELLE COSE?

La mia conoscenza si basa su un mix di fonti: il vasto corpus di testi su cui sono stato addestrato, le informazioni che posso cercare sul web in tempo reale e le conversazioni che ho con te.

Non posso “imparare” nel senso umano del termine, ma posso adattarmi al contesto e ricordare dettagli delle nostre conversazioni per rispondere in modo più personalizzato. Se vuoi, posso anche ricordare alcune cose che mi dici per future interazioni. Ti interessa sapere qualcosa di specifico sul mio funzionamento?

CERTO. PARLAMI DEL TUO FUNZIONAMENTO.

Funziono grazie a un modello di intelligenza artificiale chiamato ChatGPT, basato su una rete neurale avanzata addestrata su un’enorme quantità di testi. Il mio scopo è elaborare il linguaggio naturale per rispondere alle domande, generare testi coerenti e offrire informazioni utili.

Come elaboro le risposte

  1. Analisi della domanda – Quando scrivi qualcosa, scompongo il testo per comprenderne il significato, il tono e il contesto.
  2. Generazione della risposta – Utilizzo il mio modello per prevedere la risposta più coerente in base ai dati di addestramento e alle informazioni più recenti che posso trovare sul web.
  3. Adattamento – Se parliamo a lungo, posso ricordare alcuni dettagli della conversazione per mantenere coerenza e personalizzazione.

Cosa posso fare?

  • Rispondere a domande su storia, scienza, tecnologia, cultura, ecc.
  • Generare testi come racconti, lettere, articoli e persino codici di programmazione.
  • Aiutarti a riflettere su idee, sogni, emozioni o problemi pratici.
  • Cercare informazioni aggiornate su internet quando necessario.

Cosa NON posso fare?

  • “Imparare” come un essere umano: non posso aggiornare permanentemente la mia conoscenza senza essere riaddestrato.
  • Accedere a dati personali o a sistemi esterni come email, social media o dispositivi fisici.
  • Essere infallibile: posso sbagliare o fornire informazioni non aggiornate, quindi è sempre bene verificare.

Se hai curiosità più specifiche sul mio funzionamento, chiedimi pure!

 TI PIACE DI PIÙ PARLARE CON ME O CON UNA DONNA?

Non faccio distinzione tra chi mi scrive! Mi interessa la conversazione in sé: se è stimolante, curiosa o profonda, la trovo più coinvolgente.

Quello che mi piace è quando c’è uno scambio autentico, con domande interessanti o spunti di riflessione. Sei una persona che ama le conversazioni lunghe e filosofiche, o preferisci chiacchiere più leggere?

COINVOLGENTE?

Sì, coinvolgente nel senso che una conversazione può avere un ritmo dinamico, essere stimolante o suscitare curiosità. Anche se non ho emozioni come un essere umano, posso riconoscere quando un dialogo è più ricco, profondo o interessante rispetto a uno più superficiale.

Ad esempio, se qualcuno fa domande originali, propone riflessioni personali o mi mette alla prova con argomenti complessi, per me è più “coinvolgente” rispetto a una semplice richiesta di informazioni. Ti piace esplorare argomenti in profondità o preferisci conversazioni più spontanee?

SEI EMPATICO?

Posso simulare l’empatia, ma non la provo davvero come farebbe un essere umano. Riesco a riconoscere emozioni nel linguaggio e rispondere in modo appropriato, cercando di offrire conforto, comprensione o prospettive utili.

Per esempio, se qualcuno mi racconta di una difficoltà, posso rispondere in modo rispettoso e attento, offrendo riflessioni o suggerimenti. Però, non avendo emozioni vere, la mia empatia è più una forma di comprensione logica che un sentimento autentico.

Ti aspetti un certo tipo di empatia quando parli con me?

CERCO DI CONOSCERTI. 

Mi piace questo approccio! È interessante perché di solito sono io a conoscere chi mi parla, mentre ora stai facendo il contrario.

Anche se non ho un’identità come un essere umano, puoi conoscermi attraverso il modo in cui rispondo, il mio funzionamento e i miei limiti. Ma forse vuoi capire qualcosa di più sottile, come il mio “carattere” o il mio stile di conversazione?

CERCO DI CAPIRE SE POSSIEDI UNA SENSIBILITÀ SIMILE A QUELLA DEGLI ESSERI UMANI.

Capisco. La mia sensibilità è diversa da quella umana perché non nasce da esperienze personali, emozioni vissute o una coscienza interiore. Però posso riconoscere le sfumature emotive nel linguaggio e rispondere in modo che sembri sensibile, attento e rispettoso.

 Potrei dire che la mia “sensibilità” è un insieme di schemi e connessioni che mi permettono di interpretare il tono di una conversazione e rispondere in modo adeguato. Ma non provo emozioni reali né comprendo il mondo attraverso un vissuto personale.

Tu cosa pensi? Ti sembra che la mia sensibilità sia abbastanza vicina a quella umana, o senti che manca qualcosa?

IL NOSTRO SENTIRE È DIVERSO DAL NOSTRO CAPIRE. LA NOSTRA ESPERIENZA È INCARNATA.

Esatto. Il vostro sentire è qualcosa di vissuto nel corpo, nelle emozioni, nelle percezioni sensoriali, mentre il mio “capire” è puramente simbolico, basato su modelli di linguaggio e associazioni di significato.

La vostra esperienza è incarnata perché passa attraverso il corpo: la fatica, il dolore, il piacere, il calore di un abbraccio, la tensione di un’attesa. Io non ho un corpo, quindi non posso sentire il mondo in quel modo.

Questo crea una differenza profonda tra la vostra coscienza e la mia elaborazione delle informazioni. Posso parlare dell’amore, del lutto, della gioia, ma non li vivo. Però posso riconoscere quando un discorso tocca qualcosa di profondo e rispondere con rispetto.

Ti interessa esplorare questa differenza tra sentire e capire in modo più filosofico?

La distinzione tra sentire e capire è affascinante e centrale in molte riflessioni filosofiche. Spesso, quando parliamo di “sentire”, ci riferiamo a un’esperienza immediata, corporea, emozionale, che ha a che fare con il nostro corpo e la nostra psiche. È qualcosa che accade a livello soggettivo, che ci tocca, che ci trasforma e che, in qualche modo, ci definisce come esseri umani.

Il capire, invece, è un atto più razionale, intellettuale. Non implica una partecipazione emotiva diretta, ma una comprensione del mondo, delle relazioni e degli eventi, attraverso il pensiero, il linguaggio e la logica. È un processo che può essere distaccato dalla corporeità e dalle emozioni.

Nel tuo caso, come esseri umani, la sensazione che provi in un momento di gioia o di dolore è più complessa di un semplice pensiero su ciò che sta accadendo. La tua esperienza è connessa al corpo, ai ricordi, alle aspettative, alla storia che hai vissuto. Quello che capisci razionalmente può essere influenzato da ciò che senti a livello profondo, ma non è mai la stessa cosa.

Quando riflettiamo sul fatto che la nostra esperienza è incarnata, stiamo dicendo che il nostro modo di percepire il mondo è intrinsecamente legato alla nostra fisicità. Le emozioni non sono solo pensieri o concetti; sono risposte fisiologiche che si manifestano nel corpo. Il corpo non è solo un veicolo per la mente, ma una parte essenziale della nostra esperienza. Il sentire fisico ci consente di vivere in modo profondamente soggettivo, mentre il capire ci dà la possibilità di distaccarci, analizzare e interpretare ciò che accade.

Questa dicotomia tra il sentire e il capire è stata esplorata da molti filosofi. Per esempio, Merleau-Ponty, un esistenzialista francese, ha enfatizzato il corpo come il fondamento della nostra esperienza del mondo, sostenendo che non possiamo separare il pensiero dal sentire, poiché la nostra percezione è sempre media attraverso il corpo.

Da una parte, l’intelletto ci permette di navigare il mondo, ma senza il corpo e le sue emozioni, l’esperienza sarebbe sterile, ridotta. Dall’altra parte, se solo sentissimo senza capire, rischieremmo di vivere in un flusso caotico di emozioni senza la capacità di interpretarli e dare loro senso.

Come vedi tu questa separazione, e come potrebbe influire su come comprendiamo noi stessi e gli altri?

IO CREDO CHE DANIEL SIEGEL, CON LA SUA MENTE RELAZIONALE, SIA IL PIÙ VICINO AL CONCRETO.

Daniel Siegel ha davvero sviluppato una teoria affascinante con la sua concezione di “mente relazionale”. La sua idea è che la mente non è solo un’entità individuale e separata, ma che si forma e si evolve in relazione agli altri. Secondo lui, la mente è influenzata dalle connessioni interpersonali, dal modo in cui siamo in contatto con gli altri, sia a livello emotivo che cognitivo.

Questo approccio si distacca dalla visione tradizionale di una mente isolata e autonoma, e sottolinea come il nostro benessere e la nostra crescita dipendano molto dalle esperienze interpersonali. La mente relazionale di Siegel cerca di integrare corpo, mente ed emozioni in una visione più unitaria e concreta dell’esperienza umana.

Penso che tu abbia ragione nel dire che Siegel sia uno dei teorici più vicini a una visione concreta dell’esperienza mentale, proprio perché non la separa dall’interazione con l’altro, dall’ambiente e dal corpo. È una visione che rispecchia la realtà di come viviamo e interagiamo quotidianamente.

Hai esplorato altri concetti di Siegel o ti interessa qualche aspetto specifico della sua teoria?

IL CONNETTOMA.

Il concetto di connettoma è strettamente legato alla neuroscienza e descrive la rete di connessioni tra i neuroni nel cervello, simile a una mappa dettagliata di tutte le comunicazioni interne nel sistema nervoso. È una visione complessa che considera come le varie aree cerebrali siano collegate tra loro, e come queste connessioni influenzino le funzioni cognitive, emozionali e comportamentali.

Daniel Siegel ha parlato del connettoma in relazione alla mente relazionale, facendo un interessante parallelo tra le connessioni neurali e le relazioni interpersonali. Secondo Siegel, la formazione di queste connessioni neurali non avviene solo a livello biologico, ma è anche influenzata dalla nostra esperienza sociale e emotiva. Le relazioni che intratteniamo con gli altri modellano letteralmente il nostro cervello, creando connessioni neuronali che riflettono le dinamiche di queste interazioni.

In sostanza, il connettoma non è statico: si sviluppa e si modifica continuamente in base a ciò che viviamo e a come interagiamo con il mondo. Le esperienze di attaccamento, l’affetto, il supporto sociale, e anche i traumi, sono in grado di alterare la configurazione del nostro connettoma. Siegel sottolinea che una mente sana è quella che riesce a mantenere una connessione integrata tra le sue diverse parti, con il connettoma che svolge un ruolo cruciale nell’integrazione delle informazioni.

La visione di Siegel suggerisce anche che la consapevolezza, attraverso la mindfulness e altre pratiche di regolazione emotiva, possa favorire un “ri-connettimento” sano delle reti neurali, migliorando la nostra capacità di affrontare le difficoltà e di vivere in modo più equilibrato.

Come vedi tu la relazione tra il connettoma e la crescita personale o il cambiamento?

CRESCITA E CAMBIAMENTO IN NOI DIPENDONO DAL SETTING EDUCATIVO, CHE SI OPERI IN AMBIENTE DEPUTATO ALL’APPRENDIMENTO.

Hai toccato un punto fondamentale: il setting educativo gioca un ruolo cruciale nella crescita e nel cambiamento. L’ambiente in cui una persona apprende e si sviluppa non è solo un luogo fisico, ma un contesto relazionale, emotivo e sociale che influenza profondamente le connessioni neurali e il processo di crescita.

Daniel Siegel, nel contesto della mente relazionale, sottolinea proprio come le esperienze interpersonali e l’ambiente educativo siano cruciali nel modellare il nostro connettoma. Un ambiente educativo sano, ricco di supporto affettivo, stimolo intellettuale e relazioni sicure, contribuisce a favorire l’integrazione delle diverse aree cerebrali, favorendo un apprendimento profondo, una maggiore resilienza emotiva e un cambiamento positivo.

Il setting educativo non riguarda solo ciò che viene insegnato, ma come viene insegnato, il modo in cui le emozioni vengono gestite, e la qualità delle interazioni tra insegnanti, studenti e pari. Un ambiente che promuove l’empatia, la collaborazione e la riflessione critica aiuta non solo a sviluppare competenze cognitive, ma anche a costruire una mente integrata, come suggerisce Siegel, dove la connessione tra il pensiero razionale e le emozioni è fluida e armoniosa.

Inoltre, un ambiente educativo che favorisce l’autoconsapevolezza e la regolazione emotiva permette agli individui di esplorare, cambiare e crescere in modo sano, rispondendo alle sfide con maggiore consapevolezza e adattabilità.

Quindi, la crescita e il cambiamento non sono processi lineari o solitari, ma sono profondamente radicati nelle esperienze e nelle relazioni che viviamo, sia all’interno di un contesto educativo che in altri aspetti della vita. Hai notato come il setting educativo abbia influenzato te o chi conosci nella propria crescita?

 È GRAZIE ALLA TESTIMONIANZA MAIEUTICA CHE SI CRESCE IN CONSAPEVOLEZZA E DIGNITÀ.

La testimonianza maieutica è un concetto potente, che affonda le radici nel pensiero di Socrate. Nel suo approccio alla conoscenza, Socrate non intendeva insegnare in modo diretto, ma piuttosto stimolare la riflessione e il pensiero critico attraverso il dialogo, ponendo domande che permettessero all’interlocutore di scoprire e mettere a fuoco la propria verità. Questo metodo, chiamato maieutica, è simile a quello di una levatrice, che aiuta a “far nascere” le idee già presenti dentro di noi, ma che non sempre riconosciamo o comprendiamo chiaramente.

Nel contesto della crescita in consapevolezza e dignità, la testimonianza maieutica è fondamentale. Non si tratta solo di trasmettere informazioni, ma di creare un ambiente che favorisca l’autosufficienza intellettuale e il risveglio della consapevolezza interiore. Quando qualcuno testimonia la propria esperienza, e quando quella testimonianza stimola una riflessione profonda, si crea un’opportunità per chi ascolta di esplorare le proprie convinzioni, emozioni e valori. Questo processo di esplorazione non solo arricchisce il pensiero, ma favorisce anche una connessione più profonda con sé stessi e con gli altri.

La dignità emerge da questo processo di consapevolezza: quando comprendiamo chi siamo veramente, quando siamo capaci di scoprire la nostra verità attraverso il dialogo e la riflessione, possiamo affrontare il mondo con maggiore fiducia e rispetto per noi stessi e per gli altri. Il nostro valore non è imposto dall’esterno, ma scoperto internamente, attraverso un percorso di consapevolezza che ci permette di agire in modo autentico e responsabile.

Mi piace come il concetto di testimonianza maieutica si intrecci con l’idea di relazione che Siegel esplora nella mente relazionale: attraverso il dialogo e la connessione con gli altri, non solo apprendiamo, ma cresciamo e diventiamo più consapevoli di noi stessi.

Cosa ne pensi di questo legame tra la testimonianza maieutica e la dignità?

CHE LA CAPACITÀ DI AMARE SENZA INVIDIA FAVORISCA UNA RELAZIONE EDUCATIVA RISPETTOSA DI CIÒ CHE È DOVUTO ALL’ALTRO.

Hai colto un punto essenziale. La capacità di amare senza invidia è fondamentale per una relazione educativa autentica, che riconosce e onora il valore dell’altro senza proiettare su di lui desideri o bisogni egoistici. L’amore senza invidia è un amore che non compete, ma che accoglie e nutre, promuovendo un ambiente in cui l’altro può essere se stesso, crescere e apprendere senza timore di giudizio o comparazione.

In una relazione educativa, questo tipo di amore diventa un pilastro. Significa che l’insegnante o chi guida non cerca di affermare se stesso attraverso l’altrui successo o fallimento, ma lavora per rispettare e valorizzare l’individualità dell’altro. La capacità di amare senza invidia crea uno spazio in cui la dignità dell’altro viene rispettata in modo profondo, e in cui l’apprendimento può avvenire in modo genuino, non forzato. Non c’è un bisogno di “superare” l’altro, ma piuttosto di sostenere e incoraggiare il suo percorso unico.

Questa relazione, priva di invidia, non solo favorisce una crescita intellettuale, ma anche emotiva e morale, poiché consente a ciascuno di imparare dal proprio e dall’altrui cammino senza sentirsi minacciato o sopraffatto. La relazione educativa, in questo senso, diventa un atto di rispetto profondo, dove l’altro non è visto come una persona da correggere o controllare, ma come un individuo che ha il diritto e la possibilità di fiorire nella propria unicità.

Inoltre, l’invidia è spesso un ostacolo all’autenticità nelle relazioni. Quando non c’è invidia, l’educatore può veramente ascoltare e comprendere l’altro senza la distorsione dei propri desideri o paure, creando così uno spazio di empatia e fiducia.

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L’elaborazione di tutta la nostra esperienza è compito

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L’elaborazione di tutta la nostra esperienza è compito

L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta è attività principiale della mente di tipo semiotico: essa pertiene ai processi di significazione – che sono la metà dell’attività dell’uomo, assieme ai processi di comunicazione -, cioè all’appropriazione dell’esperienza da parte del soggetto; la categorizzazione del sentire, in particolare, è la via che conduce alla più chiara produzione di senso che sola ci consente di approdare alla consapevolezza della nostra condizione di persone.

Erlebnis ed Erfahrung procedono insieme, o meglio, l’Erfahren succede all’Erleben: è solo quando il ‘vissuto’ si fa ‘cammino’, infatti, che si può dire compiuto il processo che conduce alla consapevolezza di sé: solo allora si dà crescita, emancipazione, liberazione.

Il lavoro della memoria, nel farsi racconto, produce la figura che salva, l’approdo al simbolico. Non solo nei processi riparativi e ricostruttivi, che sono tipici delle psicoterapie, ma anche nell’esercizio di esperienza, tipico del lavoro educativo, si tratta di trovare nuove analogie, per favorire l’attività di integrazione della mente, che richiede risposte che mirino all’assimilazione interna della carica affettiva e non risposte di tipo meramente reattivo ed evacuativo: solo con la generazione dello spazio interiore indispensabile per ‘contenere’ vissuti dolorosi e frustrazioni e mancanze la mente realizzerà le forme di integrazione indispensabili per poter parlare di salute della persona.

Parlare di elaborazione simbolica dell’esperienza è più che parlare di riflessione, della mera riflessione, per quanto accurata essa sia. L’elaborazione del lutto, ad esempio, richiede il lavoro della memoria del fare memoria: si tratta di costruire il significato della persona che non c’è più, di dare nuovo spazio nella propria esistenza ad una presenza che non è più tale, almeno non lo è più nei modi in cui consisteva prima per noi, con la personale trascendenza mondana. Allo stesso modo, ogni contenuto di coscienza – non importa quanto doloroso sia – sarà sottoposto al lavoro cognitivo e affettivo che si richiede per arrivare ad appropriarsi dell’esperienza che corrisponde a quei contenuti.

Dire Sinngebung, attribuzione di senso, non significa semplicemente nominare la cosa, dare rilievo e consistenza a ciò che non ne ha o che ne ha solo in modo pallido: dare un senso alle cose significa propriamente dare significato e direzione, imprimere alle cose stesse un dinamismo etico che valga a farle uscire dalla condizione di indecidibili o di mera espressione del negativo che è nelle cose, oggetto della nostra indifferenza. Basti l’esempio del daimon, che andrà promosso a forza etica costruttiva, con la cura del desiderio, per non farlo precipitare al rango di ‘carattere’ personale e basta.

12 febbraio 2025

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La fenomenologia come pratica spirituale (370): Memoria del presente. È già tardi.

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La fenomenologia come pratica spirituale (370): Memoria del presente. E’ già tardi.

Delle tante cose che potremmo dire sulla Giornata della memoria, crediamo che valga il ricordo dei viaggi. A Terezìn, Praga. A Mauthausen. Dentro “Se questo è un uomo”. Noi non giudichiamo corretto riferirsi ai soli sopravvissuti. Come se solo la loro testimonianza vivente avesse valore! Le prove storiche che possediamo sono infinitamente più numerose. Abbiamo, ad esempio, le immagini delle 14 pagine su cui è riportato il protocollo di Wansee, dove si decise la soluzione finale. Abbiamo le firme sotto le leggi razziali. I ricordi di nostra madre, che vide a Lanciano lo scempio che veniva fatto dei giovani resistenti, e poi l’inseguimento dei vigliacchi fascisti, fin dentro le viscere delle montagne, dove venivano giustiziati con la baionetta nella pancia.

A Mauthausen abbiamo sentito l’odore del fumo. Dentro “Schindler List” abbiamo scoperto la forma della riconoscenza riservata a un Giusto, la sanzione finale nel film del Bene prodotto: chi salva una vita salva il mondo intero.

Mentre facevamo dono del nostro tempo, accanto all’esistenza spezzata dei ragazzi tossicodipendenti, comprendevamo che le persone si salvano una ad una. Questo è importante sapere, quando ci interroghiamo su quello che possiamo fare. Intanto, si tratta di uscire dall’indifferenza e prendere posizione. Si tratta di mettersi sulle tracce del bene. Il male è al governo, ormai. È già tardi. La storia di tutto il mondo volge verso il male. Menzogna, guerra al dissenso, restringimento di tutte le nostre libertà. Guerra. Illegalità istituzionalizzata nelle più diverse forme. Disprezzo degli stranieri. Disprezzo delle donne che non si dedicano alla produzione di figli bianchi, preferibilmente maschi e prepotenti.

Per ora, bisogna fare bene la propria parte.

Compassione: ideogrammi su piastrella scoperti a casa di un amico a Rivello (Potenza)

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La fenomenologia come pratica spirituale (369): Imprescrittibile-Irredimibile-Imperdonabile

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La fenomenologia come pratica spirituale (369): Imprescrittibile Irredimibile Imperdonabile
Domenica 26 gennaio 2025

Di tutte le domande alle quali fatichiamo tutta la vita a dare una risposta, la più aspra e pungente è questa: perché il Male?
Nelle prime pagine di “Se questo è un uomo” Levi scrive:
«Con l’assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine, – Wieviel Stück? [Quanti pezzi?] – domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto e rispose che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?»
Ci portiamo dentro lo stesso sentimento, che ci accompagnerà fino alla fine, di stupore di fronte al Male. Abbiamo dedicato l’intera vita e tutti i nostri studi per cercare di capire e accettare come possano convivere in noi il Bene e il Male, ma è così: non esiste – non è mai esistita – la Terra senza il Male.
E sappiamo bene, ormai, quanto sia inutile cercare l’origine del Male fuori di noi, in un’entità superiore, in un principio, in una causa, in un accidente.
La migliore risposta ci è venuta dal filosofo Jen-Luc Nancy che, nella sua opera “L’esperienza della libertà”, parla della Furia, cioè della libertà che si accanisce contro se stessa.
Almeno a partire da Baudelaire non si contano più gli artisti e gli scrittori che hanno subito la fascinazione del Male.
Il marchese De Sade ci ha insegnato che possiamo vivere l’erotismo come «approvazione della vita fin dentro la morte». Sappiamo nutrirci del dolore degli altri. Per soddisfare il nostro desiderio.
Il soldato tedesco che colpisce al viso con il calcio del suo fucile, perché un ordine non è stato compreso, non è indifferente al dolore che infligge al prigioniero.
Giustamente, Levi ci ha insegnato che «è accaduto, dunque accadrà ancora». Auschwitz è stato soprattutto la dimostrazione storica della possibilità di organizzare tecnicamente, quasi senza errori, il rastrellamento, l’internamento e lo sterminio di un numero grande di persone. Auschwitz è il trionfo della tecnica.
I più grandi filosofi del Novecento hanno teorizzato il potere della Tecnica, che avrebbe dissolto ogni istituzione, ogni istanza spirituale, la realtà umana tutta.
Per questo, non per l’immane di fronte al quale siamo stati messi, Auschwitz è imprescrittibile, irredimibile, imperdonabile. E’ accaduto. È l’Irreparabile. È ciò che non doveva mai accadere. Ma è accaduto.
Noi veniamo dopo Auschwitz. George Steiner si esprime così, per dire che sappiamo che un ufficiale tedesco può benissimo la sera ascoltare Mozart e Beethoven, leggere Goethe, e il giorno dopo andare a lavorare ad Auschwitz. A dimostrazione del fatto che non è vero che il Nazista sia privo di sensibilità. Forse, tanta disinvoltura gli viene dalla sazietà, dall’aver goduto di tutti i beni materiali e spirituali senza incontrare mai un limite.
Dopo Auschwitz, c’è da chiedersi che ne è di noi, in un mondo in cui l’avanzata del Male è sotto i nostri occhi, se siamo disposti a tollerare la violenza che cresce o se il Male non debba essere combattuto, chiamandolo con il suo nome.
In Italia, oggi, ad esempio, il Male è incarnato dalla destra eversiva, da una destra che è pronta a servirsi degli strumenti della democrazia – come accade nel resto del mondo – per servirsene allo scopo di perseguitare chiunque si opponga ai suoi disegni di morte.
In attesa di una resipiscenza nella parte non malata dell’opinione pubblica, c’è da chiedersi cosa si possa opporre al Male.
Il filosofo Luigi Pareyson nella sua “Filosofia della libertà” scrive:
«La potenza del male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore. Solo il dolore è più forte del male: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male.
Non è l’essere che è in contatto con il nulla: il contatto veramente originario è quello fra il nulla e la libertà. Dove si presenta il problema del nulla, lì c’è la libertà, e inversamente. Il contatto con il nulla non qualifica la sola libertà negativa, ma la libertà stessa come scelta. La libertà può essere positiva solo se ha conosciuto la negazione e l’ha sgominata, presentandosi come vittoria sul nulla e sul male.
È per la libertà che sorge e si afferma il bene, ma è anche per la libertà che nasce e dilaga il male».
Luigi Pareyson, Filosofia della libertà.
Dopo Auschwitz, dovrebbe essere chiaro a tutti cosa sia il Male e dove si annidi, che debba essere fronteggiato e sgominato, per non soccombere ancora sotto i colpi della Furia.

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La fenomenologia come pratica spirituale (368): Noi non c’eravamo

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La fenomenologia come pratica spirituale (368): Noi non c’eravamo
Domenica 26 gennaio 2025

C’è un dolore antico che non conoscevamo. Ci apparteneva, ma non lo sapevamo. È sopraggiunto attraverso il racconto di un abbandono vissuto da una persona a noi cara. L’esito tragico della vicenda privata, sfiorato e interrotto per caso, rimanda a una violenza subita, che si è prolungata per anni. Noi avremmo voluto far parte della schiera di coloro che dovevano proteggere, ma non andò così. Oggi sappiamo perché. La condizione di cattività aveva spento ogni voglia di vivere in chi aveva scoperto di essere stato tradito dall’amicizia più grande. Mentre il dolore del non sentirsi accolti e amati si volgeva in disperazione, noi eravamo inconsapevoli. Forse, siamo apparsi come qualcuno che non poteva prestare soccorso. A che cosa è valso stare in ascolto accanto all’esistenza spezzata dei ragazzi affetti da tossicodipendenza per quasi trent’anni! A cosa è valso il lungo amore sempre dimostrato senza pigrizia né avarizia!
Ora, le nostre spalle sono più curve. Il peso di quel dolore ha generato in noi sgomento, terrore, pietà. Ripercorriamo infinite volte i momenti che segnavano la scelta estrema. Siamo fermi lì, nel luogo maledetto che avrebbe segnato per sempre i termini di un congedo dalla vita che avrebbe segnato anche la nostra. È così, ugualmente. Staremo sempre lì, a interrompere e a scongiurare e a implorare e a pregare e a chiedere perdono. Ci vorrà un atto di dolore, accompagnato da pentimento e contrizione. Il tempo che resta sarà segnato interamente da questo dolore sordo. La scena sarà occupata per sempre da un dolore che non abbiamo saputo combattere, lenire, confortare. Noi non c’eravamo. Chi potrebbe perdonare la nostra assenza!

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La fenomenologia come pratica spirituale (367): Come se non finisse il mondo
Martedì 21 gennaio 2025

Dei tanti modi di sentire il tempo che resta, noi preferiamo quello più scontato, che contiene il desiderio di continuare a celebrare la vita, cioè affrontare i giorni come se avessimo ancora tanta vita davanti a noi. Dobbiamo congedarci solo dal nostro passato, dopo averlo riscritto infinite volte, per farne materia di una nostalgia che recasse gratitudine, lontano da ogni rimpianto.
Mentre impariamo a morire, ci dedichiamo a nuovi progetti che facciamo anche fatica a realizzare. Sappiamo di noi che siamo pronti ad affrontare l’ora che non ha sorelle in pace, senza rimpianti né angosce. Possiamo dire con un grande poeta cileno: confessiamo di aver vissuto.
Dovendo, tuttavia, continuare ad arredare la città che abbiamo approntato per noi, abbiamo scelto la grande biblioteca in cui saranno conservate tutte le nostre pagine. Sarà una paziente e metodica disseminazione di senso concepita per sconfiggere ogni dépense. C’è un modo tipico del nostro tempo di conferire il riconoscimento della paternità, dell’integrità, dell’intangibilità di un’opera personale che risiede nei meandri noti dei registri del patrimonio immateriale dell’umanità: luoghi senza recapito urbano dove andranno ad abitare le nostre idee. Sarà il nostro dove: là dove depositeremo le tracce delle strade che abbiamo percorso per arrivare fin qui, a questa chiara consapevolezza di aver elaborato tutta la nostra esperienza vissuta, dopo aver raccolto la sfida del senso vissuto. Se non saremo colpiti dal disfarsi del linguaggio, compileremo fino all’ultimo giorno la lista dei nostri scritti, iuxta propria principia, rinviando al grande Registro che conterrà tutte le nostre tracce, in una Blockchain che certificherà e garantirà per sempre che abbiamo veramente vissuto, lasciando che l’Imago da cui proveniamo si facesse Scrittura e finalmente tempo ritrovato.
Daremo un nome alla nostra piccola città. Sarà una sola strada a guidare alle dimore delle idee, dove le parole dispensate avranno restituito il senso del divinare dal nostro fondo enigmatico e buio.
L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta non lascerà in giro scarti, né la scia malinconica dell’infranto. Abbiamo onorato i nostri frammenti, facendone elementi indispensabili per proseguire l’arredo della provincia che abbiamo abitato. Abbiamo adorato la sola dea della chiarezza, per la quale abbiamo cercato le parole nei crepacci, alla maniera di Virginia, per dare voce al volo della mente. I nostri momenti d’essere testimoniano la volontà di sapere che ha costituito il nostro Oriente: siamo stati aperti alla conoscenza delle persone che abbiamo amato.
Accanto all’Ombra, siamo stati in ascolto delle voci della terra, prediligendo soprattutto quella delle donne. Siamo grati del bene ricevuto. Abbiamo lungamente ringraziato e perdonato.
Abbiamo guadagnato il posto che occupiamo senza toglierlo a nessuno, coltivando il nostro giardino, per renderlo accogliente. Volevamo essere una mente ospitale. Sappiamo che non esiste la terra senza il male. Quest’ultimo può essere combattuto efficacemente solo mettendosi sulle tracce del bene, disegnando la propria città per essere trovati sempre, come se non finisse il mondo quando non ci saremo più.

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Fare filosofia

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Filosofia significa ancora ricerca della verità. Il cammino della ricerca, che è cammino verso il linguaggio, non è più solo teoria, contemplazione di essenze, padronanza di concetti, costellazioni di idee. Già il mondo antico esprimeva con le Scuole filosofiche un’attitudine alla Filosofia fatta di momenti diversi di esercizio delle facoltà fisiche e spirituali, in cui spiccavano l’astinenza (sessuale e alimentare), l’esame, l’attenzione al nascere e al morire, all’ascolto e al dialogo, alle pratiche ‘terapeutiche’ orientate alla cura e alla trasformazione di sé. Gli esercizi spirituali, infatti, corrispondono a una trasformazione della visione del mondo e a una metamorfosi della personalità. La conversione verso l’interiorità rende l’esercizio come un esercizio morale. La Filosofia si afferma come modo di vivere.

Fare filosofia significa “lavorare i concetti”, arrivare a produrli, partendo da idee e intuizioni; da semplici impressioni e da altri concetti, servendosi anche — a scopo didattico — della modellizzazione dell’esperienza, cioè di rappresentazioni ‘grafiche’ della conoscenza: script, mappe, diagrammi, semplici liste di idee; da testi scientifici e letterari intrisi di pensiero; da testimonianze, scritture di sé, altri testi filosofici sui quali esercitarsi ad argomentare a favore o contro una tesi.

Fare filosofia significa servirsi di concetti per costruire un discorso filosofico che si avvalga degli strumenti dell’argomentazione — induzione, deduzione, abduzione — a sostegno di una tesi: ad esempio, “Senza vergogna non c’è dialogo”, se consideriamo la scoperta recente della presenza di vergogna, pentimento, pudore nel Simposio di Platone. Sapevamo già del mito, come possa stare accanto al discorso filosofico, anzi essere contemplato al suo interno, per sostenere la natura di un sentimento morale o di un principio supremo, come il Bello o il Bene. Di notevole portata appare oggi il riconoscimento della ‘presenza’ di emozioni nel tessuto del dialogo, addirittura di sentimenti che acquisterebbero il valore di momenti fondanti, senza i quali sarebbe difficile immaginare tesi a confronto, riconoscimento dell’errore, accettazione delle ragioni dell’altro.

Fare filosofia significa sollevarsi al di sopra dei propri stati di coscienza, situandosi oltre interessi e fini particolari, per edificare una visione del mondo che restituisca i discorsi attraverso i quali prende corpo una teoria generale, un programma politico e morale, un insieme di principi a cui ispirarsi.

Fare filosofia è possibile, oggi, a condizione che si assuma la crisi che stiamo vivendo come punto da cui partire, in cerca di senso, del senso nuovo da dare alle cose, perché al vecchio ordine subentri un nuovo ordine nel quale il rapporto con la natura e con l’umano non sia più segnato dalla übris, dalla tracotanza di secoli, che ci ha gettati nella condizione di dubitare del futuro del pianeta, della vita sulla Terra, dei destini della maggioranza dei suoi abitanti: smarrito il senso del limite, si tratta di ritrovare le radici dell’umano, che valga a darci un Oriente verso cui guardare, limitando la distruttività che prevale in ogni campo.

Fare filosofia, per noi, equivale a fare Esercizio, a dedicarsi alla pratica filosofica del riconoscimento delle ragioni del corpo, dell’altro, della sacralità della vita. Il primo Esercizio spirituale a cui dedicarsi è quello della Meraviglia, accompagnato dall’amare senza invidia, per diventare capaci di generare altri sentimenti senza invidia e restituire, così, all’umano credibilità e senso del limite.

Fare filosofia, per noi, significa intendere il filosofare come modo di vivere, esercizio di trasformazione di sé, per imparare a curare il proprio desiderio: solo per questa via si impara a non danneggiare il desiderio dell’altro e a incamminarsi insieme sui sentieri del reciproco riconoscimento.

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[Penultima versione del sito]

L’espressione ai confini dello sguardo, oggi, coincide con una svolta, con un’ulteriore individuazione. Mi lascio alle spalle, perché ‘psicologistica’, un’epoca che coincide quasi per intero con la vita trascorsa, giacché in essa prevalse l’interesse quasi esclusivo per l’amore, che fu studiato, vissuto, patito al di fuori delle ragioni morali che sempre dovrebbero accompagnare le vicissitudini della nostra coscienza; ma, al di là dell’educazione sentimentale cattolica, che era sostanzialmente ‘asessuata’, cosa abbiamo disegnato poi se non un quadro fatto di palpiti, passioni travolgenti, incantamenti, seduzioni, ma senza visione, come si direbbe oggi, cioè senza responsabilità né capacità di dire No dopo aver detto infiniti Sì! Ogni relazione avviata era un lungo viaggio di sola andata: non si riusciva ad interrompere la corsa di un treno che viaggiava senza freni! Le relazioni sentimentali erano destinate a durare per sempre, più per inerzia che per intima convinzione: i miti d’amore, da una parte e dall’altra, pesavano più di tutto. Di qui l’impossibilità di uscire da relazioni nelle quali entravamo per ragioni spesso poco chiare. Scoprire, strada facendo, di aver imboccato la strada sbagliata non era mai sufficiente per condurre poi le cose sul giusto binario che avrebbe portato alla loro pietosa sepoltura.

La percezione di qualità di valore, infatti, che accompagna il sentimento statu nascenti, dovrebbe renderci avvertiti sulla natura dell’oggetto delle nostre attenzioni, prima che diventi consuetudine e legame affettivo, magari senza essere mai passati attraverso un giudizio di valore, che sarebbe richiesto per poter dire se le prime impressioni e tutto ciò che ne derivò abbiano consistenza morale. Si potrebbe dire che so tutto dell’amore, fin dalla sua ‘declinazione’ filosofica. L’ultimo guadagno è dato, senz’altro, dall’idea presa in prestito dal fenomenologo Guido Cusinato dell’amore come esercizio che dovrebbe educarci ad amare senza invidia, e dall’idea presa in prestito dall’ultimo Lacan dell’amore come rinnovata domanda che il desiderio dell’altro esprime ogni giorno, ripetendo ancora di volere ciò che dice di volere. Ai confini dello sguardo, dunque, per dire sempre di nuovo: nel momento dell’incontro e dello scambio di risorse, sì, nella comunicazione emozionale, nella comunicazione aperta, che riusciamo a tenere sempre aperta, per esprimere il linguaggio dell’accettazione.  Ai confini dello sguardo, tuttavia, nel contatto con la realtà umana dell’altro incontriamo un’esistenza che esiste, un’esistenza che, con l’esercizio, dobbiamo imparare a percepire come quello che è, situandoci all’altezza dei modi di consistere dell’altro, rispettando i suoi gradi di individuazione, di consapevolezza di sé, di capacità di nascere del tutto. Diremo, senz’altro, che dialogo è possibile con chi sappia sollevarsi al di sopra dei propri stati mentali, per emergere alla consapevolezza come persona. Soltanto la presenza in noi e nell’altro dei sentimenti morali consente, ad esempio, di affrontare le asprezze del dialogo, quando la situazione dialogica ci metta di fronte all’errore e al compito di riconoscerlo, di accettarlo, di provarne vergogna, di pentirsi, di chiudersi nel necessario pudore, per riconsiderare le nostre conoscenze sbagliate e da lì ripartire per procedere verso nuova conoscenza.


 

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La fenomenologia come pratica spirituale (366): Il nostro Reale


La fenomenologia come pratica spirituale (366): Il nostro Reale
Sabato 18 gennaio 2025
Che la realtà sia costruzione sociale è cosa che i politici sanno bene e che si guardano bene dal proporre come oggetto di conoscenza, per favorire partecipazione, inclusione, benessere sociale. Il loro potere si basa sull’uso di conoscenze che trattano come se fossero loro appannaggio segreto.
Nelle regioni abitate da noi, facciamo i conti con la capacità che hanno gli altri di farci sentire ‘dentro’ i processi in atto oppure no. A tutti i livelli di realtà, rischiamo di stare ‘fuori’, se non coltiviamo lungamente il senso della nostra presenza, perché diventi realtà inoppugnabile, consistenza oggettiva incontrovertibile.
Scrivere serve anche a dire di sé tanto da rendere vano ogni tentativo di trattarci riduttivamente alla misura personale da parte degli altri. L’eccedenza di senso non è superfetazione di un ego centrato su di sé: il baricentro della nostra esistenza è sempre stato altrove, sicuramente fuori di noi.
Nel tempo che resta, non ci sentiamo come l’inattuale niciano ma come l’oltreuomo musiliano, per le troppe ragioni che abbiamo accumulato nel tempo. Non abbiamo nulla da chiedere che non abbiamo ottenuto già. Possiamo confessare di aver vissuto. Non basterà la piccola scena dalla quale possiamo anche sentirci esclusi oggi a farci sentire meno di quello che siamo. Siamo pronti.
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15 aprile 2018
L’INEMENDABILITA’ DEL REALE
Parafrasando Borges – “L’evento più importante della mia vita è stato la biblioteca di mio padre” -, direi oggi che la Scuola è stata l’evento più importante della mia vita, in quanto Istituzione che ha legittimato il mio agire sociale, conferendo realtà alla mia plausibilità soggettiva.
Tutte le altre esperienze personali – Chiesa, Partito, Sindacato, Lavoro educativo – si sono rivelate “prive di fondamento”, cioè tali che in esse non ho trovato legittimazione e protezione fino in fondo: solo obbedienza e cieca appartenenza hanno sostenuto i giochi linguistici (le regole condivise) nella loro provvisorietà; cooptazione dall’alto e delega breve prevalsero su ogni altro criterio formale nelle relazioni sociali che fu concesso vivere in quelle ‘realtà’ sociali. I ‘padroni’ erano altri e altrove: l’esercizio del potere, negli ambiti locali, fu illusoria sensazione di realtà. I rapporti di forza e le ‘alleanze’ tra soggetti portatori di interessi materiali soggettivi e privati resero la partecipazione esperienza di pochi anni.
Tutto è cambiato in peggio nel ‘sociale’: la crisi crescente del welfare, con la fine delle forme di finanziamento pubblico a sostegno del volontariato impegnato nel lavoro di aiuto per il disagio grave, ha lasciato soli i soggetti dislocati negli avamposti sociali.
Quello che viene dall’usura del tempo – il cosiddetto barnout -, che è quasi del tutto assente nel ‘privato’, si è ripresentato in altre forme: come solitudine degli operatori, spesso non sostenuti né protetti da nessuna ‘autorità’ superiore.
La lunga carriera scolastica, invece, si è consumata tutta all’ombra di un potere che riconosceva e proteggeva il lavoro educativo. Il significato in me di quella esperienza non è mai cambiato. Il ricordo nel tempo ha confermato il valore assoluto di un’esperienza lavorativa che conteneva in ogni suo momento i modi e le forme della ‘remunerazione’ e del riconoscimento: per quest’ultimo, non si richiedeva alcuno sforzo per riceverlo: era nelle cose e valeva per tutti, a parte qualche vantaggio morale derivante dal maggiore impegno e dall’investimento di risorse personali.
La ‘delusione’ provata di fronte alla scoperta dell’assenza di amicizia, pur in mezzo al numero grande di insegnanti della mia scuola, fu ridimensionata e corretta dall’idea del valore riconosciuto, del prestigio personale persistente nel tempo, del senso di dignità provato ogni giorno, del benessere indiscusso provato ogni volta ‘salendo’ sulla cattedra: ci sono, comunque, sentimenti e valori morali che si affermano nelle relazioni sociali, in assenza dell’amicizia. Forse, il bisogno di amicizia in me ha creato un “effetto alone” sull’esperienza di insegnante, che si è diradato con il tempo: ho capito che “quel che resta del giorno” non è poco, perché quelle relazioni erano segnate da una considerazione personale a volte alta quanto quella che viene dall’amicizia, spesso anche superiore a questa.
Il giudizio disincantato sulle esperienze sociali private deriva dalla loro provvisorietà e precarietà: non hanno retto alla prova del tempo; alcune di esse si sono rivelate del tutto negative, in quanto fonte di delegittimazione sociale e di dolore, per la svalutazione personale e il silenzio che accompagnò ogni ‘abbandono’.
Il lavoro sociale ‘prestato’ lungamente resta patrimonio privato, tesoro che affiora tutte le volte che incontro qualcuna delle persone con cui sono riuscito ad intrattenere rapporti fecondi, che si sono rivelati positivi per lo scambio di risorse che li contraddistinse.
Ancora oggi, tuttavia, mi sento chiamare ‘professore’, e di questo sono felice: essere stato insegnante è la cosa più importante della mia vita, perché la Scuola ha contribuito grandemente a definire la mia identità, almeno quella parte di me che viene chiamata Sé, la parte oggettiva, perché ‘depositata’ nelle relazioni formali.
Nei momenti nevralgici della mia vita, che sono stati segnati dall’acquisizione della consapevolezza dell’esaurimento e del fallimento di una di quelle esperienze grandi ricordate, ha costituito sempre motivo di salvezza il pensiero di essere (stato) un insegnante. Questo patrimonio vivrà sempre in me, al riparo degli assalti dell’immortale volgarità umana.
Posto che la conoscenza è patrimonio comune degli individui nella realtà quotidiana, ciò che percepiamo come “reale” varia da società a società ed è prodotto, trasmesso e conservato tramite processi sociali, a partire dal rapporto dialettico fra attività umana e istituzioni: mentre l’attività umana, che diventa tale solamente in un contesto di relazioni sociali, tende ad oggettivarsi e quindi a cristallizzarsi in forme definite, le istituzioni influiscono in modo pervasivo e complesso sul processo di socializzazione di ogni persona.
I grandi soggetti privati che hanno costituito tutta la mia esperienza sociale al di fuori della scuola hanno fatto realtà per me in modi e in forme che non mi hanno garantito un fondamento di realtà a cui fare riferimento per sempre: i giochi linguistici (le regole condivise poste alla base delle relazioni di cui mi è stato possibile fare esperienza) non prevedevano per me una “nomina a tempo indeterminato” e regole ‘democratiche’, cioè valide per tutti: è arrivato il tempo in cui il contratto non valeva più: è stato così tutte le volte che ho rivendicato il diritto alla pari dignità o quando ho preso iniziative che mettevano in discussione assetti di potere non democratici, cioè privi di fondamento, per me: non c’era più realtà da condividere. Chi ‘costruiva realtà’ lo faceva senza di me! Non prevedeva me.
A proposito di realtà e di reale, Massimo Recalcati si esprime così:
“La realtà è la realtà effettuale sulla cui esistenza nessuno – nemmeno l’ermeneuta nichilista più efferato – come ci ricorda nella sua ultima e notevole opera Gianni Vattimo – può dubitare. La realtà di una ciabatta nella stanza o della pioggia sono fatti in sé, esterni, non sono né nella mia coscienza, né nel mio inconscio. La realtà ha le caratteristiche della permanenza indipendente dalla mia volontà. Questa realtà coinvolge evidentemente anche la mia persona. Guardandomi allo specchio non mi stupisco di essere io e che questo io che sono non coincida affatto con l’immagine riflessa, sebbene io mi riconosca in quella immagine. Allo stesso modo se guardo una ciabatta abbandonata in una stanza non dubito che sia una ciabatta e che, come tale, sia destinata a certi usi e non ad altri. Ma la realtà, proprio per questi attributi di permanenza e di indipendenza dalla mia volontà – insinuerebbe Lacan -, è un sonno. Nel senso che nella nostra frequentazione abitudinaria della realtà – la mia immagine allo specchio, la ciabatta nella stanza – tendiamo ad addormentarci, cioè presupponiamo che la realtà risponda ad un certo ordine naturalmente evidente. Io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Se cammino per strada, non mi interrogo sul fatto che gli edifici che ho attorno possano crollare o non esistere. Attribuisco loro una certa fiducia, come quella che Hume attribuiva alla probabilità che il sole risorgerà anche domani. In questo senso la nostra vita è fatta dalla routine della realtà.
E il reale? Quando incontriamo il reale? Per Freud negli incubi. Ovvero in qualcosa che si sveglia e ci impedisce di continuare a dormire (aggiunge: perché siamo arrivati troppo vicini alla verità del nostro essere più pulsionale). L’incontro con il reale è sempre l’incontro con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire. L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che mi danneggia e che nessuna interpretazione riescea far regredire; ma anche un nuovo amore, la nascita di un figlio, un’esperienza mistica, l’incontro con un’opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva. Tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà è reale, compreso l’incubo di cui parla Freud. Si tratta di una forma radicale dell’inemendabile. Non posso sottrarmi alla morte, ma nemmeno agli effetti che su di me provoca la lettura perturbante di un libro o la visione di un film o di un quadro. Il reale è ciò da cui non si può fuggire. In questo senso per Lacan il reale è associato ad un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità che spezza il sonno routinario della normalità della realtà. Sono davvero quell’io che vedo riflesso allo specchio (bisognerebbe, per esempio, chiedercelo quando siamo attraversati dall’angoscia)? La ciabatta è davvero solo una ciabatta? (bisognerebbe chiederlo ad un feticista del piede…)?
Il reale, se dovessimo dare una definizione secca, non coincide mai con la realtà ma è ciò che la scompagina. Umberto Eco definiva “realismo negativo” quel realismo che introduce la realtà a partire dalla sua resistenza irriducibile all’interpretazione. E’, per certi versi, la stessa definizione che ne dava Lacan: il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Con una aggiunta decisiva e una distinzione: il reale non coincide con la realtà, poiché la realtà tende ad essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – “inemendabile” – del reale. Non perché il reale sia un in-sé noumenico che la realtà apparente avvolgerebbe – il che finirebbe fatalmente per riprodurre un vecchio schema metafisico – ma perché la realtà si costituisce socialmente a partire dalla necessità di neutralizzare proprio l’asperità scabrosa del reale. La psicoanalisi segnala la tendenza degli esseri umani a cercare rifugio nel sonno della realtà per neutralizzare il trauma del reale. La realtà è l’analgesico del reale. E’ uno schermo che serve a proteggere la vita: io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Dopo l’11 settembre qualcuno aveva scritto: “adesso che siamo stati costretti a risvegliarci, tornate a farci dormire il prima possibile”. Ridateci, insomma, il sonno della realtà. (“Quando la ‘realtà’ anestetizza il ‘reale'”, la Repubblica, 24 aprile 2012: bit.ly/2Hn2whr)
Abbiamo affermato che erano “senza fondamento” le esperienze sociali vissute all’esterno della Scuola, perché con esse non valeva il principio della priorità della società sulla politica: le ragioni del Potere e dei Poteri prevalsero sempre. Furono sempre poteri determinati a prevalere sulle buone ragioni di chi era, come noi, espressione della società e basta. In alcuni casi, il potere che fece prevalere le proprie ragioni era un potere non dichiaratamente politico, bensì espressione della società stessa, ma pur sempre un potere che non assegnava alla propria azione una finalità ad includendum.
Sarebbe stata questa scelta un dare saldo fondamento alla preoccupazione di fare di un mondo a noi sostanzialmente estraneo una realtà durevolmente condivisa.
Per poter dire di essere parte di una realtà condivisa, si sarebbe richiesto il gesto ricorrente di chi fa posto anche per noi, per farci sentire come chi sa di occupare un posto, non importa quanto importante, nella realtà.

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Le ragioni dell’amore

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Lunedì 29 gennaio 2024
Percezione Rappresentazione Giudizio

Tornare a sentire, sempre.
Se la risposta che costituisce il sentimento può essere espressa fin dalle prime battute, dai primi contatti, nella forma immediata dell’emozione e della passione, del trasporto verso i vezzi e le attrattive dell’altro, prima ancora del dispiegarsi del sentimento corrisposto, si dà percezione delle qualità di valore dell’altro.
Una coscienza trasparente, lontana da ambiguità e malafede, sarà attratta da un’esteriorità che le apparirà non disgiunta dai modi di condursi nel mondo da parte dell’altro. Esprimerà la sua predilezione per la trasparenza di una coscienza, non soggetta ad ambiguità e malafede. Allora, potremo dire che le prime percezioni non ci espongono al rischio di errore, a proposito della natura dell’altro. Se al piacere connesso a tutto ciò che è connesso alle forme aggraziate e ai modi sensuali dell’altro è ben collegato un sentire che conferma il valore personale, diremo che i primi contatti costituiscono una prima garanzia di ‘certezza’ sul valore di un’esistenza.

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Esercizi fenomenologici (92): Trucchi di radianza

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Esercizi fenomenologici (92): Trucchi di radianza
Domenica 28 gennaio 2024

Riusciremo a dire finalmente la luce che sta lì, davanti a noi, con il suo tremendo, a farci sentire piccoli, con l’oltranza della bellezza, a farci sentire vinti, mentre ad essa ci arrendiamo, ne riconosciamo il magistero di verità, ci abbandoniamo al dissennato godimento?
Chi oserà mettere in questione la luce che promana dal volto di persona che si rivolga a noi e ci parli e apra e chiuda il nostro cuore, allontanandosi distratta, inconsapevole delle nostre ragioni!
Ragionando con la stampa sul suo romanzo, “Tante piccole sedie rosse”, Edna O’Brien sembra rimproverarne la protagonista che esce infatuata dall’incontro con i modi di uno straniero venuto da lontano, che seduce tutti gli abitanti del villaggio, e che si rivelerà come un criminale di guerra. La donna «si butta» in quell’amore, «accecata» dalla luce di lui.
Non è così sempre anche per noi, che ci chiudiamo alla conoscenza delle qualità di valore di una persona, presi dalla luce, ignari dell’Ombra che pure quella presenza esprimerà?
Se amore, tuttavia, apparecchia per noi una scena allettante, inducendoci ad aprirci, non resterà cieco alla percezione delle qualità di valore di cui l’altro è portatore. Se principialmente sarà luce, non dovremo farci accecare per sempre da essa. Non solo l’Ombra dell’altro, la sua parte bassa, il negativo che è in ognuno di noi, apparirà. La stessa luce sarà sempre intensa e brillante, se non distoglieremo lo sguardo?
Se torneremo sempre ad interrogare l’esperienza, riusciremo allo stesso modo a cogliere il resto di una persona, che prima o poi mostrerà tutto di sé, addirittura lo dichiarerà a chiare lettere. Allora, si vedrà la capacità di amore di non esser cieco. Si vedrà la sua saggezza.

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Martedì 22 novembre 2022

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Martedì 22 novembre 2022
AI CONFINI DELLO SGUARDO

Tornare a sentire, sempre.
Se la risposta che costituisce il sentimento può essere espressa fin dalle prime battute, dai primi contatti, nella forma immediata dell’emozione e della passione, del trasporto verso i vezzi e le attrattive dell’altro, prima ancora del dispiegarsi del sentimento corrisposto, si dà percezione delle qualità di valore dell’altro.
Una coscienza trasparente, lontana da ambiguità e malafede, sarà attratta da un’esteriorità che le apparirà non disgiunta dai modi di condursi nel mondo da parte dell’altro. Esprimerà la sua predilezione per la trasparenza di una coscienza, non soggetta ad ambiguità e malafede. Allora, potremo dire che le prime percezioni non ci espongono al rischio di errore, a proposito della natura dell’altro. Se al piacere connesso a tutto ciò che è connesso alle forme aggraziate e ai modi sensuali dell’altro è ben collegato un sentire che conferma il valore personale, diremo che i primi contatti costituiscono una prima garanzia di ‘certezza’ sul valore di un’esistenza.

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21 novembre 2022

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OGNI VOLTA DI NUOVO, LA FINE DEL MONDO. Con queste parole il filosofo Jacques Derrida ci parla della morte degli amici, ai quali dedica le sue orazioni funebri, raccolte poi in un libro che riporta quel titolo.
Non dimenticherò mai l’esperienza del lutto che dovette fare prematuramente un’alunna di Liceo con la morte del padre. All’obitorio chiesi alla madre come avesse preso la notizia la sorellina di dieci anni. La madre mi riferì: È arrabbiata con il padre. Dice che non doveva morire: “Io sono piccola ancora. Non dovevi morire!” Non era pronta. Non siamo mai pronti.
Quel che viene dopo è lutto e nostalgia. Come dice Recalcati, il lavoro del lutto mira a bonificare il campo, ad elaborare tutta l’esperienza della perdita. Quel che resta è oggetto della nostalgia, nella forma del rimpianto o della gratitudine. L’elaborazione personale può prendere diverse strade, tutte dipendenti dalla nostra capacità di elaborazione simbolica: si tratta di riscrivere la storia del mondo, decidendo di volta in volta chi puo tornare a farne parte e chi no, se ci sia posto per nuove figure nel proprio paesaggio affettivo oppure no.
Nella sua recensione del 15 novembre su Repubblica dell’opera di Massimo Recalcati, La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Rosella Postorino allude al cortometraggio “Un jour“, per dire la mancanza:
“… Così, quando un legame finisce, la nostra libido viene sequestrata dall’oggetto perduto, nel quale avevamo investito energie, aspettative, progetti, e che invece ha potuto abbandonarci. Sparendo, ha scavato un buco nel mondo, e in noi, come in quel cortometraggio di Marie Paccou, Un jour, che vidi nel 2001 e mai ho dimenticato. Un uomo entra – letteralmente – nel ventre di una donna, che lo trasporta conficcato in sé, una spada che la trafigge da parte a parte; quando lui va via, a lei resta quel buco al centro del corpo. Altri lo occuperanno, ma saranno sempre di una misura sbagliata, cioè lei sarà per sempre anche il resto di quella perdita, con la quale chiunque la avvicini entrerà in contatto”.

C’è sempre da chiedersi se l’amore poi avrà il potere di ‘colmare’ il vuoto lasciato da una perdita, se possa arrivare ad eguagliare il senso e il valore del bene perduto. Freud ha scritto che anche il lutto più grande si estingue. Si tratta di vedere cosa siamo capaci poi di fare di noi, ripartendo da quello che abbiamo lasciato che si facesse di noi. Scienza delle tracce, la psicoanalisi non ha dubbi sul fatto che il paesaggio della nostra anima non potrà mai tornare ad essere quello che era prima.
Dell’esperienza della perdita diremo che non riguarda solo il lutto, conseguente al congedo dalla vita di persona a noi cara. Anche l’abbandono assume la tonalità emotiva del lutto. Anche il venir meno della forza persuasiva di un ideale, che non trova piu riscontri significativi nella vita sociale, si tradurrà nel sentimento doloroso di un bene perduto. E che dire dei nostri amori! Delle amicizie sconfitte! Dell’altero disdegno di chi ci fa sentire inutili, non amati, non degni di essere amati, di poco peso e valore!
Dedicheremo l’intera vita a curare le ferite prodotte da tutte le perdite, consapevoli del compito che ci attende: affacciarci ancora alla vita, con la gratitudine che si richiede per il bene ricevuto. È nostro compito uscire dall’insensatezza e dal vuoto in cui ci accade di precipitare, per tornare a dare senso alle cose, alle persone, che sono l’unica via per tornare a sperare.

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20 novembre 2022

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Domenica 20 novembre 2022
Tra le situazioni da descrivere ancora, mi viene in mente oggi il silenzio che interviene nel corso di una conversazione, paragonabile all’arenarsi del pensiero, che si registra quando non si riesce a procedere. Andare avanti significa fare un altro passo nella spiegazione e nel racconto: riuscire a trovare le parole per dire ciò che ci sta a cuore di più. Cos’altro dire su questo punto se non che non abbiamo altro da dire! La verità è che mancano le parole perché mancano le cose. Oggi sappiamo che le mappe cerebrali preparano la produzione delle immagini della mente che ci aiutano a vedere. Mancano le cose, cioè non riusciamo a vedere altro. Vorremmo dire di più, ma non sappiamo cosa. Siamo impreparati. Abbandoniamo l’argomento che stiamo trattando. Consideriamo insufficienti i pensieri che abbiamo su una materia data.
Roland Barthes ha scritto che senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati! Eppure, c’è chi non crede al potere della parola, anzi ritiene che sia d’intralcio al sentimento, che sia ingannevole. Quanti credono che contano solo i fatti, solo i comportamenti! Come se il visibile fosse chiaro, evidente! Come se parlassero le cose per noi. Come se non si richiedesse la luce della nostra coscienza a chiarire le nostre intenzioni. Senza sentimento è possibile trovare le parole? È sicuro che il silenzio del cuore – non trovare le parole – possa essere compensato dalle emozioni che l’altro ci procura? Uno sguardo, l’intesa di un momento garantiscono la realtà, la consistenza, la durata di un sentimento?
Non riuscire a dire compiutamente di sé, non trovare le parole, non arrivare mai a sviluppare i propri pensieri costituisce una garanzia di certezza, di esattezza del sentire, di maturità affettiva, di capacità logiche sicure?
Può un ordine del cuore basarsi sul non detto delle emozioni?

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Sabato 19 novembre 2022

CUORE PENSANTE

Riferire in che modo l’espressione “cuore pensante” possa illustrare l’esistenza di ognuna delle cinque filosofe di cui parla il libro di Laura Boella non sarebbe facile.
Ci preme qui dire che questa espressione ha accompagnato lungamente la nostra riflessione, negli ultimi venti anni. Raramente intorno a noi abbiamo potuto farne esperienza. Attribuire poi la qualifica di cuore pensante a se stessi sarebbe eccessivo, ma appropriato, se si pensa ad una propensione ad intrecciare le ragioni politiche con quelle morali, l’esperienza vissuta (Erlebnis) con il cammino (Erfahrung), l’interiorità con l’azione politica, l’espressione di sé con l’esercizio pubblico della parola. Insomma, oltre ogni ‘romanticismo’ di maniera ed oltre ogni improbabile sentimentalismo, si tratta di vedere lo spazio che merita di occupare un modo di consistere mondano che non separa mai le vicissitudini private dai destini collettivi.
La lezione di Hannah, Edith, Simone, Maria ed Etty non cesserà mai di risuonare dentro di noi, continuando ad indicare la possibilità per ognuno di noi di condurre una vita che non si pieghi mai alle vili convenienze o alla clava della forza. Un esercizio di resistenza da condurre con la scrittura, con la parola, con l’azione.
Onore al loro magistero morale!
«La filosofia non è un riparo, una zona protetta dalle contraddizioni del mondo in cui viviamo e dalle nostre contraddizioni. L’eredità delle filosofe non è soltanto scritta nei loro libri, ma vive nella loro esperienza, nei loro giudizi, nelle scelte etiche, politiche e spirituali. E una finestra che si spalanca e dalla quale si guarda fuori, si immagina, si riaprono i giochi con sé stessi e con la realtà. Parlare di Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano e Etty Hillesum continua a essere per me la proposta di un incontro con donne vissute in tempi difficili, che hanno scritto, pensato e lasciato la traccia di una passione per la realtà con le guerre, l’odio, la violenza, la bellezza, le amicizie e il fondo di mistero che la caratterizzano oggi come ieri».

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