IMPARARE A LEGGERE (10): Il piacere di fascinazione non consente di comprendere il significato di un’immagine.

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Dopo le prime considerazioni su ciò che accompagna l’icona, a partire dalla lettura dei testi linguistici, ci viene incontro una sorta di confessione di Roland Barthes – in Barthes di Roland Barthes (1975) – che potremmo assumere come eccezione per noi, rispetto alla regola che cerchiamo per definire compiutamente il lavoro di comprensione e di restituzione del senso di un’icona. Barthes scrive:

Ecco, per cominciare, alcune immagini: sono la parte di piacere che l’autore offre a se stesso terminando il libro. Tale piacere è di fascinazione (e perciò abbastanza egoista). Ho conservato soltanto le immagini che mi folgorano, senza che io sappia perché (questa ignoranza è propria della fascinazione, e ciò che dirò d’ogni immagine non sarà altro che immaginario). Ora, bisogna riconoscerlo, solo le immagini della mia giovinezza mi affascinano. …

L’emozione sempre viva che alle immagini della giovinezza è collegata impedisce di leggere i sensi riposti dell’icona? Sembrerebbe di sì. L’esempio offerto da Barthes ci aiuta a sufficienza fin qui.

Potremmo dire, infatti, che per avviare il processo semiosico di attribuzione del senso si richiede una ‘distanza’ maggiore: l’assunzione dell’icona a oggetto di indagine, oltre l’emozione che pure proveremo di fronte a un oggetto di elezione. Scegliere di illlustrare il senso, dispiegandolo in tutti i suoi aspetti e andando oltre la semplice-presenza, per risalire a tutto ciò a cui allude e che fonda la rappresentazione, è già sforzo di depurazione della forza dell’emozione. Non diremo che occorra ‘sbarazzarsi’ di essa, per accedere più lucidamente al senso.

Paradossalmente, si richiede proprio quella ‘fascinazione’ iniziale – le prime impressioni, che sempre proviamo nella fruizione estetica di un oggetto d’arte – per impegnarsi poi a dire cosa significhi l’immagine, a partire da ciò che ha preso a significare ‘per noi’. Ci sarà da depurare l’emozione, semmai, da residui di ingenua soggettività e da ‘errori’ derivanti da un sentire non esatto, senza, con questo, pretendere di poter fare a meno dell’emozione stessa.

Si potrebbe dire che il risultato finale è proprio l’emozione estetica, cioè l’equivalente del piacere del testo. Questa emozione si afferma sempre, tutte le volte che un oggetto colpisce la nostra sensibilità viva, suscitando un assenso che va dalle modificazioni degli stati di corpo e d’animo al sentimento vero e proprio. Sempre noi siamo impegnati ad attribuire valore all’oggetto stesso, e dalla qualità di questo valore dipende poi la qualità dell’emozione che accompagna la ‘relazione’ con l’oggetto.

L’educazione estetica cos’altro è se non il necessario affinamento della sensibilità personale, che si richiede per poter godere delle cose belle, sostenendo ‘contemporaneamente’ la crescita della sensibilità con lo sviluppo della personale capacità di lettura della realtà?

Una conclusione provvisoria, oggi, potrebbe essere questa: la ‘conoscenza’ dell’oggetto – considerare anche la conoscenza personale, cioè la conoscenza degli altri – non può prescindere dal nostro vivo sentire, ma quest’ultimo può ‘ridursi’ a fascinazione. Quando questo accade, il processo di comprensione si arresta.

Quante volte sperimentiamo nel corso della nostra vita questa ‘vittoria’ delle emozioni, in presenza di oggetti e persone che non riusciamo a ‘identificare’ nel prosieguo dell’esperienza? Di essi subiamo il ‘fascino’. Possiamo parlare di seduzione tutte le volte che l’oggetto risulta “non identificato, non analizzabile, teorico ed amoroso” (Baudrillard). Dobbiamo ‘impedire’ che l’immagine cancelli la Realtà.

A chi obiettasse che l’amore non può non essere seduttivo risponderemo che possiamo fare di più rispetto all’assunzione acritica dell’esistenza dell’altro come rispetto alla pretesa di possesso totale di quello: tra i due estremi della dipendenza disfunzionale – per usare il linguaggio dei cognitivisti – e del diniego si dà relazione. ‘Ragione’ e ‘sentimento’ sono consorti, pur in presenza di un fondo enigmatico e buio da cui ci accade sempre di divinare nelle cose d’amore.

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IMPARARE A LEGGERE (10): Il piacere di fascinazione non consente di comprendere il significato di un’immagine.

CAMMINARSI DENTRO (151): La saggezza dell’amore (2) – L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e relazione con l’altro, di MARA DELL’UNTO

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L'ordine del cuore

L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e incontro con l’altro

 

di MARA DELL’UNTO

“ E stupisco che l’amore abbia   questo volto interno” (M. Luzi)

In questa breve ricognizione sull’affettività e sui suoi legami con la costruzione della personalità seguiremo sostanzialmente l’iter concettuale che Roberta De Monticelli propone ne L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, con alcuni cenni diretti all’opera di Edith Stein,  riassumibile nelle seguenti tesi:

  1. L’affettività è la vita attualizzata del sentire inteso come la percezione assiologica del reale.
  2. Il sentire è strutturato  a diversi livelli di profondità – sensoriale, vitale o degli stati d’animo e sentimentale- a cui corrispondono altrettanti gradi di maturazione individuale.
  3. Lo strato più profondo del sentire, quello in cui si instaura un ordine del cuore o ethos individuale, è quello dei sentimenti
  4. I sentimenti che estendono o riducono l’apertura alla percezione assiologia del reale sono amore e odio. La specifica riduzione del sentire che comporta l’odio assieme alle altre passioni distruttive, come pure tutte le strategie di evitamento del dolore, sono alla base di una cecità assiologica che si accompagna ad una mancata individuazione della personalità.
  5. Al contrario, se l’ancoraggio ad un ordinamento  costituito da valori non derogabili è fondamentale per un’etica condivisa, è il concreto ordinamento del cuore che rende ogni individuo persona unica. Ed un ordine del cuore aperto alla percezione assiologia del reale è possibile che instauri solo grazie all’amore, inteso come l’attivarsi dello strato profondo dell’affettività che si dispone a cogliere il valore del reale grazie agli incontri e alle esperienze di valore significative. Dunque, l’ordine interiore che fa di noi delle persone è legato alla nostra capacità di sentire il valore degli altri e di dare risposte adeguate alle esigenze del reale. Così Simone Weil:” Arrivare a comprendere totalmente che le cose e le persone esistono. Giungere a questo, sia pure una sola volte prima della mia morte; è la sola grazia che io chieda”

Per una definizione del sentire

Il sentire, inteso come la percezione delle qualità di valore delle cose, si manifesta nella vita affettiva: sentimenti, passioni, stati d’animo ed umori sono l’attualità intesa come esplicazione di ogni fenomeno della vita affettiva. Se il sentire, dunque, è la percezione delle qualità assiologiche del reale, la tesi forte qui sostenuta è che esso non è l’ambito dell’arbitrarietà soggettiva e neppure un meccanismo adattivo all’ambiente determinato geneticamente. Sentire che un’azione è ingiusta, dal punto di vista che qui sosteniamo, è un’evidenza che si sottopone ad una prova di verità; ovviamente, ciò non significa che tutto ciò che sentiamo è per ciò stesso vero: il sentire come apertura alla dimensione assiologia del reale si rivela un esercizio fallibile in cui l’errore, l’aridità, la miopia sono alla base di risposte inadeguate al reale. Allora, la necessità di un’educazione al sentire, di un’esattezza del cuore, che è l’obiettivo fenomenologico di ogni formazione della persona, include il superamento dell’opposizione sentimento-ragione perché non c’è precisione del cuore senza adeguate capacità cognitive. Abbiamo detto che la vita affettiva – sentimenti, passioni, emozioni- si fonda sulla sensibilità, ma l’affettività non si riduce a ricettività, è fatta anche di risposte, di azioni. E, se è vero che l’adeguatezza delle nostre risposte al reale dipende dalla giustezza del sentire, è importante considerare anche la parte tendenziale della nostra persona: pulsioni, desideri, bisogni ci spingono ad agire spesso in modo compulsivo, ma ciò che ci motiva all’azione è il sentire o meno adeguatamente. Anche l’assenza di percezione di valore della realtà ci fa decidere, perché il rapporto tra componente tendenziale e precisione del sentire è di tipo inversamente proporzionale: meno valore percepiamo e più componente pulsionale agiamo. Dunque, il sentire come ciò che motiva in ultima analisi il volere ci porta a considerare il sentire parziale ed ottuso, il sentire “deficiente,” come il responsabile di azioni condotte sulla scorta delle componente tendenziale in cui può smarrirsi qualunque contatto con la realtà in un esercizio esasperato e fatuo dell’emotività. Il fenomeno della maturazione affettiva implica, allora, un’attivazione dei diversi strati del sentire, non solo dell’ampiezza, ma anche della profondità: non solo percepire quanta più realtà possibile ma anche attribuire ad essa un rango di valori che la strutturi gerarchicamente. Bene, è proprio quest’ordine che si manifesta nella vita affettiva e nei comportamenti a definire il nostro personale modo di sentire, la nostra individualità. Dunque, se attivazione e strutturazione assiologica della sensibilità sono i fenomeni fondanti l’identità di una persona, laddove  questa strutturazione sia assente si assiste al fenomeno della “banalità del male”, il cui polo estremo può essere certo rappresentato dal gerarca nazista di cui si occupò la Arendt, ma che qui  indica tutta una gamma di piccoli e grandi orrori che costellano le nostre vite quotidiane e di cui non necessariamente si occupano le cronache.

La struttura del sentire

L’affettività ha uno strato sensoriale e vitale, ma tra questi strati e quello propriamente personale c’è un salto connesso all’esperienza di altre personalità come tali. L’affettività ridotta agli strati vitale e sensoriale non consente né una personologia né un’etica: nella strutturazione della persona, il momento centrale è la percezione di valore delle altre persone come tali. Infatti, sono i sentimenti connessi ad una relazione personale, e soprattutto l’amore nelle sue diverse forme, a strutturare tutta l’affettività. Dunque, grazie ad una ricognizione strutturale e ad una dinamica, proveremo ad illustrare la connessione imprescindibile tra identità, affettività e dimensione etica del vivere nel suo fondamento relazionale. Detto in termini più perspicui, vedremo come l’amore sia la possibilità più propria che ognuno ha per formarsi come individuo in grado di sentire e di agire in modo adeguato rispetto alla non ineludibile struttura assiologica che il reale ci pone di fronte come richiesta di risposte adeguate.

Abbiamo accennato ai vari strati dell’affettività distinguendo una sfera del sentire riconducibile ai sensi, una vitale  che indica gli umori e gli stati d’animo, ed infine quella personale o dei sentimenti. Se la sfera dei sensi delinea il fondamento del nostro percepirci come vita personale basata sulla percezione dei vissuti inerenti l’essere un corpo, vi sono poi tutti quei sentimenti vitali che ci rivelano il nostro benessere o malessere, la nostra energia fisica, a cui affianchiamo i vissuti che ci rivelano gli umori o lo stato d’animo che ci caratterizza in dato momento: angoscia, gioia, depressione etc. Bene, i sensi vitali, che siano o meno legati al corpo, ci rivelano che siamo inscritti in una dipendenza causale dalle circostanze, ma non esauriscono la sfera della nostra vita personale. E Stein in Psicologia e Scienze della spirito tenta di fornire una teoria della causalità psichica, valorizzando il ruolo della motivazione nell’ambito della vita personale: l’alternarsi dei sentimenti vitali ci attesta il fatto che dipendiamo dall’esterno e che il nostro benessere psichico è indice di come stiamo, di come viviamo, in modo più ampio e profondo degli stati di benessere o malessere fisico, quantunque questi spesso concorrano in modo significativo a determinare i nostri stati d’animo. Ma i nostri stati d’animo, le nostre tonalità affettive non sono ancora in grado di determinare le caratteristiche della nostra personalità: gli stati d’animo ci dicono come stiamo ma non ancora che siamo ( e su questo punto mi permetto di rinviare alle bellissime analisi che E. Stein conduce sull’analitica esistenziale di M. Heidegger contenuta in Essere e Tempo) . La personalità, intesa come lo strato più profondo del nostro essere, si forma a contatto con le altre persone: i sentimenti sono il luogo in cui incontrando gli altri incontriamo noi stessi perché qui il sentire è matrice di risposte alla realtà in cui ognuno di noi sperimenta attraverso scelte, azioni e decisioni, un proprio personale ethos. Ciò ovviamente non comporta un relativismo morale perché tutti gli ordini personali sono ugualmente validi se non contraddicono norme universalmente obbliganti e se è possibile stabilire la verità di queste norme, ma di questo parleremo tra poco.

Allora, tornando alla distinzione tra causa e motivazione, possiamo chiudere questa parte dicendo che lo strato personale dell’affettività è quello dei sentimenti, i quali si configurano come un consentire/ dissentire nei confronti di un sentire di primo grado, ovvero del semplice presentarsi delle qualità di valore del nostro sentire; ad esempio, avvertire gioia o dolore è un semplice prendere atto in modo passivo della nostra esposizione al mondo, ma noi possiamo decidere da cosa farci toccare e a quale profondità. E’ in queste risposte che riveliamo ciò che siamo a noi stessi, anche se questa scoperta non avviene indipendentemente dalla scoperta dell’altro.

Sentimenti, emozioni e passioni

Dunque, lo strato personale del sentire si struttura attraverso l’incontro con l’altro che si pone come occasione privilegiata per la maturazione affettiva. Se un sentimento è una disposizione del sentire, cioè un consentire o dissentire rispetto a ciò che lo suscita, questo significa che il sentimento analizzato nella gamma che va dai poli opposti dell’amore e dell’odio è un atteggiamento motivante scelte, azioni e comportamenti, e che come strato dell’affettività che struttura un ethos individuale si distingue tanto dalle emozioni quanto dalle passioni.

Gli strati affettivi coinvolti dai sentimenti sono certamente quelli causalmente determinati, cioè quello sensoriale e vitale o dell’umore. Ma certamente le emozioni legate ad esempio alla percezione del bello, del buono, del giusto, presuppongono una sensibilità sufficientemente strutturata a livello personale. Le emozioni, infatti, in quanto reazioni ad una percezione, si configurano come attivazioni del sentire e del tendere e sono – a differenza dei sentimenti – vettori d’azione immediata che possono dunque indurre ad una reazione o ad un’azione che si configura come semplice attivazione di una sensibilità priva di strutturazione personale – che vive solo a livello sensoriale e vitale – o, al contrario, risposta conseguente ad una certa strutturazione del sentire e chiamare in causa i valori vitali. Finora, concentrandoci sul sentire non abbiamo parlato se non accennandovi, all’altro polo della vita affettiva, ossia il tendere inteso come l’insieme di pulsioni, desideri e aspirazioni: la passione è un modo del volere che implica il tendere in tutte le sue forme. Da sempre si oppone la passione alla ragione, in quanto si identifica come caratteristica saliente della passione il suo essere radicata nell’irrazionale tradotto con elementi che possiamo riassumere come l’inadeguatezza assiologica, l’inerzia o la forza compulsiva e l’irresistibilità, ovvero l’imporsi ad un soggetto in presenza del dissenso da parte dello stesso. Elementi che spesso portano un’azione passionale ad essere considerata frutto di un conflitto di volontà – insuperabilmente descritto da Agostino nelle Confessioni – in cui le due direzioni del tendere portano l’una all’azione e l’altra al rifiuto stesso del volere concretizzato nell’azione. Quest’ultimo, dunque, un volere di second’ordine che non può restare per sempre velleitario: o il conflitto del volere porta, attraverso una crisi, ad una ristrutturazione assiologica o , se è destinato a rimanere immutato nel tempo con le sue dinamiche circolari, non è un vero conflitto ma una semplice resa ai propri meccanismi tendenziali mascherata da un bisogno ipocrita di autoassoluzione. Va qui notato  che, se un’azione libera non è un’azione indifferente alla passione, ma un’azione a cui si consente con tutto  se stessi, frutto di una volontà che pienamente consente al proprio fare, non per questo è definibile come un’azione buona. Le passioni di per sé non sono fonti di conflitto,ma quando ciò accade si può accedere ad una ristrutturazione della personalità ma anche ad un’uscita verso il basso, ad una destrutturazione assiologica che culmina nelle “passioni fredde”. Assistiamo qui al fenomeno dell’inaridimento del sentire che coesiste con la forza passionale delle tendenze in cui l’empatia – intesa qui come la definisce E. Stein, ossia la percezione psicologica dei vissuti  altrui – si riduce al generico e perde la presa sull’individuale. Riduzione del sentire significa proprio non percepire l’individualità di chi ci sta di fronte, ma ridurlo ad in semplice componente di una classe di individui di cui ci sentiamo nemici o di cui, semplicemente, dobbiamo fare un uso strumentale, senza che si dia la possibilità di sentire l’altro sorgente di un sentire o un soffrire che renderebbe impossibile il male o l’indifferenza nei suoi confronti. Valga a titolo esplicativo, Eichmann, al processo dichiarò di non aver mai odiato gli ebrei. Dunque, l’affettività umana ridotta all’impersonalità si esplica nelle passioni fredde, che vanno dall’indifferenza alle sofferenze altrui al contagio emotivo che è il contrario dell’empatia: sentire gli stati d’animo altrui come i propri  ma sempre attraverso l’impersonalità. La rabbia o l’entusiasmo delle folle sono la manifestazione di dinamiche emotive in cui vige il contagio e non l’empatia.  Il motivo per cui si dà un conflitto d’identità non risolvibile è che il nucleo sentimentale della passione configura un ordine assiologico non integrabile nel precedente: è questo che porta al male assoluto o semplicemente alla mediocrità quotidiana che spesso rivela la distanza tra l’opinione che abbiamo di noi stessi e delle nostre priorità assiologiche e le priorità che effettivamente manifestiamo nelle nostre azioni.

Il volto interno dell’amore

Da quanto detto finora è chiaro che un qualche ordine assiologico si instaura solo quando ci è data una possibilità di gioire non solo per le sensazioni piacevoli o lo stato di benessere, ma quando si attiva lo strato dei sentimenti che è ulteriore, più profondo, rispetto a quelli sensoriali o vitali. E questo diventa possibile solo quando diventiamo capaci di sentire il valore assoluto di un’altra esistenza come tale; solo allora si attivano gli strati più profondi dell’affettività, quelli in grado di cogliere le differenze di valore del reale, avviene la maturazione personale che qui facciamo coincidere con la precisione del cuore. Di norma, ciò avviene perché  siamo stati per primi oggetto d’amore da parte di qualcuno e quando ciò non è avvenuto, sviluppare la capacità d’amare diventa un esercizio estremamente faticoso, spesso superiore alle nostre forze. L’amore come sentimento che attiva uno strato personale del sentire, matrice di risposte che strutturano un ethos individuale, ci introduce al nesso tra la formazione di noi e l’apertura al valore del reale. Faccio un esempio: se non si sente che il desiderio di maggior benessere economico non vale la morte di un genitore o di un coniuge, sicuramente non è stato possibile attivare alcuna strutturazione assiologia del reale e non basta derubricare questi come casi di follia. Dostoevskij in Delitto e castigo coglie il vero – come sempre, aggiungiamo – quando consegna all’assassino di una vecchia spilorcia,  per mano della prostituta Sonia, il brano di Giovanni sulla resurrezione di Lazzaro: ciò che deve risorgere è la possibilità di una vita personale, di una capacità di sentire che passa per l’assunzione delle proprie responsabilità, unica via di scampo da una morte per disseccamento interiore.

Ma come si attiva concretamente lo strato personale del sentire? Di certo, non basta l’educazione né l’esempio: nessuna attività altrui forma una personalità, anche se, perché avvenga il risveglio e la maturazione, occorrono gli altri, occorre la presenza di qualcuno in grado di attivare una risposta che abbiamo definito amore.

L’amore, inteso qui come sentimento relazionale elettivo e non solo, è un incondizionato consentire all’esistenza di una determinata persona non perché abbia particolari qualità ma perché è quella persona. E’ un assentire felice alla sua essenza che invita ad un rinnovamento interiore che comporta sempre una scoperta e riscoperta di sé. Certo, l’amore è rinnovato sentire, ma soprattutto per gli amori elettivi è anche desiderio e ospita allora tutta una serie di dimensioni del tendere come bisogno, pulsione, domanda, che sono l’esatto contrario della gratitudine, del felice consentire; e con ciò non si sta svalutando  la forza dell’eros, ma si vuole contestare il tentativo di ricondurre tutta l’affettività al suo polo pulsionale. Abbiamo detto che l’oggetto d’amore è l’identità altrui; per questo, l’amore non è motivato ( “è senza perché, fiorisce perché fiorisce”) ma certamente la persona oggetto d’amore viene intuita come la soglia attraverso cui ci si dischiude un nuovo universo di valore. Ogni esperienza amorosa ha come sua manifestazione apicale un bisogno che non è di possesso ma di espressione. La preziosità della persona amata è in fondo il potere di farti intuire la “tuità” di te, di suscitare la tua espressività; qualcuno che se ne intendeva ha scritto “ di generare nel bello”.

L’etica tra il sentire e il conoscere

L’amore, dunque, come sentimento dell’intero è un’ introduzione a tutti i sentimenti relazionali positivi che caratterizzano i rapporti con gli altri che, benché motivati da un accesso parziale al valore dell’altro, recano una traccia del felice consentire dell’amore che in questo senso prepara al riconoscimento dell’identità altrui come tale. Il sentimento corrispondente al riconoscimento dell’altro in quanto tale è il rispetto, che davvero significa il sentire che le esistenze degli altri hanno valore. In questo senso, l’amore non può essere dovuto a tutti per le caratteristiche di cui abbiamo parlato, ma il rispetto sì e l’estensione delle classi di enti a cui è dovuto il rispetto è certo indice del livello di civiltà di un’epoca. E, proprio perché il rispetto è il sentire la dignità delle persone in quanto tali, possiamo assumerlo come la minimale condizione di possibilità dell’etica. Infatti, chi non nutre questo sentimento non si accorge di vivere in un mondo di persone e conduce una vita subumana in cui viene meno la corretta formazione di un pensiero della realtà, in quanto davvero il rispetto inteso come il sentimento della trascendenza dell’individuale è il sentimento della realtà in quanto dotata di valore. E’ solo nel rispetto che il sentire si struttura come coscienza morale, ovvero come facoltà di giudicare e di agire in base a motivazioni moralmente fondate. Ma di che tipo è l’evidenza che fonda i giudizi di valore? Le norme non possono che essere obbliganti in virtù dei valori che le fondano, ed i valori sono le qualità assiologiche del reale. I valori si sentono, certo, ma non ogni modo del sentire è una base di evidenza; abbiamo detto prima che solo lo strato dei sentimenti fonda un ordine del cuore personale e che tale prospettiva si sottrae all’accusa di relativismo quando si stabilisce il principio che tutti gli ordini compatibili con la verità atta a fondare norme obbliganti sono compatibili anche tra loro. Ora, questa base di evidenza è il rispetto, inteso come condizione minima per accedere alla soglia dell’agire morale: sapere ciò che da chiunque è dovuto a qualunque persona come tale è la base delle norme universalmente obbliganti senza le quali non c’è giustizia. In altri termini, ognuno può legittimamente decidere in cosa consista la sua felicità se questa è compatibile con la base non negoziabile della giustizia morale. Ma come fondare l’universalità della norma, data la personalità del sentire? Proprio ponendo il rispetto alla base dell’etica, possiamo affermare che il giusto agire, la phronesis aristotelica, si sottrae ad ogni pericolo di soggettivismo e relativismo. Abbiamo volutamente evitato il riferimento all’etica kantiana che pure fa del rispetto l’unico sentimento che informa la vita morale per restare semplicemente sulle cose stesse, ma bisogna pur tornare all’esigenza kantiana di universalità e di apriorità dell’etica in quanto elementi dirimenti per la fondazione di una base etica obbligante ciascuno pur nella diversità delle personali aspirazioni. Ciò che qui si propone è un’etica assiologica, in quanto pone a fondamento del dovere le istanze di valore del reale, ma non eudemonistica perché la felicità è poi un affare privato di ciascuno di noi; una proposta che  distanzia da Kant perché ritiene che il carattere obbligante della norma coincida in ultima analisi con il riconoscimento del valore che la fonda, e  ciò avviene solo per il rispetto in quanto sentimento universalmente dovuto da ciascuno  a ciascuno. Un sentimento che diventa matrice di risposte adeguate in quanto assume l’abito, o la virtù, della phronesis che dispone la nostra buona formazione e trasformazione, strutturando una sensibilità personale capace di sentimenti e comportamenti giusti nei confronti degli altri e di noi stessi.

Sulla vita buona o sulla felicità

Abbiamo visto come lo strato personale dell’affettività si attivi e si strutturi in modo privilegiato attraverso l’esperienza dell’amore, sia questo elettivo o meno. Ma, abbiamo anche detto che la maturazione personale è un fenomeno dinamico che può subire quindi variazioni e regressioni e ciò che opera in modo tale da far regredire una personalità fino al livello subumano è proprio l’odio, che al suo fondo resta incomprensibile, tant’è che non si odia – o meglio così si crede – mai per primi: si risponde sempre all’odio di un nemico. Ciò che resta incomprensibile dell’odio è dunque la sua gratuità, elemento invece indispensabile e pienamente comprensibile nell’amore. L’amore, nella sua essenza, è gratuito perché è senza motivo ( non sono le qualità dell’altro a farcelo amare) ma non infondato perché è un’esperienza di realtà progressiva nel senso che facciamo esperienza di un’altra persona che è appunto il fondamento del sentimento che viviamo. In questo senso non c’è amore illusorio: certo, possiamo sbagliarci sul sentimento o rifiutare la persona reale una volta venuta meno l’immagine trasfigurata dal desiderio, ma ciò ha a che fare non tanto con l’essenza dell’amore quanto coi residui di un’adolescenza che qualche volta tarda ad evolvere nella maturità. E qui rinviamo ad un piccolo capolavoro letterario di Dürrenmatt, Greco cerca greca, una fenomenologia della maturazione affettiva, in cui il protagonista  passa attraverso le secche  (il lago gelato di Costanza ) della disillusione per approdare ad un amore che, abbandonata l’infatuazione dell’immagine autoeroticamente prodotta, è capace di pronunciare un amen all’essenza dell’amato ad occhi aperti, cioè col giusto sentire che non si sottrae alla verità ma che, nondimeno, continua anzi comincia ad amare in una dinamica di bene prodotto e ricevuto  finalmente salvifica.

Alla base dell’odio, invece, sembra esserci un vuoto, un’assenza di realtà che si rivela come un’incapacità di sentire le differenze di valore del reale; il lato pulsionale dirige tutto il nostro agire quando è ridotta a zero la capacità di sentire , ed è proprio una mancanza, l’indifferenza , a nutrire l’odio. Il sentire non giusto è un sentire poco, un’insufficiente attivazione dello strato personale dei sentimenti, in primo luogo del sentimento di rispetto, e dunque una mancanza di percezione della realtà e del suo ordine assiologico. Così la base dell’ingiustizia è l’indifferenza, grazie a cui non colgo che il mio benessere economico non vale l’omicidio del mio coniuge, o il furto, l’arrivismo nutrito di scorrettezza, non vale un avanzamento di carriera. Torna infine la dottrina platonica del male come deficienza d’essere; qui, l’essere insufficiente è il nostro e deficienza d’essere significa deficienza del sentire. Allora, essere in grado di accogliere la realtà portatrice di valore che soprattutto nell’individualità altrui rivela il proprio volto significa strutturare una  personalità che sta compiendo il proprio percorso di  maturazione affettiva; un percorso che non ha come meta ma come origine la felicità stessa. La felicità non è né un’emozione né uno stato d’animo, ma ciò che rende un ente conforme alla sua essenza si legge presso gli antichi Greci, e qui pensiamo ad Aristotele  ma non solo. In altri termini, possiamo dire che la felicità è la possibilità ontologica della persona capace di sentire, la piena attivazione di tutti gli strati del sentire; quindi il suo contrario non è la tristezza o il dolore, ma l’incapacità di provare affetti, di sentire davvero, l’inaridirsi del cuore che sempre porta ad una destrutturazione della personalità e ad una perdita di contatto con la realtà . La felicità non è un’emozione, ma una condizione oggettiva: essere capaci di gioire e di soffrire senza rimuovere alcunché, la piena attivazione di tutta la nostra sensibilità. E’ per questo che  si nasce a nuova vita,  ci si dischiude a nuove possibilità, nel felice assenso che l’amore richiede.

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CAMMINARSI DENTRO (151): La saggezza dell’amore (2) – L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e relazione con l’altro, di MARA DELL’UNTO

CAMMINARSI DENTRO (150): La saggezza dell’amore (1)

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Non si impara a conoscere se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore. – GOETHE

Il senso comune è portato a pensare che “l’amore è cieco”, e con questa espressione allude alle scelte che facciamo nelle cose d’amore, che sono giudicate sempre casuali, precipitose, quando non dissennate… Solitamente, si esprime quel giudizio di fronte alle delusioni personali o alle rotture: queste rappresentano una conferma del ‘principio’. Ma si tratta di un vero principio, di un’idea fondata?

Non è di questa opinione Umberto Curi, che è l’autore di un’opera importante, La cognizione dell’amore. Eros e filosofia [ <- leggere fino in fondo le pagine riportate in Google Libri] che riprenderà altrove, tornando sul tema dell’amore e della conoscenza: sulla scelta estetica, su eros e sessualità, sul mito di Orfeo ed Euridice e su quello di Narciso. Amore non è cieco; anzi, ci insegna a vedere.

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CAMMINARSI DENTRO (150): La saggezza dell’amore (1)

CAMMINARSI DENTRO (149): Al di qua dello sguardo – Elegia della vita schiva

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Sta nascendo un film, che sarà girato in Irlanda. Siamo nella fase del Casting. Io partecipo con un blog in cui presto la voce al protagonista del film, Marco Serrani. Ho avuto il privilegio di conoscere la Sceneggiatura negli ultimi due anni di creazione artistica, per questo ho scelto di presentare Marco Serrani.

Mettersi nei panni di un ventottenne non è facile, ma conosco Marco dalla nascita. So chi sia suo padre, il padre putativo che lo ha messo al mondo, e quanto ci sia di lui nel personaggio. L’improvvisazione filmica e, prima di essa, l’improvvisazione jazz, a cui egli ha dedicato la sua tesi di laurea. L’amicizia con lo studioso Sparti. La Cineteca di Bologna. Un ‘corto’ – …ed è subito sera – premiato più volte e che ha avuto riconoscimenti anche a livello internazionale.

Presentazione del blog

Il primo post – Non parlatemi di vita sospesa!

Il secondo post – Il pensiero di lei. Il giorno prima della felicità.

Il terzo post – Un presentimento

Il quarto post – Improvvisamente, poco fa

Il quinto post – Lungo i sei lati del mondo, in cerca di un Oriente.

Il sesto post – Le altre ragioni

Il settimo post – «Stati d’animo, stati di grazia, elegie!»

L’ottavo post: vivere bene la solitudine è un privilegio

Il nono post: Una garbata e delicata anomalia

Il decimo post: Un centro di gravità permanente

L’undicesimo post: Prima persona singolare

Il dodicesimo post: Il divenire di un’Occasione

Il tredicesimo post: Verso un sapere dell’anima

Il quattordicesimo post: Un profondo sentire

Il quindicesimo post: “Non posso sopportare la pioggia!”

Il sedicesimo post: “Parlami!”

Il diciassettesimo post: Le sue voci

Il diciottesimo post: Le cose vanno viste da vicino

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Servizi Informatici

Contrassegnato | Commenti disabilitati su CAMMINARSI DENTRO (149): Al di qua dello sguardo – Elegia della vita schiva

CAMMINARSI DENTRO (148): Lo stesso amore

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Se penso a chi ho amato di più – se ho prediletto mio padre o mia madre -, scopro che non saprei scegliere, perché non possiedo la misura dell’affetto provato. Dopo il lutto, avendo distillato tutti i fatti e gli eventi che punteggiarono la nostra vita, resta solo il bene ricevuto.

Gli errori educativi, che pure furono grandi, non sono apparsi tali, perché relativizzati, fino a quando ho iniziato a pensare che i rapporti all’interno della famiglia potevano essere regolati diversamente: i litigi eterni tra i fratelli, l’influenza dei parenti che contribuirono sempre a dividere i fratelli non trovarono in mio padre e in mia madre ‘giudici’ pronti a fare giustizia, riconoscendo ragioni e torti. Per mettere fine alle contese. Tutte le divisioni restarono sempre tali.

Essi ci amarono dello stesso amore. Non seppero mettere mai nulla al di sopra dell’amore.

Oggi mi ritrovo a pensare – quando la vita è quasi tutta alle mie spalle – che c’è qualcosa al di sopra dell’amore. Che si debba amare addirittura essendo capaci di situarsi oltre l’amore. Questo sentimento un tempo non veniva analizzato. Era quasi sacro. I sentimenti venivano da terre sconosciute ed erano destinati a durare per sempre. Crescendo noi ci convincemmo che l’amore è l’espressione più alta del cuore e che non si possa fare a meno di amare di un amore puro e sincero. Infatti, non riuscivamo a comprendere quale fosse l’origine del Male. Chi uccideva era pazzo. Chi tradiva era fuori dell’umano.

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CAMMINARSI DENTRO (147): La grana del ricordo.

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Ci accade di pensare, negli istanti supremi in cui la vita cambia all’improvviso, che andrebbe fermato il tempo, per riuscire a fermare con esso i nostri palpiti. Ci accade sempre di pensare che se non scriveremo in quegli istanti, non ci riusciremo più: non riusciremo, in seguito, a dare voce ai fatti e ai volti, ma soprattutto alle voci che si levarono a dire un’istanza del cuore, un sussulto, un ansito breve. Nel ricordo di persone che abbiamo lungamente amato non confluiscono mille ricordi: non ci accade di ricordare mille cose. E’ come se ci fosse concesso di conservare un solo esempio, solo qualche scarso  frammento di esistenze con cui abbiamo convissuto anche per decenni! Resta la voce.

Ed io ricordo bene la voce di mio padre. E ricordo la voce di mia madre. Di questo sono fatti tutti i ricordi possibili, oggi.

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CAMMINARSI DENTRO (146): Angelicamente. Il senso dell’angelo nel nostro tempo.

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AngelicamenteLa pagina dedicata al libro in Facebook

La scheda dedicata al libro dalla Casa Editrice

Gli Autori:

GRAZIA APISA, L’angelo come metafora della presenza dell’infinito e dell’oltre

INDICE DEL SAGGIO:
1. La risposta alla domanda
2. L’angelo è metafora della presenza ma la presenza non è l’angelo
3. Scomparsa del terzo mediatore
4. Amore è il nome di Dio

Grazia Apisa vive a Genova. Scrive poesie dall’età di sette anni. Nel ‘91, rileggendo il suo percorso esistenziale e poetico, vi scoprirà molte anticipazioni dellesintesi successive (Senza Traccia). La ricerca di un’altra dimensione, il dialogo con l’assoluto, la scoperta del Soggetto troveranno risposta e attuazione nell’incontro con Silvia Montefoschi. Nel ‘94-’95 ha pubblicato sei opere, poesie, racconti,favole, sogni e un libro vita: Ti amo. Dalla dialettica al dialogo. Tra il 2007-2008 ha pubblicato i primi 8 volumi dell’opera Il Dialogante. Nel 2009 L’Incontro e Luce del silenzio e nel 2010 O-sceno – Oltre la scena. E’ presente su Facebook.

ELIANA BRIANTE, Gli angeli nella Bibbia e nella Riforma

INDICE DEL SAGGIO:
1. La funzione degli angeli
2. Gli angeli nella bibbia
a. Nell’Antico Testamento
a.1. Le querce di Mamre
a.2. L’asina di Balaam
a.3. Chiamata di Isaia
b. Nel Nuovo Testamento
b.1. L’Apostolo Paolo e gli angeli
b.2. Apocalisse
3. Gli angeli nella riforma protestante del Cinquecento
a. Martin Lutero
b. Giovanni Calvino
c. Karl Barth
4. Noi e gli angeli

Eliana Briante nata a Pachino (SR), ha studiato a Roma alla Facoltà Valdese di Teologia e a Monaco di Baviera. Pastora della Chiesa Evangelica Valdese(Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste), ha prestato servizio in Italia e in Germania. Dal 2000 al 2005 è stata direttrice del Servizio Cristiano di Riesi (CL), istituto diaconale della Chiesa Valdese, comprendente Scuola dell’Infanzia e Primaria, Consultorio Familiare, Centro Agricolo Biologico, Casa per ferie, Centro internazionale di Studi sull’Architettura. Dal 2005 è pastora della Chiesa Evangelica Metodista di Milano. È sposata e ha due figli.

GABRIELE DE RITIS, Essere angelo per qualcuno. Empatia e kairós nella relazione d’aiuto

INDICE DEL SAGGIO:
Il brusio degli angeli
In cammino verso l’altro. camminare insieme.
Angelo e Daimon
Empatia e Kairós

Gabriele De Ritis si è laureato in Filosofia nel 1972 con una tesi sui rapporti tra Filosofia e Psichiatria, segnatamente sull’influenza esercitata dal pensiero di Sartre sull’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper. Successivamente si è occupato di Etica e di Estetica, di cui si è avvalso per l’insegnamento delle Lettere italiane e latine nei trentacinque anni trascorsi nei Licei. Da venti anni è impegnato nell’attività di Educatore in un Centro di ascolto per ragazzi tossicodipendenti e per le loro famiglie. E’ presente su Facebook. Da anni cura un suo sito personale.

PAOLO FERRARIO, Il Genius loci come angelo del luogo

INDICE DEL SAGGIO:
1. L’evento
2. Relazioni fra gli angeli e gli uomini
3. Il Genius loci
4. I luoghi concreti
5. Gli elementi dei luoghi
6. ritorno a casa

Paolo Ferrario è sociologo e docente universitario a contratto al Corso di laurea in Scienze pedagogiche della Università di Milano Bicocca. Attraversa il suo Destino nell’ultimo tratto di vita tra partecipazione alla Polis e necessità esistenziale di ancorarsi in un Luogo. Ha scritto solo libri tecnici e questa è la sua prima escursione nella scrittura creativa. Tiene un diario sul Blog www.paolodel1948.blogspot.com. In Tracce e sentieri. Luogo Tempo Eros Polis Destino si trovano indicazioni su tutte le sue attività.

PIETRO GENTILI, La mistica del colore. Gli angeli di luce rossa, di luce gialla e di luce blu

INDICE DEL SAGGIO:
L’angelo di luce rossa. Il colore del fuoco.
L’angelo di luce gialla. Il colore dell’aria.
L’angelo di luce blu. Il colore dell’acqua.

Pietro Gentili (San Vito Romano 1932-2008), artista e pittore cosmico. Le arti figurative sono sempre state la sua passione (ne sono prova le sue grandissime tele piene di luce lunare, gioco di specchi e colori) da dove traspare un amore viscerale per l’universo e l’infinito, a cui negli anni si è affiancata quella per la ricerca mistico-esoterica dell’astrologia che ha improntato tutta la sua ultima produzione artistica. Ha pubblicato otto saggi tra cui Supernatura, La Semina del Cuore, Astrologia scienza dello Spirito, La dualità del Sole e della Luna, Le dimore del cielo senza stelle ed ultimo in ordine di tempo Una Vita e un’Arte del 2003, oltre a numerosi articoli su riviste di settore. Le sue opere sono state esposte in numerose gallerie d’arte e sono tutt’ora presenti in diversi musei e pinacoteche italiane ed estere. In sua memoria è stato realizzato il sito www.pietrogentili.com. Egli è l’autore dell’opera Arcangelo imporporato, di cui in copertina è riprodotto un particolare dell’ala.

CLAUDIO GREGORAT, L’influenza dell’angelo sull’anima umana

Claudio Gregorat nato a Chiopris-Viscone (Ud) nel 1923. Musicista compositore con 170 titoli di opere dallo strumento solista alla grande orchestra. Scrittoresaggista su vari argomenti secondo la prospettiva antroposofica. Libri: La musica come mistero del suono, L’anima della musica, Origine ed evoluzione degli strumentimusicali, La musica come terapia, Processi di pensiero, Evoluzione dell’intelligenza, Itinerari della coscienza pensante, Il confronto col Male, Convivere con la paura, Piccola storia dell’architettura, Saggi sull’arte figurativa, La presenza del Cristo Eterico, ed altri 20 titoli. Inoltre vari saggi ed articoli su temi di attualità pensati nella loro specifica essenza.

BALDO LAMI, La missione disconosciuta degli angeli emotigeni

INDICE DEL SAGGIO:
La traccia e il sogno
Breve storia del lemma
La biga alata e l’inizio del dualismo
La scienza del cavallo nero
Le emozioni di Freud e Jung
Bion, Matte Blanco, Montefoschi e la riproposizione del sentire
Il dialogo con le figure oniriche
Il daimon o l’angelo caduto
L’angelo ferito e gli avversari della missione angelica
L’emozione come transfert gemellare angelo-daimon
Un caso di propagazione angelica
Il destino delle emozioni e dell’uomo

Baldo Lami, psicologo e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e psicosomatica, poeta e autore della raccolta di versi Le ali rotonde (1990), fonda a Milano l’Associazione Culturale di Promozione Sociale “Fare Anima” (1992), per la promozione di una cultura simbolica e della psiche, realizzando con Maria Luisa Mastrantoni diversi seminari didattico-esperienziali sui grandi temi della vita. Suoi articoli su L’Immaginale e riviste online. Suoi libri Il sogno della donna di pietra. Percorsi di psicoanalisi contemplativa (1997), Psicopatia e pensiero del cuore. Analisi di un concetto chiave di comprensione del nostro tempo (2006). Baldo Lami è anche il curatore dell’opera. E’ presente su Facebook.

MASSIMO MARASCO, Angeli e custodi

Massimo Marasco è nato a La Spezia nel 1955. Si è laureato in Chimica a Pisa e dal 1980 vive a Milano, dove lavora come specialista informatico. Dal 1995 ha intrapreso un percorso psicoanalitico con Silvia Montefoschi, che dura tutt’ora. Nel 2002 ha pubblicato il breve saggio Oltre il sado-masochismo e nel 2003 ha pubblicato il romanzo L’annuncio. Il mito del popolo nuovo. Con Silvia Montefoschi ha collaborato alla stesura di alcuni saggi tra cui, ultimo in ordine di tempo, Oltre l’omega nel 2006.

PAOLA MARZOLI, L’angelo dell’Annunciazione

INDICE DEL SAGGIO:
Premessa
Approssimazione
Evento
L’annuncio a Maria
Postfazione
Coscienza individuale

Paola Marzoli, psicoanalista dal 1983, di formazione junghiana montefoschiana. Collabora dai primi anni ‘90 con il CEPEI (Centro di Psicologia Evolutiva Intersoggettiva). Insieme agli altri soci del CEPEI ha tenuto seminari di formazione e ha pubblicato come coautrice nel 2008 Dialoghi con il sogno. Incontri diurni e notturni con l’inconscio. Pittrice, dal 1975 ha tenuto mostre personali in Italia e all’estero.

MARIA LUISA MASTRANTONI, Michele e Lucifero. Cosa avranno ancora quei due da dirsi?

Maria Luisa Mastrantoni fonda a Milano nel 1999 la casa editrice Zephyro Edizioni. In precedenza ha pubblicato nel 1997 come coautrice il saggio Il sogno della donna di pietra e nel 1998 il racconto psicologico Ciao ciao Dolly. Storia di un clone in crisi di identità. Dal 1992 a oggi collabora con Baldo Lami ai seminari di “Fare Anima” a Milano e a Brescia.

FRANCESCO PAZIENZA, Angeli dell’Europa

INDICE DEL SAGGIO:
Introibo ad altare Dei!
Avvicinamento
E soprattutto, perché leggo Rudolf Steiner?
Considerazioni in margine alla conferenza di Rudolf Steiner “Che cosa fa l’angelo nel nostro corpo astrale?”
Passeggiata notturna nella selva oscura della mia libreria
Angelus novus
Angeli orrifici
L’angelo necessario

Francesco Pazienza, psicanalista a Milano dal 1980 (personale freudiana in età giovanile e didattica lacaniana), fin dai primi anni ‘80 compie una ricerca personale che lo conduce a incontrare e praticare lo yoga e la meditazione buddhista sotto la guida di Corrado Pensa. Approfondisce la sua formazione integrando attraverso Hillman elementi di psicologia del profondo di indirizzo junghiano (Circolo della via Podgora a Milano). Nei primi anni ‘90 incontra l’Antroposofia, l’opera di Rudolf Steiner, collabora con medici e terapeuti antroposofici e insegna un settennio nel liceo “R. Steiner” di Milano (cattedra di religione). Insegna Biografia umana nei seminari pedagogici steineriani di Milano e Sagrado. È membro del SABOF (Società per l’Analisi Biografica a Orientamento Filosofico). Redattore del blog www.nellacurvadeltempo.it. E’ presente su Facebook.

BIANCA PIETRINI e FABRIZIO RAGGI, Lucifero dinamica divina

INDICE DEL SAGGIO:
Lucifero: l’angelo messaggero di Dio
Lucifero: la dinamica evolutiva di Dio
L’attuazione dell’opera di Lucifero quale messaggero della dinamica divina

Bianca Pietrini da sempre segue il percorso che l’essere fa di sé e, unitamente a Silvia Montefoschi, lavora alla realizzazione completa dell’Uno come unico vivente. Nel 2003 collabora con Fabrizio Raggi alla lettura psicoanalitica de Il Mnemonista. Nel 2009 autrice con Silvia Montefoschi e Fabrizio Raggi del volume Il manifestarsi dell’essere in Silvia Montefoschi. Vive e lavora a La Spezia.
Fabrizio Raggi, medico e psichiatra, da sempre segue il percorso che l’essere fa di sé e, unitamente a Silvia Montefoschi, lavora alla realizzazione completa dell’Uno come unico vivente. Nel 2003 collabora con Bianca Pietrini alla lettura psicoanalitica de Il Mnemonista. Nel 2008 pubblica Al di là del bene e del male: la logica unitaria. Nel 2009 autore con Silvia Montefoschi e Bianca Pietrini del volume Il manifestarsi dell’essere in Silvia Montefoschi. Vive e lavora a La Spezia.

MASSIMO PITTELLA, Distanze che disegnano orizzonti

Massimo Pittella è nato a Milano, dove lavora come consulente nelle tecnologie della comunicazione in rete. Dopo il coinvolgimento in progetti sperimentali di intelligenza artificiale e la pubblicazione di testi matematici, ha ricoperto ruoli di spicco in note multinazionali del software. Oltre che in scienze dell’informazione, ha seguito studi di psicologia e di filosofia, esplorando successivamente l’ambito delle scienze di frontiera. Conduce da anni una sua personale ricerca sugli incroci tra scienza, pratiche filosofiche e tradizioni sapienziali. E’ presente in Facebook.

CLAUDIA REGHENZI, La sincronicità come manifestazione angelica dell’unità di senso interno-esterno

Claudia Reghenzi, laureata in Scienze politiche, dirige la sua passione alla scrittura e all’introspezione. Nel 2006 pubblica il suo primo romanzo Il ponte su due mondi e nel 2009 Giallo all’ombra del vescovado con il quale vince il terzo premio “Autrice dell’estate 2009”. Collabora con le associazioni culturali “Fare anima” di Milano e “Quintoquadrante” di Brescia.

STEFANIA VALANZANO, Quale angelo sulla scena della violenza alle donne?

INDICE DEL SAGGIO:
La violenza dell’altro
Violenza contro le donne e ambiguità
Il fattore transgenerazionale nel fenomeno della violenza contro le donne
L’angelus novus e il disvelamento sulla scena della violenza verso le donne

Stefania Valanzano, psicologa psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico, vive a La Spezia dove svolge attività clinica con adolescenti e adulti. Si interessa da diversi anni di bioetica e dell’impatto delle tecniche di riproduzione assistita sul corpo femminile. Attualmente si occupa in modo particolare degli aspetti traumatici della violenza verso le donne e del ruolo giocato dal fattore transgenerazionale nelle patologie sociali.

GRUPPO LETTURA FILM, L’angelo nel cinema

INDICE DEL SAGGIO:
Premessa
La vita è meravigliosa (Frank Capra, USA 1946)
La moglie del vescovo (Henry Koster, USA 1947)
Appuntamento con un angelo (Tom McLoughlin, USA 1987) 
Il cielo sopra Berlino (Wim Wenders, Germania 1987)
Così lontano così vicino (Wim Wenders, Germania 1993) 
The Prophecy I, II, III (USA, 1995-2000) 
Michael (Nora Ephron, USA 1996)
City of Angels – La città degli Angeli (Brad Silberling, USA 1998) 
Angels in America (Mike Nicholson, USA 2003) 
Angel-A (Luc Besson, Francia 2005)

Il Gruppo lettura film è composto da Marilena Dusi, Maria Dolores Moroldo, Claudia Reghenzi, Eliana Vallini, Elena Buzzetti e Gianfranco Bellini.

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Angelicamente

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CAMMINARSI DENTRO (145): I miei rapporti con la scrittura.

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Ho sentito spesso gli scrittori parlare del foglio bianco e dei sentimenti che genererebbe quando si voglia scrivere e non ci si riesca, ma non ho mai compreso di cosa si trattasse. Perché mettersi a scrivere, se non si ha nulla da dire? Non è forse il processo creativo essenzialmente il momento del parto, quando la lunga gestazione di immagini, ricordi, frammenti di senso chiedono di essere composti in una unità superiore? Non è forse quell’urgenza di scrivere che spinge a scrivere, non importa cosa: Il Paradiso perduto o una piccola pagina di diario? 
Quando penso alla mia Moleskine, alle pagine lisce perché su di esse non si è posata ancora la mia mano, a tutte le pagine che restano fino alla fine di questo anno; e se penso, ancora, alla Moleskine del prossimo anno, che è già in vendita, non posso fare a meno di provare un moto di gioia, per la possibilità sempre aperta che mi si offre, in ogni momento della giornata, di dare finalmente forma al magma sottostante che si sia fatto pensiero.

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CAMMINARSI DENTRO (145): I miei rapporti con la scrittura.

CAMMINARSI DENTRO (144): Non hanno difeso i loro figli.

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Le madri di una volta, che subivano tutte le angherie possibili in casa senza ribellarsi mai, non hanno difeso i loro figli dal male. Non sono intervenute a dirimere le controversie che insorgevano tra i figli né tra i padri e i figli. Ancor meno hanno agito quando zii e nonni interferivano nella vita familiare. La famiglia non aveva la moralità di oggi. I diritti dei piccoli che crescono sono messi al riparo da ogni pesantezza degli adulti e da ogni ingerenza esterna.

Quando il tempo me lo consentirà, racconterò una storia esemplare che da sola chiarirà il senso drammatico di quanto vado dicendo, relativamente alla vita della mia famiglia di origine. I morti non parlano. Ad essi è dovuto rispetto. Il silenzio è sempre stato considerato la forma alta di moralità, specialmente sotto le mie latitudini familiari, quando si trattava di preservare la dignità di qualcuno. Ma la dignità di un fratello può crescere a scapito della dignità di tutti gli altri o anche di uno solo? E’ accettabile il fatto che una madre non parli, che assista impotente ai litigi infiniti, ai soprusi, alle connivenze nascoste, alle perfidie di una sua sorella che divide i suoi figli, senza alzare la voce per ristabilire la giustizia e la verità? Non è mai possibile venire a capo di nulla? Ci moviamo sempre nella pappa indistinta delle cose su cui recriminare all’infinito, senza che si giunga mai a nulla di chiaro? La famiglia di origine, allora, è la realtà da cui bisogna fuggire? da cui è necessario difendersi? Al silenzio dei secoli sulle piccole violenze e sui silenzi interessati e sulle meschine complicità bisognerà aggiungere altri secoli di silenzio e lasciar passare i torti che lasciano ferite profonde e il dubbio che la tristezza del pensiero non abbia mai anche un’origine nelle proprie radici?

La mia esperienza di Educatore nel campo delle tossicodipendenze mi fa assistere da oltre venti anni allo spettacolo di una famiglia nella quale non prevale la chiarezza. Il lavoro di anni e anni con alcune famiglie, per indurle a camminare assieme al ragazzo che abbia avviato processi riparativi e ricostruttivi del proprio paesaggio affettivo, non sortisce gli effetti desiderati. Gli schemi duri a morire sono quelli che si scontrano con il nocciolo duro dell’amor proprio ferito di mogli che non riescono ad essere madri fino in fondo, cioè a rispettare il padre dei loro figli: la macchia di origine – sempre l’assenza dei padri e la loro tendenza a ‘delegare’ l’educazione dei figli – non viene mai riletta ed interpretata alla luce delle responsabilità comuni, della necessità di camminare insieme, come padre e madre, nel rispetto dei rispettivi ruoli. I padri se ne sono andati e basta. Tutto è chiaro. L’origine dei mali, se non la colpa, è stata trovata. Circola poi con insistenza la formuletta che questa è una società senza padri, quindi tutto si spiega facendo risalire a uno solo l’origine del disagio e della sofferenza dei figli. Che padre e madre non siano mai d’accordo sull’educazione da impartire ai figli è un dettaglio secondario su cui non serve fermarsi! Le madri sono depositarie della vita, della verità, del bene.

Eppure, né la vita né la verità né il bene sembrano prevalere quando per anni, poi, il potere delle madri si accampa sulla scena e i destini del figlio che si è perso sono affrontati e risolti da altri e non da loro. Sfugge il particolare che sono altri a prendere in mano la vita di quel figlio. Se fossero capaci da sole di salvarlo, non lo affiderebbero ad altri!

E’ stato scritto che le madri non sbagliano mai. Quando i figli sono piccoli sarà anche vero, ma quando incominciano a parlare l’accesso al simbolico è garantito solo dal padre. E’ allora che le madri dovrebbero tacere e lasciar sentire al figlio che cresce – soprattutto ai maschi – la voce del padre. Dovrebbero difendere presso i figli quella autorità. Dovrebbero contribuire ai processi tortuosi che favoriscono l’introiezione della figura paterna, la sua legge… In assenza dei padri, dovrebbero svolgere forse quella funzione, almeno relativamente alle cose della vita e della morte, dell’amicizia e dell’amore, della giustizia e della verità. Ma questo significa parlare. Questo non è tacere, assistendo impotenti alla deriva personale di chi attende risposte e protezione.

21 luglio 2010

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CAMMINARSI DENTRO (144): Non hanno difeso i loro figli.

Bricoleuse

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LUISA CARRADA, Bricoleuse, 6 luglio 2010


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Bricoleuse

CAMMINARSI DENTRO (143): Contro la scrittura nessuno può nulla.

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Il sapere è un labirinto

Considero singolare la circostanza data dal fatto di scrivere qui: un privilegio a costo zero. Non debbo sottoporre nessun manoscritto al parere di Editori, Editor… Non seguo nemmeno le regole del web, per quanto riguarda la scrittura che bisognerebbe ‘produrre’ in questo ambiente orientato alla comunicazione. Scrivo e basta. E scrivo per dire la verità. Non la Verità dei filosofi né quella a cui si approda al termine di lunghe e complesse ricerche ‘storiografiche’ o ‘giudiziarie’. Scrivo per far emergere le mie verità, le mille verità che il tempo ha provveduto a sedimentare in me e che riemergono nella forma dei ricordi o di idee lungamente pensate. Scriverne anche lungamente, senza regole stilistiche né preoccupazioni comunicative, mi dà piacere, perché, dopo avere scritto tanto – lo faccio da oltre tre anni, ormai – avverto confusamente che non seguo un ordine qualsiasi: obbedisco soltanto all’urgenza della scrittura, cioè al fatto che ‘preme’ dentro un’idea lungamente pensata negli anni. Magari, si tratta di una parola carica di significato per me, come il rimprovero del post precedente. Allora, lascio sanguinare la ‘ferita’, cercando contemporaneamente le parole nei crepacci, infilandole come perle l’una nell’altra, fino a farne emergere un disegno compiuto. Dire compiutamente è chiarezza. Riuscire a dire tutto quello che posso dire è portare a termine un compito. Da quando ho iniziato a farlo, trovo nell’esercizio della scrittura una remunerazione che sa di rivincita, come una risposta a tutte le derive del tempo: alla putredine e alla violenza rispondo con la ricostruzione di una zona della mia esperienza che aspettava di essere portata alla luce. Tutto questo non può essere intaccato minimamente dalla violenza del potere. Contro la scrittura nessuno può nulla.


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CAMMINARSI DENTRO (143): Contro la scrittura nessuno può nulla.

CAMMINARSI DENTRO (142): Ascolta il tuo cuore, città! – L’arte del giusto rimprovero

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Il sapere è un labirinto

Ho sempre temuto i rimproveri di mio padre. Addirittura, il giorno della sua morte ho provato una sorta di sollievo: non avevo più paura di lui. Ho riflettuto su questa mia ‘condizione’: fragilità mia, rimproveri eccessivi? Non so bene ora cosa prevalesse nell’educazione severa di un tempo: ogni più piccolo errore era stigmatizzato e punito, talora anche aspramente. Senza nulla togliere all’autorità di mio padre che non ho mai smesso di amare, la sua voce tonante mi raggiungeva ogni volta scuotendomi dentro: si abbatteva su di me portando sconquasso e sconcerto. Mi sembrava tuono a ciel sereno, ingiustificato rilievo, sottolineatura eccessiva. Tutto era imperfetto, incompleto, incompiuto nelle nostre cose. E come poteva essere diversamente! Eravamo incompleti, imperfetti, senza identità. Ho impiegato gli anni della scuola media e poi del liceo e quelli dell’Università per trovare uno straccio di equilibrio personale. Ma quale equilibrio mai potevo esibire di fronte a me stesso, se risonava sempre la sua voce dentro di me, a ricordarmi i compiti che mi aspettavano, rispetto ai quali ero e sono ancora sempre in ritardo? Ma chi non rimanda mai a domani quello che dovrebbe fare oggi? A che cosa giovò rimproverarmi ad ogni piè sospinto, facendo di me, già timido dalla nascita – ferocemente timido -, una persona insicura e timorosa, tanto che poi scrissi a lettere di fuoco le parole del filosofo Hobbes: Il sentimento fondamentale della mia vita è stato la paura? Quando scrissi il testo che segue era il 1994. Mio padre era già morto. Inserii il motivo dei rimproveri tra le ’cause’ della tossicomania, perché convinto che i percorsi del riconoscimento – spesso tortuosi e incompiuti, quando non del tutto assenti – influiscono sui destini personali più della biologia e della genetica.

Dietro il vizio e la spinta al consumo; oltre la contiguità e la curiosità; indipendentemente da ogni analisi sociologica e statistica, la tossicodipendenza è la sola risposta alla sofferenza della persona di cui sia capace chi non è riuscito a trovare altre soluzioni ai problemi della propria esistenza.

Nessuno arriva ad infilarsi un ago in vena da un giorno all’altro. Dietro quel primo buco c’è un corteo di frustrazioni, di sconfitte, di silenzi, di esclusioni, di rimproveri, di fraintendimenti, di paure, di incomprensioni, di perdite, di vane attese, di desideri impossibili, di bisogni insoddisfatti, di astratti furori.

La tossicodipendenza non è una malattia del corpo. Si tratta di decidere qui dove andare a cercarla.

Se concepiamo l’uomo come una realtà duplice – corpo e anima -, la cercheremo nell’anima, dal momento che il corpo guarisce dal male che contraddistingue la tossicodipendenza, ma la persona continuerà a patire nella mente, nel cuore e nello spirito; nei pensieri, nei sentimenti, nelle emozioni.

Se concepiamo l’uomo come una realtà indivisibile, cercheremo la tossicodipendenza nella vita della persona, nel progetto esistenziale della persona, nella persona.

Studieremo le sue relazioni sociali, le sue relazioni familiari, le sue relazioni di gruppo, le sue relazioni ‘coniugali’: non isoleremo l’individuo dal suo mondo; lo assumeremo come cittadino e come persona, come parte dei sistemi in cui è immerso, ma soprattutto come singolo, cioè come una realtà spirituale dotata di coscienza morale.

(Ascolta il tuo cuore, città! – Venti Tesi: per non morire di droga, 1994)

Vizio, consumo, contiguità, curiosità… Oltre tutte le spiegazioni classiche del fenomeno della dipendenza da sostanze, abbiamo individuato in un corteo di mancanze e privazioni altre ’cause’ del disturbo. Di esse ci preme tematizzare oggi il rimprovero come stile della comunicazione.

Anche recentemente abbiamo assistito all’ennesimo episodio tragico tra i ragazzi: dopo un rimprovero, un dodicenne si è buttato dal balcone di casa sua ed è morto. Noi diremo: dopo un rimprovero, non a causa di esso. C’è sempre da indagare sulle cause che inducono una persona a scegliere di farsi del male. La Corte di Cassazione ha sancito che i rimproveri ripetuti sono mobbing. La stessa Corte ha stabilito che un Preside non può rimproverare un insegnante di fronte alla sua classe. Perfino nell’educazione dei cani al rimprovero consegue il perdono! Insomma, non si può rimproverare nessuno a cuore leggero, senza immaginare che sia senza conseguenze. Il giusto rimprovero è quello che si richiede per poter parlare di uno stile educativo adeguato alla persona che ci è stata affidata. Una ricerca scientifica attesta gli effetti che i rimproveri hanno su chi li fa: sembra che facciano sentir bene chi li fa. Se gli adulti Educatori avessero coscienza di quello che accade in loro come di quello che accade nei ragazzi quando siano oggetto di rimproveri, le conseguenze di questi sarebbero forse meno dirompenti.


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CAMMINARSI DENTRO (142): Ascolta il tuo cuore, città! – L’arte del giusto rimprovero

VERSO LA TERRA INCOGNITA (8): L’Aperto

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Tutte le volte che osservo i tentativi di ripristino di una comunicazione interrotta, mi ritrovo a pensare a ciò con cui sempre bisogna fare i conti: l’invisibilità dell’esperienza e il modo proprio di ritrarsi dell’anima, quando cade sotto lo sguardo dell’altro. Quanta incomprensione è destinata a produrre la realtà delle cose agli occhi di chi non riesce a vedere (e a dire chi e cosa)?

LE COSE NASCOSTE DALLA FONDAZIONE DEL MONDO

E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo. – PAUL VALÉRY, Cattivi pensieri

E’ proprio a partire da fraintendimenti e incomprensioni che ci ritroviamo quotidianamente impegnati a inseguire, chiarire, domandare, tradurre… Quante professioni poggiano su “ciò che non c’è”!

Nel Centro di ascolto mi ritrovo sempre interdetto a pensare come sia difficile per gli adulti comunicare efficacemente con i propri figli, perfino quando questi abbiano ritrovato la strada di casa. I lunghi silenzi e le assenze prolungate, le mancate risposte, la difficoltà di esprimere quello che si prova… Tutto concorre a generare perplessità e quell’ostinato domandare che non trova sempre risposta. Io dico spesso: non bisogna fare domande; piuttosto, si tratta di aprirsi, parlando di sé e delle proprie emozioni, dando voce all’io adulto che cerca l’io adulto del figlio. Sembra che l’unica cosa che si possa fare è chiedere. Si trascura il fatto che l’altro ha bisogno di una ‘sponda’ a cui appoggiarsi per consistere nella conversazione, se non sia stata ricostruita ancora una relazione stabile e destinata a durare. In quanto abitatori del tempo, dobbiamo fare i conti con il tempo della relazione che è fatto di aperture e di chiusure, di silenzi e di discorsi, di momenti in cui il colloquio scorre felice e di momenti in cui sembra di essere estranei e ostili, che il mondo sia estraneo e ostile. Non c’è nessuna porta da aprire. Nessun silenzio da spezzare. Abitare la distanza è il compito di sempre. E’ addirittura una sorta di moralità: una regola che riconosciamo nelle cose perché è propria del mondo della vita. I tempi della nostra coscienza dovranno incontrarsi con i tempi della coscienza dell’altro. L’altro si aprirà se noi ci apriremo. Davanti a noi c’è una porta aperta: non dobbiamo fare altro che attraversarla.

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Le basi dell’educabilità di un Educatore (in Exodus) sono tre: muovere verso se stessiverso gli altriverso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA (8): L’Aperto

CAMMINARSI DENTRO (141): Dov’è mio figlio? Perché non mi parlate di lui?

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E’ forse anch’esso drammatico il resoconto di un momento drammatico come la scoperta da parte di una madre di una condizione drammatica in cui ci si ritrova se il proprio figlio è in carcere e si parla della Comunità, della collaborazione che questa dovrebbe instaurare con la famiglia, come se di questo ‘ora’ si trattasse: quella madre si lamenta del trattamento che la Comunità riserva a lei, come a tutti gli altri genitori, che non sono cercati, interpellati, aiutati a capire, tutte le volte che il figlio si ritrovi ad attraversare momenti difficili. E’ apparso senz’altro doloroso a tutti quelli che hanno capito constatare la sfasatura esistente tra la realtà dei fatti e l’oggetto della recriminazione e del lamento.

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IMPARARE A LEGGERE (9): Le cose dell’amore

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IMPARARE A LEGGERE (9): Le cose dell’amore