RepubblicaDomani: Libia, l’Italia ha perso il ruolo diplomatico

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Come nasce il giornale – Repubblica.it Lunedì 21 marzo 2011 – Libia, l’Italia ha perso il ruolo diplomatico

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Chernobyl, la triste fine dei “liquidatori”

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Mentre 50 kamikaze sacrificano la loro vita a Fukushima, il pensiero va agli eroi che fecero altrettanto a Chernobyl.

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MASSIMO GRAMELLINI, vice-direttore de LA STAMPA, racconta l’esempio di un cinquantanovenne giapponese che ha sacrificato la vita nella centrale in cui ha lavorato.

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20 marzo 2011

RAI TRE Che tempo che fa del 19 marzo – MASSIMO GRAMELLINI, alla fine del suo intervento, parla di Futoshi Toba, un cinquantanovenne giapponese che si sacrifica nella centrale in pericolo.

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RepubblicaDomani: Se il grande comunicatore non è in sintonia con il Paese

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Come nasce il giornale – Repubblica.it Venerdì 18 marzo 2011 – Se il grande comunicatore non è in sintonia con il Paese

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RepubblicaDomani: Perché il Premier telefona a Repubblica

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Come nasce il giornale – Repubblica.it Mercoledì, 16 marzo 2011 – Perché il Premier telefona a Repubblica

La chiamata di Berlusconi dopo le ultime rivelazioni sul caso Ruby. Gli occhi del mondo su Fukushima. E poi, il mercato dell’auto che riparte, ma Fiat resta al palo. Scoprite il giornale che troverete in edicola di GIANLUCA LUZI

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Riforma della giustizia: il Governo approva il disegno di legge costituzionale

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Fonte: sito del Governo

Presentazione

I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri e la legge assicura la separazione delle loro carriere. Questo uno dei punti cardine del disegno di legge costituzionale di riforma della giustizia approvato dal Consiglio dei ministri del 10 marzo 2011. Vengono istituiti due distinti Consigli superiori della magistratura, giudicante e requirente, con funzioni tassativamente indicate.

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I precursori di droghe

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Con il termine “precursori di droghe” si intendono alcune sostanze chimiche normalmente utilizzate in numerosi processi industriali e farmaceutici e commercializzate in modo del tutto lecito anche in quantitativi rilevanti, ma che possono avere una funzione cruciale nella produzione, fabbricazione e preparazione illecita di droghe d’’abuso, sia di origine naturale che di sintesi o di semisintesi. Per questo è opportuno riconoscere e proteggere il commercio lecito di tali sostanze e prevenirne la diversione a fini illeciti. L’’obiettivo è trovare un equilibrio fra le azioni volte a impedire la produzione di droghe illegali e quelle volte ad evitare gli ostacoli al commercio legittimo dei prodotti chimici. Un controllo efficace dei prodotti chimici usati per la fabbricazione illecita di stupefacenti e sostanze psicotrope costituisce un importante strumento per lottare contro il traffico di stupefacenti. D’’ora in poi i precursori di droga saranno soggetti ad autorizzazioni e controlli, al di fuori dei quali produzione, commercio e detenzione diventano illegali. La lista delle sostanze – utilizzate dai narcotrafficanti per la produzione di droghe – è stata predisposta dall’’Unione europea- ed è ora contenuta nel decreto legislativo approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 10 marzo 2011, dopo aver acquisito i pareri favorevoli delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il decreto legislativo dà attuazione alla delega conferita al Governo per il riordino, l’’attuazione e l’’adeguamento alla normativa europea del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Gli operatori che intendono immettere sul mercato tali sostanze devono nominare un responsabile della commercializzazione le cui generalità devono essere notificate al Ministero della salute, e munirsi di una licenza di validità triennale rilasciata dallo stesso Ministero.

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NOTE SENZA TESTO (1): Le mie Rubriche

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Domenica, 13 marzo 2011

Da settembre 2007, cioè da quando ho iniziato a curare questo spazio personale, mi sono ‘ritagliato’ all’interno uno spazio ancor più personale con la rubrica Camminarsi dentro, a cui si accede dalla Pagina e dalla Categoria omonime.

Se una Categoria ha il pregio di fare da filtro tra tanti post, scorrere all’indietro una lista di centinaia di post può essere faticoso e noioso.

Ci viene incontro un altro strumento – la Pagina (testi fissi, che sono cosa diversa dal post, che può avere anche una cadenza giornaliera) – offerto da un ambiente come quello di WordPress che contempla la possibilità di tenere in uno dei due frame (il frame coincide fisicamente con le colonne, nel mio caso, ma può essere dato da una testata che non contenga il solo titolo del sito e da altri riquadri ancora) – se abbiamo scelto un modello di pagina a tre frame, come ho fatto io -, specializzando ciascun frame, cioè mettendolo al servizio di precise funzioni. Ad esempio, io ho scelto di tenere in evidenza nel frame di sinistra le Categorie e le Pagine, che ho chiamato Testi esemplari e Pagine personali.

Dopo Camminarsi dentro, ho deciso di curare Sotto il segno di Epimeteo (Pagina e Categoria), che corrisponde al sito, ormai chiuso, che dedicavo al Centro di ascolto in cui lavoro da ventidue anni. Sul sito della Fondazione Exodus, di cui sono Educatore, compare uno spazio significativo che è stato riservato a Libera Mente, a cui c’è da aggiungere solo qualche link ogni tanto, a completamento di quanto già si dice del Centro di ascolto. Sotto il segno di Epimeteo è un contributo a una scuola dello sguardo, come a me piace chiamare l’ascolto, lo sviluppo delle nostre capacità di ascolto.

In momenti diversi, e con un ordine che non starò ora a rispettare, sono venuti
Imparare a leggere (Pagina e Categoria),
Imparare a morire (Pagina e Categoria),
Appunti e Idee (Pagina e Categoria),
I miei Maestri (Pagina e Categoria),
I nomi (Pagina e Categoria),
L’intelligenza emotiva (Pagina e Categoria),
Muovere verso l’altro. Verso la terra incognita (Pagina e Categoria),
Spostare le tende (Pagina e Categoria),
Momenti d’essere (Pagina e Categoria),
La grana della voce (Pagina e Categoria).

Camminarsi dentro, Muovere verso l’altro e Spostare le tende corrispondono al cuore della filosofia di Exodus, cioè alle condizioni dell’educabilità che sono, appunto, tre. Sotto la prima Rubrica raccolgo la libera riflessione su di me, sotto la seconda il movimento verso gli altri, sotto la terza il movimento verso il mondo. Dall’educabilità dell’Educatore dipende la possibilità stessa di educare gli altri.

Imparare a leggere e Imparare a morire, assieme a Imparare a vivere e Imparare a dialogare sono i primi Esercizi spirituali che ho messo a fuoco in questi anni, per rendere conto adeguatamente di ciò che intendo per cura di sé.

A differenza di Camminarsi dentro, a cui ricorro per esprimermi in modo spontaneo e senza censure, Momenti d’essere è uno spazio di scrittura più ‘costruito’, frutto di rielaborazione ulteriore, oltre alla risposta immediata a una suggestione o a un frammento di senso che si mostri all’improvviso.

La grana della voce raccoglierà brevi registrazioni significative in cui più chiaramente si riassumeranno posizioni ideali, sintesi di interi sistemi di pensiero, frammenti a cui sarà stato dato valore emblematico, perché rappresentativi da soli di temi e questioni cruciali.

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CAMMINARSI DENTRO (183) – Prendersi cura di sé (3): Imparare a dialogare

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Sabato, 12 marzo 2011

La vita delle nostre relazioni è fatta di abitudini consolidate, di caldi stereotipi, di confortevoli pregiudizi, dell’inveterata tendenza ad illudersi: tali sono i silenzi studiati, le mancate risposte, gli accordi con quelli che ci fa più comodo avere dalla nostra parte, il “fatto compiuto”, la verità usata come clava per anni. Più spesso interviene la nostra Ombra a decidere per noi: allora, è ostilità, sospetto, recriminazione, magari fatti passare come ‘perplessità’. Basta usare parole che attenuano e sfumano la realtà, per farla apparire meno cruda. In sostanza, non siamo disposti a comunicare veramente.

A sentire i vissuti dei ragazzi che cercano di uscire dalla tossicomania, sembra che anche loro finiscono per avvertire l’inconsistenza di relazioni in cui prevale il non detto delle emozioni, della sessualità, della droga intesa come alterazione degli stati di coscienza. Se escludiamo quest’ultimo aspetto della loro esperienza, quando si parla di gestione delle emozioni, cadono dalle nuvole: non sanno affrontare nessuna delle situazioni più comuni in cui si ritrovano a vivere. Avvertono oscuramente che bisogna agire diversamente, ma non sanno cos’altro si possa fare, al di là della negazione dei problemi o dell’affrontamento con ostinazione e astratta determinazione. Avanzano sicuri di sé, ma non sanno dire dove stiano andando e perché. Tutto orizzontale. Descrivono la realtà. Raramente mostrano di comprendere il punto di vista degli altri, di tutti gli altri.

Dell’altro che è in noi che ne sarà, se non impariamo a fare i conti con quelle parti di noi che se ne vanno per conto loro e che ci trascinano nei più pericolosi vicoli ciechi?

L’ingorgo sentimentale, l’accumulo dei problemi irrisolti richiedono strategie di igiene mentale vera e propria. Non c’è cosa della nostra vita che non sia pensata e catalogata dalla mente, se siamo almeno un po’ riflessivi. Se agiamo d’impulso, nondimeno scattano in noi quegli automatismi mentali che si basano sull’esperienza passata e che ci portano a dire che si fa così e così. Insomma, siamo responsabili delle nostre emozioni. Esse non sono disgiunte dai nostri pensieri. E’ importante sapere che se ci prendiamo cura di essi, riusciremo a fare qualcosa anche di esse, cioè a regolare la nostra vita sentimentale, senza procedere a casaccio, improvvisando sempre.

Se ci mettiamo a seguire con la coscienza i passi che compiamo giorno per giorno, finiamo per scoprire i trucchi a cui ricorre la ragione per giustificare ogni scelta avventata: basta assecondare tacitamente ogni inclinazione che conduca a qualche piacere o a confermare scelte ‘comode’, che ci aggradano di più, e il gioco è fatto. Sembra quasi che le cose abbiano agito per noi. E’ andata così! Come se noi fossimo assenti!

Se, invece, prendiamo a dialogare con noi stessi, a interrogarci di continuo su quello che stiamo per fare; se cerchiamo le vere ragioni che spingono gli altri ad agire in un certo modo, forse usciremo dalla vita irriflessa, spontanea, immediata, tutta schiacciata sul presente che costituisce una delle forme più sicure di vita inautentica.

E’ interessante fermarsi a riflettere sulle forme di esistenza mancata che contraddistinguono tratti della schizofrenia, secondo Binswanger. Egli definì la malattia una forma di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza. E rivelò come la sua scienza non fosse lontana dalla vita di tutti i giorni:

«L’antropoanalisi prende come punto di partenza il linguaggio comune e si lascia guidare da esso perché, come dice Goethe, il linguaggio comune ha già articolato, esplicitato, enunciato “dal paradiso terrestre fino ad oggi”, in “mille modi di linguaggio e di discorso” ciò che noi siamo e ciò in mezzo a cui viviamo, con tanta profondità che i suoi “progetti di mondo” costituiscono la nostra dimora spirituale, la nostra patria, la nostra “aria nativa”, senza di cui i nostri passi non poserebbero più su nessun terreno, il nostro respiro perderebbe il suo elemento vitale».

Anche per noi la follia d’amore, ad esempio, costituisce un rischio a portata di mano. Molti dei nostri ragazzi – i tossicomani – sono morti in seguito al fallimento delle loro esperienze amorose. Se ci mettessimo ad analizzare una per una tutte le modalità dell’esistenza, scopriremmo facilmente per ognuna il rischio imminente, la possibilità dell’errore ad ogni passo. Siamo liberi. Se la persona è ‘in equilibrio’.

Quello che ci si para davanti ad ogni piè sospinto è la possibilità del dialogo, con noi stessi e con gli altri. Tutto ciò che precede è solo un tentativo di descrivere il disordine e la confusione a cui ci votiamo per la nostra rinuncia al dialogo.

Innanzitutto, si richiede apertura. Ma questa parola non è proprio così chiara come sembrerebbe. Per me, si tratta di aprirsi a nuove evidenze, al nuovo che è rappresentato dall’insorgere in noi di un’emozione nuova, di un significato nuovo, in seguito al continuo rinnovarsi della nostra esperienza, cioè della vita dell’invisibile in noi. Lo stesso si dirà della realtà degli altri. Essi sono sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Anche quando si tratti di persone a noi note da sempre. Non sappiamo cosa ci diranno tra un po’. Se noi ci collochiamo nella giusta prospettiva, se mostriamo di essere disposti a dare credito alle loro parole, gli altri a loro volta si apriranno. Si rivolgeranno a noi con interesse e fiducia. Penseranno di noi che siamo interlocutori e non semplici destinatari o competitori e basta, non importa in quale campo dell’esperienza.

Bisogna essere disposti poi a essere messi in gioco quanto al modo in cui conduciamo la nostra vita presente e a quello in cui abbiamo condotto la nostra vita passata.

Bisogna essere disposti a concedere all’altro l’arma della confutazione delle nostre opinioni. E dobbiamo decidere che le nostre sono solo opinioni, anche sulle questioni che più ci stanno a cuore, perché sia possibile procedere assieme all’altro in una direzione che ci vedrà avanzare entrambi.

Bisogna essere disposti a ritrovarsi nel dubbio in cui ci metterà l’altro con le sue argomentazioni. Da lì, sicuramente si ripartirà insieme per procedere verso la verità.

Bisogna essere disposti a partorire insieme una verità che si accampi al di sopra dei casi particolari e delle esperienze personali, una verità che sia valida per tutti.

Il metodo e la meta di questo procedere non è l’esito di una lezione da cui apprendere qualche verità, ma il prendersi cura di sé, perché si crei anche al nostro interno la situazione dialogica. Dobbiamo, ad esempio, combattere con la nostra Ombra… C’è qualcun altro dentro di noi con cui quotidianamente dobbiamo fare i conti. Come tratteremo le nostre facoltà superiori anarchicamente protese a decidere per noi?

Sicuramente, c’è da confessare a se stessi di non possedere stabilmente alcuna verità.

Nel dialogo ci interroghiamo su qualcosa di rilevante per la nostra vita, scoprendo la nostra ignoranza e cercando con l’altro una percorso di crescita. Perché non potremmo fare tutto ciò da soli? Perché solo chi è capace di un autentico incontro con gli altri è poi capace di incontrare se stesso nella verità.

Il dialogo va condotto in uno spirito di persuasione, inducendo l’anima di chi sta di fronte a mutare il proprio atteggiamento di fronte al problema. Ciò che conta dunque nel dialogo non è solo la dottrina comunicata, bensì il metodo, la modalità peculiare di portare avanti un discorso, alla ricerca di un accordo razionale che sia la base di una profonda adesione dell’anima a quanto affermato nel dialogo stesso.

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CAMMINARSI DENTRO (181): Avevo creduto nell’eloquenza del mio panierino.

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Venerdì, 11 marzo 2011

Più di cinquant’anni fa, quando frequentavo la Scuola elementare, attratto dai compagni di classe che restavano a pranzo a scuola, decisi che mi sarebbe piaciuto ritrovarmi a mensa con loro. Ne parlai a casa. Riuscii a convincere i miei genitori. Mi feci comprare una panierino di cartone tutto marrone e mi preparai al gran giorno. Ci feci mettere dentro da mia madre un solo mandarino e un tovagliolo e promisi di dire alla maestra di inserirmi nel numero dei bambini che quel giorno avrebbero mangiato a scuola.

Nel corridoio che separava le aule dalla mensa – che io non riuscii mai a vedere – c’era una lunga panca di legno con schienale su cui mi fermai ad aspettare il mio turno. Per via della mia feroce timidezza non dissi niente a nessuno. Ero convinto, però, che il panierino che avevo con me avrebbe dovuto funzionare da richiamo: mi aspettavo che una delle tante suore che passarono davanti a me si fermasse a chiedere cosa ci facessi lì, a ora di pranzo, e per di più con un panierino, come tutti gli altri bambini.

In verità, non si fermò nessuno. Passò l’ora del pranzo. Rientrammo in classe per le ore pomeridiane di scuola. Alla fine delle lezioni, uscii allegramente con la cartella e il panierino di cartone, ma con un certo appetito. Avevo mangiato solo un mandarino! I ricordi a questo punto si fanno incerti. Non so bene cosa dissi a mia madre. Sicuramente, accennai al fatto che nessuno mi aveva detto che potevo andare a mensa. Non so poi perché mia madre, che pure aveva provveduto con l’acquisto del panierino all’avvio della nuova esperienza per me, non intervenne a sciogliere il piccolo enigma del pranzo mancato. Conservo il sentore di un rimprovero, come se solo io avessi deciso di non andare fino in fondo.

Fatto sta che mi convinsi rapidamente dell’inutilità del mio tentativo: ci avevo provato, ma senza successo. A quei tempi ero convinto del fatto che quello che avevo nel cuore potesse bastare. Non comprendevo come mai nessuno avesse compreso le mie intenzioni. Eppure, il panierino era eloquente. Bastava farmi qualche domanda! Io non ero riuscito a parlare. Nessuno si era fermato ai miei timidi tentativi di essere ascoltato. Evidentemente, le cose andavano così. Forse mi convinsi del fatto che non ero adatto a quel genere di esperienza. Dovevo rassegnarmi a mangiare a casa. E fu così.

A distanza di qualche decennio, mi sono ritrovato a considerare quante volte nella vita di un bambino prima e di un ragazzo dopo pesi la convinzione che le cose basti averle dentro. Prima di riuscire a parlare, a far corrispondere le parole ai sentimenti, c’è voluto parecchio. Se oggi mi affanno a “dire tutto”, è forse a causa di quel primo panierino. Ce ne sono stati tanti ancora nella mia vita schiva.

Quante volte ci ritroviamo di fronte a persone che non parlano, non rispondono, non sanno dire! E come è faticoso riuscire ad immaginare cosa esse vogliano veramente! Se soltanto riuscissimo ad intuire quanto grande sia il loro desiderio di essere comprese, non ci sembrerebbe per niente strano se aspettano pazientemente, magari con un panierino in mano, che qualcuno si fermi a considerare che dopo tutto non è così difficile arrivare a comprendere le ragioni di un’attesa muta. Abbiamo sotto gli occhi i segni chiari di quella presenza e di cosa essa aspiri a dire a noi. Se da quella parte c’è una lingua che non parla, dalla parte nostra ci sono occhi incapaci di sentire il ritmo dolente di un’esistenza per niente dimentica di sé. Quel silenzio grida per essere udito altrove, là dove noi non riusciamo ad essere.

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CAMMINARSI DENTRO (180): La scrittura non compensa niente, non sublima niente, non ci fa amare da chi amiamo.

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Giovedì, 10 marzo 2011

Scrivere è operazione che forse richiede una qualche dose di ‘spudoratezza’. Mettere a nudo il proprio cuore nel web, senza sapere chi leggerà, non è facile. Sentirsi esposti al giudizio altrui per le proprie debolezze è sgradevole, talvolta. Non possiamo chiedere a chi non c’è di dire. E poi, cosa dovrebbero dirci i viandanti occasionali e quelli che presumibilmente ci seguono!? Dopo tutto, ha ragione Roland Barthes a dire che scriviamo solo per noi stessi.

Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura.

Chi ci legge si troverà ora nella condizione per niente invidiabile di chi non c’entra nulla. Eppure, qualcosa ci lega. Google Analytics rileva ogni giorno gli accessi a questo sito: oscillano tra le 50 e le 100 ‘presenze’. Dunque, c’è chi legge le mie riflessioni. Mi basta la soglia bassa dei passanti: alcune decine di persone, per ragioni che mi sono sconosciute, si fermano a leggere. Che cosa ci lega? forse, l’amore per la scrittura, per l’esercizio della scrittura.

In questa Rubrica io mi ripeto, cioè torno a dire in modi diversi le stesse cose: emozioni e sentimenti, ragioni morali e sentimentali, situazioni dell’anima. D’altra parte, a pagina 13 di Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello del neurologo portoghese Antonio Damasio leggo:

I sentimenti – di dolore, di piacere o di qualità intermedia tra questi estremi – sono il fondamento della nostra mente.

Eppure, saremmo portati a pensare che la nostra mente è fatta soprattutto di pensieri. E poi, a pagina 18:

L’emozione e le reazioni affini sono schierate sul versante del corpo, mentre i sentimenti si trovano su quello della mente. Lo studio del modo in cui i pensieri inducono le emozioni – e viceversa le emozioni fisiche diventano quel genere di pensieri che noi chiamiamo sentimenti – ci permette di osservare mente e corpo, manifestazioni evidentemente diversissime di un organismo umano unico e senza soluzioni di continuità, da una prospettiva privilegiata.

Negli anni dell’Università leggevo su L’Espresso la rubrica di filosofia tenuta da Vittorio Saltini. Un giorno scrisse sull’inutile precisione di Husserl. Alludeva alle 40.000 pagine di manoscritti lasciati in archivio, nei quali il filosofo sarebbe stato impegnato a rendere sempre più chiaro ciò che inseguiva da una vita: la realtà della coscienza nelle sue relazioni con gli altri. Quell’inutilità mi è sempre piaciuta.

La preoccupazione è quella di riuscire a dare un nome a tutto quello che mi accade di pensare e di sentire. In questo senso, essa è affar mio. Ognuno di noi dovrebbe farlo, cioè dovrebbe esercitarsi a dire nel migliore dei modi cosa vedono i propri occhi, o meglio cosa sentono i propri occhi: quello che sentono dentro di noi e dentro gli altri.

Inseguire l’invisibile, a partire dal visibile, dalla superficie delle cose. Illuminare gli spazi vuoti, i silenzi, gli scarti, le inflessioni della voce. Dare voce al deserto.

Si potrebbe dire che si tratta di un atto d’amore per i propri frammenti, uno sforzo incessante teso a dare continuità a ciò che non ne ha e a spezzare il continuum dell’esperienza facendosi sguardo discreto, cioè occhio pronto a cogliere le voci e i suoni dell’anima del mondo. Interrompere la continuità, lavorando il concetto di segmenti d’anima: esitazioni, perplessità, sospiri.

Le parole ci vengono incontro già: occorre andare a stanare il lupo solitario, il cuore angosciato e in pena, il ragazzo perso nel labirinto delle sue illusioni.

Amico dell’invisibile è espressione che andava bene per Montale, secondo un suo amico critico, e dovrebbe andar bene anche per noi che non facciamo altro che indicare «gli scorni di chi crede che la realtà sia ciò che si vede».

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LA GRANA DELLA VOCE (1): Emanuele Severino, Noi, ciascuno di noi, come luogo della Verità

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Domenica, 6 marzo 2011

[gplayer href=”https://www.gabrielederitis.it/wordpress/audio/Severino/NoiComeLuogoVerita.mp3″] Noi, ognuno di noi, come luogo della Verità [/gplayer]

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I MIEI MAESTRI – Cristina Campo

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Cristina Campo

Meine ganze Kraft ist meine Einsamkeit / Tutta la mia forza è la mia solitudine

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Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,

su acutissime làmine
in bianca maglia d’ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…

Cristina Campo, Passo d’addio

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Sito: http://www.cristinacampo.it

Biografia, di Arturo Donati

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Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, Cristina Campo diceva di se stessa: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Quel poco è quasi tutto raccolto in questo libro e imporrà una constatazione a ogni lettore percettivo: queste pagine appartengono a quanto di più bello si sia mostrato in prosa italiana negli ultimi cinquant’anni. Cristina Campo era un’imperdonabile, nel senso che la parola ha nel saggio che dà il titolo a questo libro: come Marianne Moore, come Hofmannsthal, come Benn, come la Weil, aveva la «passione della perfezione». Non altrimenti avrebbe potuto scrivere le pagine che qui si leggono su Chopin o sulla fiaba, sulle Mille e una notte o sul linguaggio. «Saluto una sapienza oggi fra le più strane» ha scritto Ceronetti, una volta, della Campo. Forse è venuto il tempo perché i lettori si accorgano che in Italia, in mezzo a tanti promotori delle proprie mediocrità, è vissuta anche questa «trappista della perfezione». Cristina Campo (1924-1977) pubblicò in vita soltanto due piccoli libri: Fiaba e mistero (1962) e Il flauto e il tappeto (1971), che si ritrovano interamente in questa raccolta, insieme con i saggi che precedevano le sue magistrali versioni poetiche da John Donne e W.C. Williams e con altri suoi scritti mai prima d’ora raccolti in volume.

DAL TESTO – «La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, l’attimo, fatale in ogni vita, del “generale orrore”, del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione.

«In un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all’uno o all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita».

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INTELLIGENZA EMOTIVA (6): La teoria delle emozioni di Martha Nussbaum

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Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. Aristotele

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Martha Craven Nussbaum (foto) è una filosofa statunitense, studiosa di filosofia greca e romana, filosofia politica ed etica. Tra i suoi libri pubblicati in Italia: La fragilità del bene (Il Mulino, 1996) (una mia riflessione sulla fragilità del bene),  Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica (Vita e Pensiero, 1998), Coltivare l’umanità (Carocci, 1999), Diventare persone (Il Mulino, 2001), Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone (Il Mulino, 2002), Capacità personale e democrazia sociale, a cura di Gf. Zanetti, Diabasis, Reggio Emilia 2003.

L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino 2004). Il titolo originale di quest’ultima opera è Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotion, cioè “gli sconvolgimenti (nel senso di sommovimenti geologici) del pensiero”.

Lungi dal costituire un residuo della conoscenza, un elemento impuro di cui il pensiero deve liberarsi per coincidere con la più pura e algida speculazione, le emozioni – dolore, paura, vergogna, amore, compassione – pervadono, anzi “sono” il pensiero. Secondo una visione che pone le emozioni al centro non solo della vita individuale ma anche di quella sociale, come motore delle relazioni interpersonali, Martha Craven Nussbaum (Wikipedia) intende gettare le basi di una teoria delle emozioni, senza la quale nessuna etica o filosofia politica possono dirsi adeguate. La prima parte si sviluppa attorno all’emozione del dolore e del lutto; la seconda parte segue le emozioni sulla scena pubblica e nella politica; la terza si concentra sull’amore nelle versioni platonica, cristiana e romantica, con richiami a Dante, Proust, Whitman, Joyce e alle partiture di Mahler. Un libro forte e innovativo, punto di arrivo di un lungo percorso di ricerca, tra filosofia e psicologia, letteratura e musica.

(Scheda dal sito dell’Università di Chicago) (Stefania Contesini, L’etica e il ‘pensare bene’) (Educazione alle emozioni – 32 diapositive del Laboratorio 2010 per gli studenti delle scuole medie superiori, a cura della dottoressa Maddalena Bisollo) (Roberta Dreon, Linguaggio e corpo delle emozioni. Dewey, Nussbaum e la lingua di Saba) (da filosofico.net: Martha Nussbaum) (Maurizio Ferraris, Martha Nussbaum)


Recensione dal blog “Pensare in un’altra luce”


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INTELLIGENZA EMOTIVA (5): L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e relazione con l’altro, di MARA DELL’UNTO

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Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. – Aristotele

L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e incontro con l’altro

di MARA DELL’UNTO

E stupisco che l’amore abbia questo volto interno (M. Luzi)

In questa breve ricognizione sull’affettività e sui suoi legami con la costruzione della personalità seguiremo sostanzialmente l’iter concettuale che Roberta De Monticelli propone ne L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, con alcuni cenni diretti all’opera di Edith Stein,  riassumibile nelle seguenti tesi:

  1. L’affettività è la vita attualizzata del sentire inteso come la percezione assiologica del reale.
  2. Il sentire è strutturato  a diversi livelli di profondità – sensoriale, vitale o degli stati d’animo e sentimentale- a cui corrispondono altrettanti gradi di maturazione individuale.
  3. Lo strato più profondo del sentire, quello in cui si instaura un ordine del cuore o ethos individuale, è quello dei sentimenti
  4. I sentimenti che estendono o riducono l’apertura alla percezione assiologia del reale sono amore e odio. La specifica riduzione del sentire che comporta l’odio assieme alle altre passioni distruttive, come pure tutte le strategie di evitamento del dolore, sono alla base di una cecità assiologica che si accompagna ad una mancata individuazione della personalità.
  5. Al contrario, se l’ancoraggio ad un ordinamento  costituito da valori non derogabili è fondamentale per un’etica condivisa, è il concreto ordinamento del cuore che rende ogni individuo persona unica. Ed un ordine del cuore aperto alla percezione assiologia del reale è possibile che instauri solo grazie all’amore, inteso come l’attivarsi dello strato profondo dell’affettività che si dispone a cogliere il valore del reale grazie agli incontri e alle esperienze di valore significative. Dunque, l’ordine interiore che fa di noi delle persone è legato alla nostra capacità di sentire il valore degli altri e di dare risposte adeguate alle esigenze del reale. Così Simone Weil:” Arrivare a comprendere totalmente che le cose e le persone esistono. Giungere a questo, sia pure una sola volte prima della mia morte; è la sola grazia che io chieda”

Per una definizione del sentire

Il sentire, inteso come la percezione delle qualità di valore delle cose, si manifesta nella vita affettiva: sentimenti, passioni, stati d’animo ed umori sono l’attualità intesa come esplicazione di ogni fenomeno della vita affettiva. Se il sentire, dunque, è la percezione delle qualità assiologiche del reale, la tesi forte qui sostenuta è che esso non è l’ambito dell’arbitrarietà soggettiva e neppure un meccanismo adattivo all’ambiente determinato geneticamente. Sentire che un’azione è ingiusta, dal punto di vista che qui sosteniamo, è un’evidenza che si sottopone ad una prova di verità; ovviamente, ciò non significa che tutto ciò che sentiamo è per ciò stesso vero: il sentire come apertura alla dimensione assiologia del reale si rivela un esercizio fallibile in cui l’errore, l’aridità, la miopia sono alla base di risposte inadeguate al reale. Allora, la necessità di un’educazione al sentire, di un’esattezza del cuore, che è l’obiettivo fenomenologico di ogni formazione della persona, include il superamento dell’opposizione sentimento-ragione perché non c’è precisione del cuore senza adeguate capacità cognitive. Abbiamo detto che la vita affettiva – sentimenti, passioni, emozioni- si fonda sulla sensibilità, ma l’affettività non si riduce a ricettività, è fatta anche di risposte, di azioni. E, se è vero che l’adeguatezza delle nostre risposte al reale dipende dalla giustezza del sentire, è importante considerare anche la parte tendenziale della nostra persona: pulsioni, desideri, bisogni ci spingono ad agire spesso in modo compulsivo, ma ciò che ci motiva all’azione è il sentire o meno adeguatamente. Anche l’assenza di percezione di valore della realtà ci fa decidere, perché il rapporto tra componente tendenziale e precisione del sentire è di tipo inversamente proporzionale: meno valore percepiamo e più componente pulsionale agiamo. Dunque, il sentire come ciò che motiva in ultima analisi il volere ci porta a considerare il sentire parziale ed ottuso, il sentire “deficiente,” come il responsabile di azioni condotte sulla scorta delle componente tendenziale in cui può smarrirsi qualunque contatto con la realtà in un esercizio esasperato e fatuo dell’emotività. Il fenomeno della maturazione affettiva implica, allora, un’attivazione dei diversi strati del sentire, non solo dell’ampiezza, ma anche della profondità: non solo percepire quanta più realtà possibile ma anche attribuire ad essa un rango di valori che la strutturi gerarchicamente. Bene, è proprio quest’ordine che si manifesta nella vita affettiva e nei comportamenti a definire il nostro personale modo di sentire, la nostra individualità. Dunque, se attivazione e strutturazione assiologica della sensibilità sono i fenomeni fondanti l’identità di una persona, laddove  questa strutturazione sia assente si assiste al fenomeno della “banalità del male”, il cui polo estremo può essere certo rappresentato dal gerarca nazista di cui si occupò la Arendt, ma che qui  indica tutta una gamma di piccoli e grandi orrori che costellano le nostre vite quotidiane e di cui non necessariamente si occupano le cronache.

La struttura del sentire

L’affettività ha uno strato sensoriale e vitale, ma tra questi strati e quello propriamente personale c’è un salto connesso all’esperienza di altre personalità come tali. L’affettività ridotta agli strati vitale e sensoriale non consente né una personologia né un’etica: nella strutturazione della persona, il momento centrale è la percezione di valore delle altre persone come tali. Infatti, sono i sentimenti connessi ad una relazione personale, e soprattutto l’amore nelle sue diverse forme, a strutturare tutta l’affettività. Dunque, grazie ad una ricognizione strutturale e ad una dinamica, proveremo ad illustrare la connessione imprescindibile tra identità, affettività e dimensione etica del vivere nel suo fondamento relazionale. Detto in termini più perspicui, vedremo come l’amore sia la possibilità più propria che ognuno ha per formarsi come individuo in grado di sentire e di agire in modo adeguato rispetto alla non ineludibile struttura assiologica che il reale ci pone di fronte come richiesta di risposte adeguate.

Abbiamo accennato ai vari strati dell’affettività distinguendo una sfera del sentire riconducibile ai sensi, una vitale  che indica gli umori e gli stati d’animo, ed infine quella personale o dei sentimenti. Se la sfera dei sensi delinea il fondamento del nostro percepirci come vita personale basata sulla percezione dei vissuti inerenti l’essere un corpo, vi sono poi tutti quei sentimenti vitali che ci rivelano il nostro benessere o malessere, la nostra energia fisica, a cui affianchiamo i vissuti che ci rivelano gli umori o lo stato d’animo che ci caratterizza in dato momento: angoscia, gioia, depressione etc. Bene, i sensi vitali, che siano o meno legati al corpo, ci rivelano che siamo inscritti in una dipendenza causale dalle circostanze, ma non esauriscono la sfera della nostra vita personale. E Stein in Psicologia e Scienze della spirito tenta di fornire una teoria della causalità psichica, valorizzando il ruolo della motivazione nell’ambito della vita personale: l’alternarsi dei sentimenti vitali ci attesta il fatto che dipendiamo dall’esterno e che il nostro benessere psichico è indice di come stiamo, di come viviamo, in modo più ampio e profondo degli stati di benessere o malessere fisico, quantunque questi spesso concorrano in modo significativo a determinare i nostri stati d’animo. Ma i nostri stati d’animo, le nostre tonalità affettive non sono ancora in grado di determinare le caratteristiche della nostra personalità: gli stati d’animo ci dicono come stiamo ma non ancora che siamo ( e su questo punto mi permetto di rinviare alle bellissime analisi che E. Stein conduce sull’analitica esistenziale di M. Heidegger contenuta in Essere e Tempo) . La personalità, intesa come lo strato più profondo del nostro essere, si forma a contatto con le altre persone: i sentimenti sono il luogo in cui incontrando gli altri incontriamo noi stessi perché qui il sentire è matrice di risposte alla realtà in cui ognuno di noi sperimenta attraverso scelte, azioni e decisioni, un proprio personale ethos. Ciò ovviamente non comporta un relativismo morale perché tutti gli ordini personali sono ugualmente validi se non contraddicono norme universalmente obbliganti e se è possibile stabilire la verità di queste norme, ma di questo parleremo tra poco.

Allora, tornando alla distinzione tra causa e motivazione, possiamo chiudere questa parte dicendo che lo strato personale dell’affettività è quello dei sentimenti, i quali si configurano come un consentire/ dissentire nei confronti di un sentire di primo grado, ovvero del semplice presentarsi delle qualità di valore del nostro sentire; ad esempio, avvertire gioia o dolore è un semplice prendere atto in modo passivo della nostra esposizione al mondo, ma noi possiamo decidere da cosa farci toccare e a quale profondità. E’ in queste risposte che riveliamo ciò che siamo a noi stessi, anche se questa scoperta non avviene indipendentemente dalla scoperta dell’altro.

Sentimenti, emozioni e passioni

Dunque, lo strato personale del sentire si struttura attraverso l’incontro con l’altro che si pone come occasione privilegiata per la maturazione affettiva. Se un sentimento è una disposizione del sentire, cioè un consentire o dissentire rispetto a ciò che lo suscita, questo significa che il sentimento analizzato nella gamma che va dai poli opposti dell’amore e dell’odio è un atteggiamento motivante scelte, azioni e comportamenti, e che come strato dell’affettività che struttura un ethos individuale si distingue tanto dalle emozioni quanto dalle passioni.

Gli strati affettivi coinvolti dai sentimenti sono certamente quelli causalmente determinati, cioè quello sensoriale e vitale o dell’umore. Ma certamente le emozioni legate ad esempio alla percezione del bello, del buono, del giusto, presuppongono una sensibilità sufficientemente strutturata a livello personale. Le emozioni, infatti, in quanto reazioni ad una percezione, si configurano come attivazioni del sentire e del tendere e sono – a differenza dei sentimenti – vettori d’azione immediata che possono dunque indurre ad una reazione o ad un’azione che si configura come semplice attivazione di una sensibilità priva di strutturazione personale – che vive solo a livello sensoriale e vitale – o, al contrario, risposta conseguente ad una certa strutturazione del sentire e chiamare in causa i valori vitali. Finora, concentrandoci sul sentire non abbiamo parlato se non accennandovi, all’altro polo della vita affettiva, ossia il tendere inteso come l’insieme di pulsioni, desideri e aspirazioni: la passione è un modo del volere che implica il tendere in tutte le sue forme. Da sempre si oppone la passione alla ragione, in quanto si identifica come caratteristica saliente della passione il suo essere radicata nell’irrazionale tradotto con elementi che possiamo riassumere come l’inadeguatezza assiologica, l’inerzia o la forza compulsiva e l’irresistibilità, ovvero l’imporsi ad un soggetto in presenza del dissenso da parte dello stesso. Elementi che spesso portano un’azione passionale ad essere considerata frutto di un conflitto di volontà – insuperabilmente descritto da Agostino nelle Confessioni – in cui le due direzioni del tendere portano l’una all’azione e l’altra al rifiuto stesso del volere concretizzato nell’azione. Quest’ultimo, dunque, un volere di second’ordine che non può restare per sempre velleitario: o il conflitto del volere porta, attraverso una crisi, ad una ristrutturazione assiologica o , se è destinato a rimanere immutato nel tempo con le sue dinamiche circolari, non è un vero conflitto ma una semplice resa ai propri meccanismi tendenziali mascherata da un bisogno ipocrita di autoassoluzione. Va qui notato  che, se un’azione libera non è un’azione indifferente alla passione, ma un’azione a cui si consente con tutto  se stessi, frutto di una volontà che pienamente consente al proprio fare, non per questo è definibile come un’azione buona. Le passioni di per sé non sono fonti di conflitto,ma quando ciò accade si può accedere ad una ristrutturazione della personalità ma anche ad un’uscita verso il basso, ad una destrutturazione assiologica che culmina nelle “passioni fredde”. Assistiamo qui al fenomeno dell’inaridimento del sentire che coesiste con la forza passionale delle tendenze in cui l’empatia – intesa qui come la definisce E. Stein, ossia la percezione psicologica dei vissuti  altrui – si riduce al generico e perde la presa sull’individuale. Riduzione del sentire significa proprio non percepire l’individualità di chi ci sta di fronte, ma ridurlo ad in semplice componente di una classe di individui di cui ci sentiamo nemici o di cui, semplicemente, dobbiamo fare un uso strumentale, senza che si dia la possibilità di sentire l’altro sorgente di un sentire o un soffrire che renderebbe impossibile il male o l’indifferenza nei suoi confronti. Valga a titolo esplicativo, Eichmann, al processo dichiarò di non aver mai odiato gli ebrei. Dunque, l’affettività umana ridotta all’impersonalità si esplica nelle passioni fredde, che vanno dall’indifferenza alle sofferenze altrui al contagio emotivo che è il contrario dell’empatia: sentire gli stati d’animo altrui come i propri  ma sempre attraverso l’impersonalità. La rabbia o l’entusiasmo delle folle sono la manifestazione di dinamiche emotive in cui vige il contagio e non l’empatia.  Il motivo per cui si dà un conflitto d’identità non risolvibile è che il nucleo sentimentale della passione configura un ordine assiologico non integrabile nel precedente: è questo che porta al male assoluto o semplicemente alla mediocrità quotidiana che spesso rivela la distanza tra l’opinione che abbiamo di noi stessi e delle nostre priorità assiologiche e le priorità che effettivamente manifestiamo nelle nostre azioni.

Il volto interno dell’amore

Da quanto detto finora è chiaro che un qualche ordine assiologico si instaura solo quando ci è data una possibilità di gioire non solo per le sensazioni piacevoli o lo stato di benessere, ma quando si attiva lo strato dei sentimenti che è ulteriore, più profondo, rispetto a quelli sensoriali o vitali. E questo diventa possibile solo quando diventiamo capaci di sentire il valore assoluto di un’altra esistenza come tale; solo allora si attivano gli strati più profondi dell’affettività, quelli in grado di cogliere le differenze di valore del reale, avviene la maturazione personale che qui facciamo coincidere con la precisione del cuore. Di norma, ciò avviene perché  siamo stati per primi oggetto d’amore da parte di qualcuno e quando ciò non è avvenuto, sviluppare la capacità d’amare diventa un esercizio estremamente faticoso, spesso superiore alle nostre forze. L’amore come sentimento che attiva uno strato personale del sentire, matrice di risposte che strutturano un ethos individuale, ci introduce al nesso tra la formazione di noi e l’apertura al valore del reale. Faccio un esempio: se non si sente che il desiderio di maggior benessere economico non vale la morte di un genitore o di un coniuge, sicuramente non è stato possibile attivare alcuna strutturazione assiologia del reale e non basta derubricare questi come casi di follia. Dostoevskij in Delitto e castigo coglie il vero – come sempre, aggiungiamo – quando consegna all’assassino di una vecchia spilorcia,  per mano della prostituta Sonia, il brano di Giovanni sulla resurrezione di Lazzaro: ciò che deve risorgere è la possibilità di una vita personale, di una capacità di sentire che passa per l’assunzione delle proprie responsabilità, unica via di scampo da una morte per disseccamento interiore.

Ma come si attiva concretamente lo strato personale del sentire? Di certo, non basta l’educazione né l’esempio: nessuna attività altrui forma una personalità, anche se, perché avvenga il risveglio e la maturazione, occorrono gli altri, occorre la presenza di qualcuno in grado di attivare una risposta che abbiamo definito amore.

L’amore, inteso qui come sentimento relazionale elettivo e non solo, è un incondizionato consentire all’esistenza di una determinata persona non perché abbia particolari qualità ma perché è quella persona. E’ un assentire felice alla sua essenza che invita ad un rinnovamento interiore che comporta sempre una scoperta e riscoperta di sé. Certo, l’amore è rinnovato sentire, ma soprattutto per gli amori elettivi è anche desiderio e ospita allora tutta una serie di dimensioni del tendere come bisogno, pulsione, domanda, che sono l’esatto contrario della gratitudine, del felice consentire; e con ciò non si sta svalutando  la forza dell’eros, ma si vuole contestare il tentativo di ricondurre tutta l’affettività al suo polo pulsionale. Abbiamo detto che l’oggetto d’amore è l’identità altrui; per questo, l’amore non è motivato ( “è senza perché, fiorisce perché fiorisce”) ma certamente la persona oggetto d’amore viene intuita come la soglia attraverso cui ci si dischiude un nuovo universo di valore. Ogni esperienza amorosa ha come sua manifestazione apicale un bisogno che non è di possesso ma di espressione. La preziosità della persona amata è in fondo il potere di farti intuire la “tuità” di te, di suscitare la tua espressività; qualcuno che se ne intendeva ha scritto “ di generare nel bello”.

L’etica tra il sentire e il conoscere

L’amore, dunque, come sentimento dell’intero è un’ introduzione a tutti i sentimenti relazionali positivi che caratterizzano i rapporti con gli altri che, benché motivati da un accesso parziale al valore dell’altro, recano una traccia del felice consentire dell’amore che in questo senso prepara al riconoscimento dell’identità altrui come tale. Il sentimento corrispondente al riconoscimento dell’altro in quanto tale è il rispetto, che davvero significa il sentire che le esistenze degli altri hanno valore. In questo senso, l’amore non può essere dovuto a tutti per le caratteristiche di cui abbiamo parlato, ma il rispetto sì e l’estensione delle classi di enti a cui è dovuto il rispetto è certo indice del livello di civiltà di un’epoca. E, proprio perché il rispetto è il sentire la dignità delle persone in quanto tali, possiamo assumerlo come la minimale condizione di possibilità dell’etica. Infatti, chi non nutre questo sentimento non si accorge di vivere in un mondo di persone e conduce una vita subumana in cui viene meno la corretta formazione di un pensiero della realtà, in quanto davvero il rispetto inteso come il sentimento della trascendenza dell’individuale è il sentimento della realtà in quanto dotata di valore. E’ solo nel rispetto che il sentire si struttura come coscienza morale, ovvero come facoltà di giudicare e di agire in base a motivazioni moralmente fondate. Ma di che tipo è l’evidenza che fonda i giudizi di valore? Le norme non possono che essere obbliganti in virtù dei valori che le fondano, ed i valori sono le qualità assiologiche del reale. I valori si sentono, certo, ma non ogni modo del sentire è una base di evidenza; abbiamo detto prima che solo lo strato dei sentimenti fonda un ordine del cuore personale e che tale prospettiva si sottrae all’accusa di relativismo quando si stabilisce il principio che tutti gli ordini compatibili con la verità atta a fondare norme obbliganti sono compatibili anche tra loro. Ora, questa base di evidenza è il rispetto, inteso come condizione minima per accedere alla soglia dell’agire morale: sapere ciò che da chiunque è dovuto a qualunque persona come tale è la base delle norme universalmente obbliganti senza le quali non c’è giustizia. In altri termini, ognuno può legittimamente decidere in cosa consista la sua felicità se questa è compatibile con la base non negoziabile della giustizia morale. Ma come fondare l’universalità della norma, data la personalità del sentire? Proprio ponendo il rispetto alla base dell’etica, possiamo affermare che il giusto agire, la phronesis aristotelica, si sottrae ad ogni pericolo di soggettivismo e relativismo. Abbiamo volutamente evitato il riferimento all’etica kantiana che pure fa del rispetto l’unico sentimento che informa la vita morale per restare semplicemente sulle cose stesse, ma bisogna pur tornare all’esigenza kantiana di universalità e di apriorità dell’etica in quanto elementi dirimenti per la fondazione di una base etica obbligante ciascuno pur nella diversità delle personali aspirazioni. Ciò che qui si propone è un’etica assiologica, in quanto pone a fondamento del dovere le istanze di valore del reale, ma non eudemonistica perché la felicità è poi un affare privato di ciascuno di noi; una proposta che  distanzia da Kant perché ritiene che il carattere obbligante della norma coincida in ultima analisi con il riconoscimento del valore che la fonda, e  ciò avviene solo per il rispetto in quanto sentimento universalmente dovuto da ciascuno  a ciascuno. Un sentimento che diventa matrice di risposte adeguate in quanto assume l’abito, o la virtù, della phronesis che dispone la nostra buona formazione e trasformazione, strutturando una sensibilità personale capace di sentimenti e comportamenti giusti nei confronti degli altri e di noi stessi.

Sulla vita buona o sulla felicità

Abbiamo visto come lo strato personale dell’affettività si attivi e si strutturi in modo privilegiato attraverso l’esperienza dell’amore, sia questo elettivo o meno. Ma, abbiamo anche detto che la maturazione personale è un fenomeno dinamico che può subire quindi variazioni e regressioni e ciò che opera in modo tale da far regredire una personalità fino al livello subumano è proprio l’odio, che al suo fondo resta incomprensibile, tant’è che non si odia – o meglio così si crede – mai per primi: si risponde sempre all’odio di un nemico. Ciò che resta incomprensibile dell’odio è dunque la sua gratuità, elemento invece indispensabile e pienamente comprensibile nell’amore. L’amore, nella sua essenza, è gratuito perché è senza motivo ( non sono le qualità dell’altro a farcelo amare) ma non infondato perché è un’esperienza di realtà progressiva nel senso che facciamo esperienza di un’altra persona che è appunto il fondamento del sentimento che viviamo. In questo senso non c’è amore illusorio: certo, possiamo sbagliarci sul sentimento o rifiutare la persona reale una volta venuta meno l’immagine trasfigurata dal desiderio, ma ciò ha a che fare non tanto con l’essenza dell’amore quanto coi residui di un’adolescenza che qualche volta tarda ad evolvere nella maturità. E qui rinviamo ad un piccolo capolavoro letterario di Dürrenmatt, Greco cerca greca, una fenomenologia della maturazione affettiva, in cui il protagonista  passa attraverso le secche  (il lago gelato di Costanza ) della disillusione per approdare ad un amore che, abbandonata l’infatuazione dell’immagine autoeroticamente prodotta, è capace di pronunciare un amen all’essenza dell’amato ad occhi aperti, cioè col giusto sentire che non si sottrae alla verità ma che, nondimeno, continua anzi comincia ad amare in una dinamica di bene prodotto e ricevuto  finalmente salvifica.

Alla base dell’odio, invece, sembra esserci un vuoto, un’assenza di realtà che si rivela come un’incapacità di sentire le differenze di valore del reale; il lato pulsionale dirige tutto il nostro agire quando è ridotta a zero la capacità di sentire , ed è proprio una mancanza, l’indifferenza , a nutrire l’odio. Il sentire non giusto è un sentire poco, un’insufficiente attivazione dello strato personale dei sentimenti, in primo luogo del sentimento di rispetto, e dunque una mancanza di percezione della realtà e del suo ordine assiologico. Così la base dell’ingiustizia è l’indifferenza, grazie a cui non colgo che il mio benessere economico non vale l’omicidio del mio coniuge, o il furto, l’arrivismo nutrito di scorrettezza, non vale un avanzamento di carriera. Torna infine la dottrina platonica del male come deficienza d’essere; qui, l’essere insufficiente è il nostro e deficienza d’essere significa deficienza del sentire. Allora, essere in grado di accogliere la realtà portatrice di valore che soprattutto nell’individualità altrui rivela il proprio volto significa strutturare una  personalità che sta compiendo il proprio percorso di  maturazione affettiva; un percorso che non ha come meta ma come origine la felicità stessa. La felicità non è né un’emozione né uno stato d’animo, ma ciò che rende un ente conforme alla sua essenza si legge presso gli antichi Greci, e qui pensiamo ad Aristotele  ma non solo. In altri termini, possiamo dire che la felicità è la possibilità ontologica della persona capace di sentire, la piena attivazione di tutti gli strati del sentire; quindi il suo contrario non è la tristezza o il dolore, ma l’incapacità di provare affetti, di sentire davvero, l’inaridirsi del cuore che sempre porta ad una destrutturazione della personalità e ad una perdita di contatto con la realtà . La felicità non è un’emozione, ma una condizione oggettiva: essere capaci di gioire e di soffrire senza rimuovere alcunché, la piena attivazione di tutta la nostra sensibilità. E’ per questo che  si nasce a nuova vita,  ci si dischiude a nuove possibilità, nel felice assenso che l’amore richiede.

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