CAMMINARSI DENTRO (174): Il dolore della mente

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Domenica, 6 febbraio 2011

Quando riemergiamo dai nostri terrori, per sprofondarvi di nuovo allo scadere delle tregue del Tempo, a poco saranno valsi i balsami iblei, recati da mano accorta e sollecita, se l’assedio di questuanti e postulanti solo per poco allenta la sua presa. Torna a bussare insistente alla porta la nera angoscia con il corteo di mille paure che sopraggiungono da ogni parte, e la mente si dibatte nel tentativo di trovare una via di fuga, uno scampo, oltre la breve tregua del giorno. E’ la notte che porta pavor e angor e tristitia.

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CAMMINARSI DENTRO (173): Contratto unilaterale a tempo indeterminato

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Sabato, 5 febbraio 2011

 

EROS

«In tema di attese sterminate e inconcludenti credevo di essere solo sul pianeta. La specialità mi sembrava appannaggio mio quasi esclusivo. Ho sempre pensato: non è umanamente pensabile che qualcuno possa aver battuto il mio record! Sì, c’è la follia di mestiere, il delirio professionale… Mi direte: bisogna aiutare i pazzi ad essere folli. E questa è la saggezza della Psichiatria umanistica, su cui non c’è praticamente nulla da eccepire. Nell’esperienza amorosa c’è almeno un quarto di follia. E anche questo lo sapevamo. Ma qui non si tratta di divina follia. Direi quasi che è ordinaria stupidità.»

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CAMMINARSI DENTRO (172): Ciò che è più vero per noi

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Domenica, 16 gennaio 2011

Quando dico, con le parole di Hofmannsthal, che «la verità è il tono di un incontro» mi riferisco a un accesso alla verità che è cosa ben diversa dalle certezze della scienza, di tutte le scienze della natura. La distinzione operata da filosofi come Severino tra certezza e verità ci viene qui in aiuto, per immaginare lo spazio lasciato inesplorato da qualche secolo ormai dalle scienze esatte. Tutto ciò che cade al di fuori del fenomenico e che non si tradurrà mai in legge scientifica, perché non ha dignità paragonabile alle cose della natura, pure ha un proprio modo di consistere.

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CAMMINARSI DENTRO (171) – Prendersi cura di sé (1): Un nuovo punto di partenza teorico: la cura di sé

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Domenica, 16 gennaio 2011

La ribellione contro l’asservimento delle coscienze perseguito dal potere politico si traduca nella cura di sé come pratica di resistenza che può diventare la chiave di un impegno politico-filosofico volto a disfare le nostre identità e a inventare nuove forme di soggettività e nuove modalità di esistenza. Per questo, ieri ho iniziato la lettura delle 450 pagine dell’opera di MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), FELTRINELLI 2003.

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CAMMINARSI DENTRO (170): Che il nostro delirio salga agli astri, almeno!

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Sabato, 15 gennaio 2011

L’accumulo di post non pubblicati è pure un fatto. Si incomincia a sviluppare un’idea a volte dal valore strategico, che morde alla radice di problemi nevralgici; si scrive un paragrafo, massimo due, e poi non si riesce per settimane e per mesi ad andare avanti. L’intuizione originaria spesso è ben colta ed espressa, ma quello che manca è la ragione per andare avanti. Manca la prospettiva, lo sbocco da dare alle riflessioni iniziali. Non si capisce dove andare. Viene in mente che si tratta di pensieri che debbono essere pensati ancora, ma che questo sia chiaro non consola. Nei fatti, siamo fermi. Non riusciamo a pensare ulteriormente l’oggetto che pure ci sta a cuore. Magari, abbiamo inseguito quell’idea per anni. Ora riusciamo a parlarne, ma solo in parte. Credevamo di avere una nostra idea chiara, cioè compiuta, ma non è così. Quei pensieri restano nello spazio personale per un tempo indefinibile: il post porta scritto in alto, prima del titolo: Privato. Non pubblicato.

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CAMMINARSI DENTRO (169): L’amore inutile

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Giovedì, 13 gennaio 2011

La prima volta che ho letto La politica dell’esperienza di Ronald Laing è stato nel 1968. A partire dal quel libro ho concepito poi la mia tesi di laurea su cui ho lavorato per tre anni.

In fondo al testo, dopo le argomentazioni psichiatriche che costituiscono l’anima del testo stesso, una sezione separata del libro intitolata L’uccello di fuoco. In nota: «Per meglio intendere il senso di questo scritto occorre ricordare che in inglese la parola bird (uccello) ha una connotazione femminile. Nel presente testo essa allude sempre all’aspetto femminile delle cose [Nota del Traduttore].» Seguono 20 pagine, precedute dai versetti del Vangelo di Tommaso:

Gesù disse loro:

Quando farete di due uno, e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una cosa sola, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, ed un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.

Il testo, un delirio. Dopo la razionalità acuminata del saggio filosofico, uno sproloquio su cui mi sono affaticato per anni, per arrivare a comprendere come Laing abbia potuto scegliere di abbandonarsi alla manifestazione di sé più sconcertante: il vano vaneggiare incomprensibile di un linguaggio che sembra quello dissociato dello schizofrenico. Oggi comprendo. Ma avevo già compreso, in realtà. Oggi comprendo meglio. La forma prescelta del ‘delirio’ serviva a dare voce al dolore della mente.

Ieri sera, prima la famiglia di A., padre madre sorella devastati e lacerati e in guerra tra di loro, poi in riunione l’invito a G. a dire apertamente di aver comprato una macchina per un figlio e un’altra macchina per l’altro figlio. Mentre i genitori di A., con composta dignità, ascoltavano sorridendo a loro volta come tutti gli altri. Nico era di passaggio. Si è fermato per una testimonianza. La morte del padre. Tre anni di Comunità. Il rientro. L’abbandono della donna con cui aveva convissuto per due anni. L’invito ad andare in Comunità: lui l’avrebbe aspettata. Il suicidio di lei. Due anni di dolore da lui non compreso. Depressione. Ricaduta. Abbandono di tutte le sue cose. Rientro in Comunità per altri tre anni. ‘Guarigione’. L’abbandono di Michela si era reso necessario, perché anche lei tossicomane. Nico mi ha spiegato alla fine della riunione di aver preso la decisione da solo. In Comunità lo avevano seguito nel lavoro di elaborazione di quella decisione, ma poi gli Educatori si erano convinti con lui che ormai egli non pensava più a lei. Dunque, da solo dopo aveva compreso di doversi separare da lei, nonostante l’amore rinato tra i due, per non compromettere il lavoro fatto su di sé. Nico è il primo maschio da cui sento dire una cosa del genere: al di sopra dell’amore, la dignità e la vita. Anche se poi la scelta personale è costata la vita ad un’altra persona. In realtà, egli ha compreso poi che non poteva essere lui a salvare Michela con il suo (inutile) amore. E lei non avrebbe salvato lui.

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CAMMINARSI DENTRO (168): Bisognerebbe immaginare.

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Il deserto degli affetti visto da fuori non si vede. A volerlo descrivere, bisognerebbe prima comprendere come possa crescere qualcosa dove non ci sia acqua, senza pensare al deserto. Bisognerebbe immaginare un cuore proteso al bene di un’altra persona, e giorni e mesi ed anni di intenso pensare e cure a non finire, e attenzioni di ogni sorta, e l’anticipazione degli stessi desideri, e il soccorso nella necessità, e la rinuncia anche alle proprie risorse primarie, per fare stare bene l’altra persona. Bisognerebbe immaginare il silenzio accorto e vigile, l’interpretazione delle parole per la difesa dai fraintendimenti, e gli sforzi eroici per dissipare ombre e dubbi, incomprensioni e false presupposizioni negli altri. Bisognerebbe immaginare l’impossibilità di sognare ad occhi aperti, di comunicare anche il più ingenuo sogno di viaggi e scoperte, di ridere senza una ragione, di sorridere senza che sia chiaro cosa generi il sorriso, di parlare con altre persone senza aver annunciato prima l’intenzione di farlo, di fare cose che magari siano nate da circostanze impreviste senza aver ricevuto il permesso di farlo, di coltivare rapporti con altre persone da cui possa nascere familiarità e amicizia spontanea e sincera, di frequentare altre donne anche solo per ragioni dettate dalla necessità, di rispondere alle richieste occasionali delle persone vicine in ore in cui nient’altro preme. Bisognerebbe immaginare di avere nel cuore piccole cose da dire e di non poterle dire. Bisognerebbe immaginare di amare proprio quella persona e nessun altro al mondo allo stesso modo e con la stessa intensità e passione, con cuore puro e sincero, senza remore e infingimenti. Bisognerebbe avere nel cassetto il sogno antico dell’amore che dura e che rappresenta l’ultima possibilità concessa a se stessi, ma ritrovarsi a vivere come il primo giorno, come se ancora dovesse essere dimostrato che questo sentire è autentico, come se non fosse mai chiaro che ciò che già dura da tempo immemorabile sicuramente durerà ancora. Bisognerebbe immaginare questa sete e prudenza e capacità di conciliare e superare e ricominciare e ogni volta tentare le vie inesplorate del cuore e non trovarne altre. Bisognerebbe trovarsi davanti al portone chiuso, sulla nuda soglia dimora di prima. Dopo aver creduto e immaginato che dall’altra parte ci fosse lo stesso amore, magari anche più grande perché così esigente con noi. Bisognerebbe aver chiesto più e più volte scampoli di felicità, conforto al cuore innamorato, frasi gentili, risposte plausibili e assensi e appuntamenti rispettati. Bisognerebbe aver atteso a lungo e aver visto l’attesa cessare e la ricompensa arrivare non inattesa, perché così sembrava che andasse il mondo. Bisognerebbe aver ricevuto in sorte quello che tutti quelli che si ritrovano a parlare d’amore dicono che l’amore sia. Bisognerebbe sapere che al di là di incomprensioni ed errori e fraintendimenti ci sarà comunque un abbraccio che scioglierà il grumo che alimenta l’arsura e che procura il dolore della mente che recalcitra contro un destino incomprensibile. Bisognerebbe immaginare questo e altro ancora, per poter dire di sapere cosa sia il deserto degli affetti.

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CAMMINARSI DENTRO (167): Ragionare e ‘poetare’ (divinare) insieme sull’infinito possibile.

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3 gennaio 2011

Nessuna vicinanza, che sia […] emotiva, sessuale, ideologica, o che sia quella di tutta una vita condivisa, di una coesistenza domestica o professionale, potrà permetterci di decifrare senza alcuna incertezza i pensieri di un altro. […] Abbracciamo l’essere amato, teniamo tra le braccia il bambino adorato, l’amico più caro ci stringe la mano. Tuttavia, non abbiamo alcuna prova dei pensieri suscitati, registrati internamente in quel momento. Nell’unione erotica, la corrente del pensiero, di ciò che è intensamente immaginato, scorre molto spesso altrove. Internamente, facciamo l’amore con un altro. Dietro il sorriso adorante del bambino, dell’amico intimo, può esserci la verità della noia, dell’indifferenza o perfino della repulsione. – GEORGE STEINER, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero

Lo sguardo di Steiner, pietrificato dall’impenetrabilità dell’altro, non ci tragga in inganno! La tristezza a cui il grande studioso allude ci è nota. Non accettiamo i paradossi dell’esperienza, riducendo tutto a piatta trasparenza. L’opacità delle cose, connaturata alle cose stesse, è nostra nemica giurata. Si tratta di congiure ai nostri danni. Pretendiamo sincerità, veridicità, autenticità, coerenza, trasparenza, fedeltà, ma quand’anche le avessimo ottenute, cosa ci ritroveremmo in mano? Vladimir Jankélévitch risponderebbe: le presque-rien, quasi niente! Cos’altro può essere una ‘verità’ irrigidita e resa cadaverica nella fissità di un fatto, di ciò che è effettivamente accaduto e che servirebbe ad inchiodare l’altro alle sue responsabilità – come se non fossimo sempre radicalmente responsabili di tutto ciò che ‘ci succede’! -, dettaglio infinitesimo, particolare a volte infimo e insignificante, ma che assurge al rango di verità indiscussa e inconcussa per noi?

A cosa serve poi la verità accertata? A dimostrare definitivamente che siamo menzogneri, traditori, infedeli, bugiardi, infingardi, ecc. ecc. Come se ci fosse in circolazione qualcuno che va dicendo a tutti la verità! E una volta ‘dimostrato’ tutto ciò che precede, che ne sarà di noi? Dovremo dimetterci? Fare fagotto? Cambiare aria? Sotto tutte le latitudini di pensiero, la verità è risultato.

Una buona manutenzione degli affetti prevede che si mantenga una distanza anche grande all’occorrenza, per consentire all’altro di tradirci più comodamente, se così deve essere! L’amore può anche farsi battagliero – e lo è sempre: la battaglia per il riconoscimento di cui parla Karl Jaspers -, ma ci sono i momenti cruciali della vita in cui è doveroso perdere, lasciar correre, permettere alle cose di seguire il loro corso, perché più chiaro sia poi il nostro significato.

Certo, non sapremo mai cosa pensino gli altri nell’istante in cui ce lo chiediamo. Lacan ha negato anche che ci sia sessualità, cioè vero incontro.

C’è una cosa, però, che potremo impegnarci a fare, una cosa che una volta avviata non dovremmo più smettere di fare insieme: raccontarci la favola reciproca, perché dall’intreccio delle nostre narrazioni emerga un più umano sentire, un ‘semplice’ che sia finalmente lo sguardo pacificato sulle cose, perché la guerra delle passioni – comprese le inquietudini del pensiero – trovino una base su cui riposare e consistere in armonia. Ciò che ci manca, ciò che cerchiamo non è già dato: non sta da nessuna parte. E’ la ragione del nostro cuore che dà senso ai giorni. Alla fine di tutte le nostre ricerche, ciò che resta è la possibilità – tutta da valorizzare! – di stare nella stessa stanza a conversare insieme dell’infinito possibile.

Nel film Il club di Jane Austen – in cui cinque donne e un uomo si incontrano per discutere ogni mese uno dei romanzi della Austen – il personaggio femminile più disincantato rivela, nel corso di una conversazione lungo il mare con un uomo che aspira a ricongiungersi alla donna che ha abbandonato, che la Austen concede sempre all’uomo la possibilità di spiegarsi: si chiudono così tutti i suoi romanzi, con una chiarificazione che va oltre tutte le congiure e i tradimenti.

Una mia alunna scriveva in uno dei suoi temi – ancora ragazzetta del biennio delle superiori -: raggiungere e oltrepassare. Alludeva al fatto che non possiamo cadere nella malinconia del così fu. Se decidiamo noi che il passato sia irredimibile e che i torti che abbiamo subito sono imperdonabili, e imprescrittibili!, vincerà la tristezza del pensiero. Sempre!

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CAMMINARSI DENTRO (166): Il misterioso viaggio verso l’interno

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31 dicembre 2010 – 2 gennaio 2011

L’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé; ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé; a questo sono però necessarie l’azione e la sofferenza. – HUGO VON HOFMANNSTHAL, Il libro degli amici, ADELPHI 1980

Siamo stati abituati a pensarci come un oggetto difficile da raggiungere, dal momento che soggetto e oggetto coincidono in noi. L’introspezione è stata emarginata, dopo essere stata privata di ogni valore di verità. La psicoanalisi soprattutto ci ha convinti del fatto che scrutando nei meandri della nostra coscienza non veniamo a capo di nulla: attingiamo solo la superficie, senza toccare nessun nervo vitale. Come se il bersaglio dell’esame di per sé fosse un velo e basta, che non si lascia attraversare. Come se ciò che c’è di più essenziale ci fosse precluso. Un altro metodo e un altro sguardo sono stati rivendicati ogni volta per indicare l’accesso all’invisibile in noi. Le psicologie e le psicopatologie e le psicoterapie e le altre scienze della psiche hanno negato la realtà dell’anima, cioè dell’insondabile e dell’inaccessibile, riducendola tutt’al più ad inconscio, di cui non siamo proprietari: la chiave d’accesso ce l’avrebbero loro: psicologi, psicoterapeuti, neuroscienziati di tutte le scuole. Noi non c’entriamo nulla. Quello che noi siamo non ci riguarda. Non possiamo sapere. Al più, possiamo esprimere l’intuizione, l’impressione, la supposizione, e via congetturando. Jacques Lacan – interrogato sull’incoscio – pronunciò una delle sue sentenze memorabili: «L’inconscio non è di Lacan». Divertente e irritante.

 

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CAMMINARSI DENTRO (165): Il disordine del cuore

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31 dicembre 2010

Normalmente c’è disordine. Subbuglio. Guazzabuglio chiamò Manzoni il cuore stesso. Siamo di solito turbati, vivamente emozionati, contrariati, perfino sconvolti. Tutte le volte che ci sentiamo contraddetti o negati si oscura il cielo. Ci si dice che abbiamo il volto scuro, che ci siamo rabbuiati… Trascorriamo facilmente da un’emozione all’altra. Eugenio Borgna dice che le emozioni sono infinite di numero, perché sicuramente intende riferirsi alla gamma vastissima delle loro tonalità.

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CAMMINARSI DENTRO (164): Grundworte: sintesi, forma, libertà, responsabilità

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La vita è sintesi e forma. Occorre guadagnare una superiore visione delle cose che ci aiuti a intendere la vita stessa e ci aiuti ad inchinarci di fronte alle esistenze altre, per innalzarci fino ad esse ed assegnare loro un significato.

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CAMMINARSI DENTRO (163): Nei giorni di un addio

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Oggi è giorno di lutto. Ludovico, uno dei nostri ragazzi, se n’è andato tragicamente. Nel Centro di ascolto l’Educatore di riferimento per lui ero io, almeno fino a qualche mese fa, quando i colloqui si sono diradati fino a cessare del tutto.

Il dolore e il rammarico, il rimpianto e la riflessione si succedono e si accavallano nella mente e nel cuore. Il dolore è affiorato, però, attutito, dopo che questa mattina mi è arrivata la notizia al telefono. Forse perché mi ero già rassegnato al suo distacco da me, perché lo pensavo al sicuro, nella sua casa e con la sua donna, con il suo lavoro e con i suoi affetti. Forse non è ancora il momento del dolore. Domani lo vedrò, dopo l’autopsia, per l’ultimo saluto. Allora, mi renderò conto dell’irreparabile.

L’ultima volta che l’ho sentito è stato prima di Natale. Mi ha telefonato per darmi gli auguri e per scusarsi per non essere venuto più a colloquio. Il lavoro lo avrebbe trattenuto. C’era stato il pranzo con le famiglie dell’Associazione. Abbiamo parlato della sua assenza. Gli ho suggerito che non era venuto per la sua timidezza, perché non si sarebbe sentito a suo agio con gli altri ragazzi. Oggi capisco perché non sia venuto. La sua voce gentile, con le caratteristiche inflessioni della sua terra, risuona ancora dentro di me.

Il cuore si fa ancora campo del dolore. Deve fare posto ad un’altra croce. Un altro nome da custodire.

Ora inizia il lavoro della memoria. Abbiamo iniziato già a discriminare tra ciò che si può dire e ciò che è meglio tacere. Tra due ore ci sarà l’incontro settimanale con le famiglie. Parleremo di lui. Ci diremo quello che poi nessuno saprà mai. Ci racconteremo quello che sappiamo di lui. Cercheremo di darci ragione di questa perdita. Saremo anche severi con noi stessi. Come ho sempre fatto quando ero insegnante, attribuirò questa sconfitta anche a me. Dirò che c’era almeno un’altra cosa che poteva essere fatta. Contenderò alla Morte il campo, cercando di strappare ad essa le sue ragioni. Parlerò del suo cuore tenero e della sua ostinata sicurezza. Degli aiuti che sono mancati. Della misericordia di cui abbiamo bisogno per continuare.

Tacerò di tutto il resto. Solo a chi saprà parlarne un giorno ne parlerò.

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IMPARARE A LEGGERE (10): La pratica letteraria

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AUGUSTO CAVADI, Quando sta male chi è sano di mente. Introduzione alla consulenza filosofica (Rubettino, Soveria Mannelli, 2003). Il titolo del saggio introduce bene all’idea della Consulenza filosofica o delle Pratiche filosofiche.
Ad esse si dedicano oggi filosofi accademici e insegnanti di liceo, ma anche i cosiddetti ‘cultori’ della disciplina non abilitati all’insegnamento, che possono esercitare la nuova professione del Consulente filosofico, dopo aver seguito Corsi tenuti dalle Scuole che sono nate e che godono di riconoscimenti ufficiali ormai.
Umberto Galimberti
ha il merito di averne fondato una per primo in Italia. Si tratta di PHRONESIS – Associazione italiana per la consulenza filosofica. Dalla nascita dell’Associazione ho osservato le sue attività e le sue pubblicazioni. Gli incontri tenuti lontano dalla mia città e la mancanza di tempo materiale per seguire il Corso di formazione mi hanno impedito di conseguire il titolo rilasciato dalla Scuola e di accedere all’Albo dei Consulenti.
Pur non potendo esercitare ufficialmente la professione del Counselor, devo dire che ogni insegnante, non solo quello di Filosofia, ogni Educatore, ogni adulto consapevole di fatto è Counselor. E lo diventa tutte le volte che si accosti all’Ombra, cioè alle manifestazione basse, negative, problematiche dell’esistenza altrui, per recare conforto, ma soprattutto per indicare vie da seguire.

La data del 2007 è importante: coincide con la pubblicazione presso la Casa editrice Apogeo, nella Collana Pratiche filosofiche, dell’opera di MARIA TERESA CASSINI e ALESSANDRO CASTELLARI, La pratica letteraria. Interrogarsi attraverso la lettura su se stessi e il mondo.

(Intervista ad Alessandro Castellari):

Per il download: Foschi-Castellari_2145.flv

Parlato:

 


INTRODUZIONE, pag.IX :

Questo libro è nato dal desiderio di percorrere il senso di due domande che Umberto Galimberti ci pose in un articolo apparso su Repubblica nel dicembre 2004 all’uscita di La consulenza filosofica di Gerard B. Achenbach, uno dei volumi che hanno inaugurato questa collana: «Le nostre sofferenze psichiche, i nostri disagi esistenziali dipendono sempre da conflitti interni, da traumi remoti, da coazioni a ripetere esperienze antiche e in noi consolidate come vuole la psicoanalisi, o qualche volta, e magari il più delle volte, dipendono dalla nostra visione del mondo troppo angusta, troppo sclerotizzata, troppo irriflessa per consentirci da un lato di comprendere il mondo in cui viviamo e dall’altro per reperire un senso per la nostra esistenza e quindi delle buone ragioni per vivere in accordo con noi stessi? Se questa seconda ipotesi è vera, perché non prendere in considerazione una ‘terapia delle idee’?»

Angustia della mente, apatia dei sensi, aridità del cuore. Se queste spesso sono le ragioni delle nostre sofferenze e dei nostri disagi, le gabbie in cui ci dibattiamo o in cui ci ottundiamo, una efficace “terapia delle idee” è offerta anche da quella che, per analogia con la pratica filosofica di Achenbach, si può chiamare la pratica letteraria.

Al pari di quella filosofica, la pratica letteraria modifica la sfera del conoscere e del sentire, espande la comprensione della realtà, rende il pensiero più flessibile, più duttile, più problematico.

Come la filosofia, la letteratura, anche se con procedure discorsive completamente diverse, suggerisce e propone percorsi di senso, favorendo esperienze conoscitive profonde e offrendo al pensiero nuovi orizzonti.

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I percorsi che intendo proporre non sono altro che connessioni trovate da me, legami tra le cose, significati ai quali ho avuto accesso. La domanda di senso che contraddistingue il nostro tempo va prendendo i colori scuri della malinconia e della depressione. Sarà opportuno distinguere – come ho sempre fatto con i miei alunni – l’accidia dalla malinconia e dalla depressione. I tre piani di realtà a cui quelle tre ‘categorie’ corrispondono non andranno confusi. Operare distinzioni è già una mossa della ragione, un esempio di quella terapia delle idee che ognuno di noi può esercitare con l’aiuto della Letteratura e della Filosofia, come della Musica e delle altre attività spirituali dell’uomo che valgano a raggiungere la sensibilità degli altri, per entrare in contatto con essa, per avere scambi emotivi e costruire con gli altri percorsi di senso che portino lontano dal dolore e dall’insensatezza del mondo.

La lettura vale per noi come esercizio spirituale da praticare anche sui testi letterari, che ho sempre considerato strumento di conoscenza della realtà.

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CAMMINARSI DENTRO (162): Arredare la provincia dell’uomo (3): le figure della lontananza

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Una ‘scienza dell’anima’ è possibile, a condizione che si faccia sguardo fenomenologico sulla mancanza, sull’assenza, sulla lontananza, sulla perdita, in una parola sull’invisibile.

Alla lontananza Antonio Prete ha dedicato addirittura un trattato. Ambiziosamente definito dal suo autore anche come una critica della ragione telematica – «Oggi la lontananza non è lontana. E’ prossima, transitabile, domestica. E’, infatti, nelle case, sul monitor dei computer, sul display dei cellulari. Perché la tecnica del nostro tempo è la tecnica del lontano: l’antico avverbio greco telē (lontano) va a comporre gli elementi e gli strumenti della tecnica contemporanea. Tutto quel che è lontano (isole, deserti, avvenimenti, costumi) viene verso di noi, si fa superficie, schermo, suono» -, il Trattato della lontananza, (indice) edito da Bollati Boringhieri nel 2008, riafferma il compito del linguaggio «di non ridurre lo spessore della lontananza, la ricchezza delle sue varianti, la profondità del suo tempo e del suo spazio. La letteratura, la narrazione, la poesia, le arti contribuiscono a tenere aperto lo spazio della lontananza. Perché rappresentano la lontananza come lontananza, ed esigono la collaborazione immaginativa e meditativa del lettore, dello spettatore

E’ questo spazio che qui è interrogato nelle sue figure: l’addio, sulla cui soglia è già presente la lontananza, la poetica dell’orizzonte, le rappresentazioni del cielo, le forme della nostalgia e dell’esilio, le domande dell’arte su come dipingere la lontananza, la cartografia fantastica, il vedere da lontano, il suono della lontananza, l’amore di terra lontana, infine, il viaggio, in compagnia dei poeti, nel mondo sotterraneo delle ombre. [dal risvolto di copertina]

A tutte queste figure occorre dedicare studio e tempo, per la riflessione e per la verifica costante nell’esperienza propria e altrui.

[Il giorno 27 dicembre 2008, nella sala “Celestino Contaldo” del Palazzo della Cultura “Zeffirino Rizzelli” a Galatina, su invito del 1° Circolo Didattico e dell’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, Antonio Prete ha presentato il suo Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri 2008. Il testo che segue è stato raccolto da Gianluca Virgilio]

LA POESIA DELLA LONTANANZA

La parola lontananza mi ha sempre colpito, insieme con altre parole della nostra lingua che hanno la terminazione in –anza: per esempio, ricordanza. Ho messo in rapporto lontananza con ricordanza, giacché molti anni fa me ne sono occupato a proposito di Leopardi. Mi sono accorto allora che la parola lontananza, come ricordanza, dice un movimento. 
Dire ricordanza è diverso che dire ricordo. Il ricordo è ciò che prende forma e si presenta quasi come solidificato, definito. I francesi dicono souvenir. Noi stessi diciamo “ti ho portato un souvenir”, cioè ho reso oggetto un ricordo. Ma ricordanza indica invece il ricordo nel suo movimento verso il farsi forma, presenza. Leopardi dà molto rilievo alla ricordanza e scrive un noto testo poetico Le ricordanze, dandone questa definizione nello Zibaldone: “Non la rappresentazione di una cosa, ma il riflesso, la ripetizione, la ripercussione di un’immagine antica”, cioè qualcosa che dall’antico torna nel presente.

La ricordanza per Leopardi è qualcosa che si muove, che esce dalla prigione dell’oblio, dal chiuso della dimenticanza, e torna a pulsare, a prendere vita: “Silvia, rimembri ancora…”. Silvia torna a prendere presenza, lei che non c’è più ritorna a vivere, a pulsare, ridiventa figura, ma non è vita nel senso comune, è un’altra vita, la vita della poesia, Silvia entra nel tempo della poesia. La poesia riesce ad annullare l’irreversibilità del tempo – questa è una caratteristica del tempo riconosciuta da tante filosofie e anche dalla fisica quantistica contemporanea; la tecnica è tanto avanti, ma la macchina del tempo non è stata ancora inventata -, a bucarla, a cancellarla, perché il tempo irreversibile torna nella lingua, assumendo la figura del ritmo della poesia, immagine, Leopardi diceva parvenza.

Analogamente, lontano indica qualcosa che non è presente, è assente, e che sta lì, fuori del nostro orizzonte, mentre il termine lontananza indica un movimento del lontano verso la figura, la forma, ciò che non c’era, che non appariva, che non esisteva alla vista, e che appare, prende forma, si fa presente: questa è la lontananza. Una linea di confine, un orizzonte che man mano per me diventa una figura di presenza. La letteratura, la poesia, le arti figurative danno a questo movimento tutto il loro tempo e spazio, ecco perché il lettore che legge un libro in cui si parla di terre lontane vive con la sua immaginazione in queste terre lontane. Oggi accade che la lontananza, che è così presente attraverso la tecnica, rischia di essere frantumata, dispersa, non percepita, non attraversata, viene dissipato lo spazio-tempo della lontananza. Noi viviamo nella tecnica della lontananza: l’avverbio greco tele vuol dire lontano e va a definire tutti gli strumenti, tutte le tecniche contemporanee che ci avvolgono: la telematica, il telefono, la televisione, le telecomunicazioni. Siamo in un universo della rappresentazione del lontano, perché la tecnica porta nelle nostre case, davanti ai nostri occhi il lontano. Dobbiamo chiederci se questo lontano riesca davvero a tenere aperto il tempo e lo spazio della lontananza. Se voi scorrete un dizionario della lingua greca trovate moltissime parole composte con l’avverbio tele. Le connotazioni di queste parole sono assai varie. Tele va a definire dei gesti, delle situazioni, popolazioni, suggerisce un movimento dell’immaginazione. I greci parlavano di ciò che appare, si mostra da lontano, risuona da lontano, ciò che attraversa luoghi lontani, ciò che porta qualcosa lontano, ecc. Oggi tele accompagna la tecnica, che potrebbe dare respiro allo spazio e al tempo della lontananza. Ciò può accadere se la tecnica guarda alle arti.

Nel mio Trattato della lontananza c’è un capitolo, Come dipingere la lontananza, che riguarda proprio il modo in cui è stata rappresentata la lontananza nella pittura, da Leonardo da Vinci fino alla pittura del Novecento. Il problema è che la tecnica del nostro tempo mira alla rapidità, cioè non si dispiega come tempo e come spazio, ma mira al consumo rapido, sicché presenta un’immagine e subito dopo un’altra immagine che cancella o opacizza la prima e così via. Non si tratta di opporre l’arte della lontananza alla tecnica della lontananza, dicendo che la prima è positiva e l’altra no, si tratta di invitare tutti gli operatori della tecnica della lontananza, delle telecomunicazioni, a studiare la storia dell’arte, della letteratura e della poesia per prenderne dei suggerimenti su come rendere la lontananza vivibile, attraversabile, transitabile, e non consumabile.

Vorrei dire qualcosa su qualcuna delle figure della lontananza.

Innanzitutto, l’addio. Mi sono accorto che questa era una figura su cui mi fermavo di più. L’addio è il luogo in cui la lontananza si presenta come ombra, come minaccia, la lontananza non c’è nell’addio, siamo lì a salutarci, siamo lì a dire addio, siamo sulla soglia di una partenza, c’è la presenza dell’altro, del paesaggio che conosciamo, eppure c’è già insinuata la lontananza come ombra, come minaccia, come possibilità, la lontananza di sé dalla persona e dal luogo da cui si parte. Tant’è che negli addii noi cerchiamo di eliminare la distanza, lo spazio, con l’abbraccio, il bacio, che sono figure della corporeità tendenti ad esorcizzare la lontananza, come dire: qui tra me e te non entra la distanza, lo spazio, e quindi c’è un’affermazione della vicinanza, proprio perché si sente la minaccia della lontananza. Mentre scrivevo il Trattato della lontananza, mi accorgevo che, intorno a queste figure, c’erano delle implicazioni mie personali, affettive; qui ci sono i miei fratelli, i miei nipoti che conoscono le mie tante partenze… e i ritorni. Nessuna partenza è uguale ad un’altra. Non è possibile replicare la stessa partenza.

Un’altra figura della lontana è l’orizzonte. Il luogo dove il visibile e l’invisibile si uniscono, la terra e il cielo si uniscono, l’orizzonte è il celeste, poi l’estremo confine, infine l’ultimo orizzonte, diceva Leopardi, l’estremo punto dove arriva la vista. Ma ogni orizzonte comporta anche l’oltre, l’orizzonte è il richiamo di ciò che sta oltre. L’orizzonte non è mai prossimo a noi, è ciò che è sempre lontano, tiene aperta la sua lontananza, perché non può mai essere vicino a noi, noi andiamo verso l’orizzonte e l’orizzonte si allontana. Studiare le rappresentazioni dell’orizzonte nella letteratura significa attraversare il pensiero del confine, del limite, del rapporto tra visibile e invisibile, tra il qui e l’oltre, ecc. In questo attraversamento soccorrono i poeti e gli scrittori.

Nel Trattato della lontananza ho scritto della pittura. Come dipingere la lontananza è il problema che ha posto Leonardo da Vinci, in maniera molto assidua. Se voi leggete il Trattato della Pittura, che sono i frammenti didattici che hanno raccolto gli allievi di Leonardo, vi accorgete dell’ossessione che Leonardo aveva per questo problema: come dipingere la lontananza. Leonardo si stacca da tutta la tradizione pittorica precedente, anche dai fiorentini come Botticelli, perché dà alla lontananza una presenza. La lontananza non è più lo sfondo, il paesaggio di sfondo, essa è il soggetto della pittura. Ciò che è lontano è presente quanto ciò che è in primo piano. Lo studio della lontananza in Leonardo è sorprendente: tutte le osservazioni, come dipingere le montagne, quando c’è la nebbia, all’alba, al tramonto, quando l’orizzonte si arrossa tra le nuvole, le montagne più alte, quelle più basse, i castelli, gli edifici in rapporto alle montagne, i fiumi osservati da lontano, e così via, osservazioni minuziose e preziosissime, testimoniano che dipingere la lontananza è la grande questione del pittore. Dare alla lontananza vita, vibrazione, tensione. Ho cercato di seguire questo svolgimento del lontano nella pittura dei secoli dopo Leonardo, fino al Novecento, dagli impressionisti, da Turner fino a Monet, a Magritte, Matisse, De Chirico, ecc.

La lontananza non è solo lontananza nello spazio, ma anche lontananza nel tempo. Siamo lontani da un tempo che abbiamo vissuto. Uno dei capitoli del Trattato è dedicato alla nostalgia e all’esilio, proprio perché la nostalgia è lo spazio-tempo di questa distanza da qualcosa che abbiamo vissuto e non possiamo più rivivere. Di nostalgia, come diceva il filosofo Kant nella sua Antropologia del 1798, non si può guarire. A noi sembra di avere nostalgia di un luogo, di un paese in cui siamo stati e in cui abbiamo vissuto, in realtà abbiamo nostalgia del tempo vissuto in quel paese, e quando torniamo in quel paese il tempo, quel tempo non c’è più, perché noi non siamo più quelli di un tempo, siamo cambiati. Noi siamo cambiati come è cambiato quel luogo. Ecco perché è importante che la nostalgia si affidi alla narrazione, al racconto, ecco perché del nòstos si può dare narrazione per evitare la chiusura nella patologia della nostalgia. E così è importante che si racconti la lontananza. L’esiliato, per esempio, è colui che attraverso il linguaggio, la lettera, la scrittura, il racconto ecc. riesce a sopportare la sua condizione di distanza da un  tempo-spazio nel quale non potrà forse mai tornare.

Ho chiuso il Trattato con la figura della lontananza estrema, la morte, la lontananza delle ombre, la terra ombrosa, le ombre dell’aldilà, la lontananza raccontata da Omero nell’Odissea, libro XI, e poi ripresa da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, quando Enea va a trovare l’ombra di Anchise. Da questa lontananza estrema è possibile guardare la vita. Pensate a Leopardi, che nel coro dei morti – bellissima poesia, andrebbe posta tra i Canti – dell’operetta morale intitolata Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Nell’anno matematico le mummie si risvegliano nel gabinetto scientifico di Federico Ruysch e cantano un loro coro, un coro messo in musica dal grande musicista Petrassi. Questi morti parlano della vita osservata dal loro punto di vista, da uno stato d’ombra in cui la vita diventa “quel punto acerbo che di vita ebbe nome”. Questo punto di osservazione lontano Leopardi lo ricerca sempre, cerca un punto di lontananza estremo da cui osservare se stesso e il mondo: pensate alla Ginestra, lo sguardo che vaga in quei nodi di stelle. Lo sguardo vede la storia dell’uomo nella sua finitezza, nella sua vanità, nella sua pretesa, da questa lontananza estrema la Terra appare un granello di sabbia. Questa dislocazione dello sguardo in un luogo di lontananza estrema è un punto di vista filosofico, è un modo per conoscere l’esistenza, per leggere il mondo e la vita e le sue pieghe, non nelle sue implicazioni prossime, ma attraverso un distanziamento il più possibile estremo. Da tutto questo nasce la poesia della lontananza.

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CAMMINARSI DENTRO (160): Arredare la provincia dell’uomo (1): è il soggetto amoroso che parla

CAMMINARSI DENTRO (161): Arredare la provincia dell’uomo (2): il sogno di una cicogna

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Re-inventare l’età matura

Presentazione delle Relatrici Susanna e Lucia




Presentazione delle Relatrici Susanna e Lucia – Presentation Transcript

  1. Re-inventare l’età matura Testo 1
  2. Re-inventare l’età matura Testo 1
  3. Ricerca attorno alla seconda età adulta delle donne che negli anni Sessanta e Settanta uscirono dal bozzolo
  4. Comʼè cominciata? Nel 2008 un gruppo di collaboratrici scientifiche della Libera Università dellʼAutobiografia di Anghiari si sono interrogate sul loro presente e su come oggi le donne si stanno re-inventando la loro seconda età adulta. Da qui lʼidea di una ricerca a livello nazionale che utilizzasse le metodologia autobiografica Nel 2009 è messo a punto il disegno di ricerca, nel 2010 si svolgono i laboratori e il lavoro di analisi
  5. lavoro nazionale Beatrice Carmellini Gr uppo di Ada Ascari Anna Cappelletti Carmen Ferrari Luisa Fressoia Carlotta De Filippo Francesca De Laurentis Adriana Barbolini Gianna Niccolai Leonora Cupane Coo Mariagrazia Comunale rdin ame Claudia Carabini nto Cristina Zaremba Susanna Ronconi Responsabile scientifica Lucia Portis Barbara Mapelli
  6. Il gruppo al lavoro… Seminari per: La condivisione del “senso”e degli obiettivi obiettivi La costruzione del disegno di ricerca La messa a punto metodologica La produzione di un manuale per la gestione di laboratori
  7. I laboratori 11 laboratori a Torino Roma Arezzo Modena Sesto Fiorentino Arco di Trento Napoli Palermo Foligno Milano
  8. Le donne, le scritture Le partecipanti: 125 Roma 12, Napoli 9, Arco di Trento 14, Modena 15, Arezzo 13, Sesto Fiorentino 8, Foligno 13, Milano 10, Torino 23 (9+14), Palermo 8 Testi autobiografici scritti: 8-900 Testi trascritti (discussioni di gruppo): 70-80
  9. Le finalità della ricerca
  10. Una finalità euristica Conoscere come vivono la loro seconda età adulta le donne che in gioventù – secondo esperienze diverse, individuali e/o collettive – hanno messo in discussione gli schemi dei ruoli femminili per come allora erano socialmente dominanti
  11. Una finalità ermeneutica Produrre contesti per lʼauto-riflessione delle donne protagoniste, capaci di ri-significare le realtà oggetto della narrazione
  12. Una finalità ermeneutica Produrre contesti per lʼauto-riflessione delle donne protagoniste, capaci di ri-significare le realtà oggetto della narrazione
  13. Gli obiettivi
  14. Un obiettivo di conoscenza: Ricostruire autobiograficamente il passaggio alla seconda età adulta
  15. Un obiettivo di autoformazione: Facilitare consapevolezza e conoscenza di sé
  16. Un obiettivo educativo ed etico: Indagare, descrivere e assumere criticamente una esplicita responsabilità generazionale nei confronti delle altre donne
  17. Le partecipanti Le donne incluse hanno una data di nascita compresa fra il 1940 e il1957 e provengono da background differenti, sono accomunate dallʼaver vissuto i cambiamenti degli anni 60/70 ed avere la consapevolezza del mutamento individuale e sociale vissuto .
  18. Il metodo Una con-ricerca: perché le protagoniste narrano la loro storia e al contempo scambiano significazione e interpretazione Autobiografica: perché utilizza la scrittura di sé e lo scambio narrativo suggeriti dal metodo autobiografico, che coniuga connessione passato- presente, autoriflessione, autoapprendimento, cura di sé
  19. Temi apicali affrontati nei laboratori: uscire dal bozzolo il corpo lʼamore la maternità il lavoro la vita pubblica la cura le altre donne le orme
  20. Il laboratorio autobiografico Scrittura autobiografica (momento individuale) (sollecitazioni) Lettura e scambio narrativo in gruppo Confronto, scambio, significazione collettiva
  21. Scritture “del transito” Scrittura, medium autoriflessivo La memoria del passato Lʼautoriflessività del presente Lʼapprendimento verso il futuro
  22. Una ricerca per sé, una ricerca per le altre Restituzioni Ad ognuna, in gruppo (un “coro greco”) Al gruppo, dalle facilitatrici Alle altre donne a livello locale e nazionale
  23. L’analisi I testi autobiografici individuali e i testi derivanti dai percorsi di significazione e elaborazione interni ai laboratori sono le fonti di unʼanalisi tesa a individuare salienze e elaborare cornici concettuali finalizzate a raccontare, comprendere, e interpretare il vissuto della seconda età adulta. La restituzione una pubblicazione e un seminario nazionale ma..
  24. Il futuro La ricerca apre nuove prospettive…
  25. testi che generano… …altri testi un giacimento di storie: altre narrazioni e altri linguaggi (video, rappresentazioni teatrale, etc, etc…)
  26. Testi che generano… …nuove relazioni tra donne. approfondire, rilanciare, valorizzare, incontrare altre donne e altre situazioni
  27. Pubblicizzazione dell’inizativa e della pubblicazione a livello nazionale
  28. Valorizzazione del percorso nellʼambito del progetto UE-Grundvig “GET – Gender issues in Europe Today (Breaking stereotypes,creating new learning approaches) sugli stereotipi di genere.
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