ROBERTO SAVIANO e gli studenti – Confronto aperto

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ROBERTO SAVIANO, Lettera ai ragazzi del movimento (la Repubblica, 16 dicembre 2010)


IL CASO – Saviano e gli studenti, dialogo in diretta. “Basta violenza, noi siamo altro” (la Repubblica, 17 dicembre 2010)

Link alla pagina di Repubblica TV

MICROMEGA – Discussione sulla violenza di piazza e di regime (14 dicembre 2010)

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CAMMINARSI DENTRO (161): Arredare la provincia dell’uomo (2): il sogno di una cicogna

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10 dicembre 2010

 

 

A Karen Blixen va il merito di aver raccontato di sé nella maniera più significativa per noi, consegnando all’altro il compito di farlo. Dopo di lei, non possiamo fare a meno di desiderare per noi la stessa cosa. E nello stesso tempo dobbiamo raccogliere la lezione che ne deriva. Il nostro compito è suggerito dall’altra metà della ‘storia’: il nostro sguardo si farà voce narrante; saremo noi a raccontare la storia di coloro che amiamo.

In apertura del suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti (recensione), Adriana Cavarero riferisce la ‘vicenda’ della scrittrice danese:

Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da uno strano rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna.

“Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, e altri vedranno una cicogna?” [Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli 1996, p.200], si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?

La stessa filosofa avverte che la nostra domanda di senso, la richiesta di un significato da dare alla propria esistenza, all’interno della relazione amorosa, nasce dal desiderio: la vita avanza sotto la spinta del desiderio. Tuttavia, non è detto che riusciremo a dare un senso alla nostra vita. Non resta che continuare a desiderare che lo sguardo dell’altro sappia posarsi su di noi, facendosi nel tempo la voce narrante che noi non possiamo essere per noi stessi.

Se consideriamo le cose dalla nostra parte, relativamente al compito che l’altro assegna a noi, troveremo un secondo significato da dare all’espressione arredare la provincia dell’uomo. Le regioni inferiori dell’essere da noi abitate, lo ‘spazio della vita’ (Lebenswelt) in cui siamo immersi e che ci definisce da ogni lato, costituiscono l’ideale ‘provincia’ dell’impero abitato dagli umani, ritaglio esistenziale spazio-temporale in cui si gioca e si consuma il personale modo di consistere di ognuno.

Solo uno sguardo di seconda vista riuscirà a fare storia di un’esistenza; solo lo sguardo amorevole di chi sa si inchinerà sull’altro per raccogliere giorno dopo giorno i frammenti di senso, salvando l’istante intenzionale che lampeggia attraverso il corpo, la coscienza, la continuazione di sé.

Istituire file di continuità là dove c’è solo accidente, effimero concedersi delle cose, stupefatto intervallo, pausa interdetta e timore.

Prendersi cura dell’altro non è soltanto sovvenire alle sue necessità, ai bisogni, alle mancanze, per riempire il vuoto di un’esistenza che non sa trovare in sé il senso del proprio umano ek-sistere. Se l’amore ha la proprietà morale di farsi compimento di narrazioni interrotte, è questo il senso dell’arredare la spazio dell’ek-stasis mondana: trascendere il mero dato sensibile, per attingere senso e poter finalmente respirare piano la felicità è possibile a condizione che l’esistenza che si affida a noi possa contare su uno sguardo – il nostro – che non verrà mai meno, perché impegnato a tessere quelle file di continuità che sono già la trama del racconto che verrà.

La ‘provincia’ che dovremo visitare con lo sguardo amoroso è da custodire nel proprio cuore, perché in ogni istante della propria vita la persona da noi amata senta la presenza in noi delle sue ragioni: forniremo periodicamente prova della nostra capacità di ‘narrare’, mostrando frammenti della memoria dell’altro da noi costruita.

Si è sempre in quattro in ogni relazione duale: noi, l’altro, l’immagine che l’altro si è fatta di noi, l’immagine che noi custodiamo dell’altro. Ciò che qui chiamiamo immagine non è semplicemente ‘figura del cuore’, allegoria vivente del fuoco della passione o metonimico slittare del senso alla maniera del piacere che progressivamente procede da una figura all’altra. Si potrebbe dire che ogni vero amore è questo costrutto dell’altro che ci portiamo dentro per decenni e che siamo impegnati a rifinire e a modellare per farne finalmente narrazione.

Ma che cosa avremo da narrare? quale cicogna disegneremo lungo lo spazio che ci si para dinanzi, autentica terra incognita per noi? Io credo che servirà al racconto possedere la figura che salva, essere noi stessi quella figura, incarnare continuità e compimento, senza rinunciare alla parola liminare sulla vita che se ne va a poco a poco. L’arte che dobbiamo esprimere è tutta qui: la parola ingaggerà la sua guerra con la Morte, per affermarsi fino in fondo su di essa. Dovremo credere che quanto è oggetto del nostro credere sia destinato a durare: la bellezza che non cessiamo di esaltare dovrà essere continuamente riguardata come bene destinato a durare per sempre. Riuscire in questo compito è compito dell’amore.

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Si raccomanda la lettura dei seguenti interventi di Adriana Cavarero:
(dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche della RAI – Il Grillo, 17 febbraio 1998): Il racconto dell’identità e
(dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche della RAIQuestioni di filosofia, 22 febbraio 1998): L’identità

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ANTONIO GNOLI intervista Adriana Cavarero a Tuttoingioco, 6 settembre 2009:

 

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CAMMINARSI DENTRO (160): Arredare la provincia dell’uomo (1): è il soggetto amoroso che parla

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Quando si tratta di dire cosa sia più giusto e corretto in materia d’amore, siamo pronti a dire che conta amare, non essere amati; conta aver amato, non essere stati amati; amare, non l’amore; prendersi cura dell’altro, non provare ‘semplicemente’ un sentimento; ‘patire’ la relazione, non sentirsi soltanto soggetto amoroso; essere in relazione, non ingaggiare improbabili lotte per il primato… Come se tutto questo fosse ‘semplice’! Sembra che sia tutto chiaro, che non ci resti altro da fare se non agire, patire, sentire, rispettare la realtà dell’altro…

Quante volte, poi, ci siamo lasciati pietrificare da una risposta inattesa, che ha fermato il tempo, complicando terribilmente ogni cosa! Non ci sono dubbi: eravamo in un momento particolare – e lo abbiamo proclamato a chiare lettere! – in cui una sola risposta chiedevamo, un po’ di attenzione e di riguardo, magari una concessione alle nostre debolezze, una tregua, una complicità… Cose tutte che non sono venute e che hanno reso problematico un rapporto che fino a poco fa non lo era!

Pretendiamo simmetria. Giustizia! Che ci venga restituito almeno in parte – non in piccole dosi! – quanto pure abbiamo dato. Misuriamo in giorni, mesi ed anni l’entità del dono: abbiamo dato tanto! perché ora non riceviamo una piccola risposta che valga a calmare l’ansia e a lenire il dolore della mente? L’insistente domandare ha mai dato frutti? Raramente, temo!

Più conveniente alla nostra condizione appare un ‘prendersi cura’ che non sia solo dichiarato, che non si fermi alla disposizione e basta, alle buone intenzioni che non fanno storia. Dobbiamo congedarci dall’etica delle intenzioni, per quanto doloroso sia. La serietà delle intenzioni – come ha chiamato una sezione del suo Trattato delle virtù Vladimir Jankélélevitch – non sembra più di moda (eppure, ha un suo inequivocabile fondamento nella vita della coscienza!): mezzo secolo fa poteva andar bene ancora. Si dava credito al corteggiatore che con il tempo avesse dato buona prova di sé. Ogni errore ed inciampo – i piccoli ‘tradimenti’, la sconfessione di sé… – veniva sempre ricondotto ad una natura che si era rivelata buona e che non poteva essere irrimediabilmente contraddetta e negata da questo o quell’accadimento.

Oggi è come se ogni equivoco ed errore si facesse subito imperdonabile, rendendo irredimibile il tempo della coscienza, imprescrittibile la ‘colpa’. E’ molto difficile perdonare. Pretendiamo assoluta sincerità, per non dover revocare in dubbio la veridicità delle parole fino a negare autenticità alla persona.

Eppure, basterebbe praticare la trasparenza della coscienza, combattendo in sé ogni forma di vischiosità della coscienza stessa! Le condotte di malafede – la falsa coscienza – generano disordine morale, sospetto, disincanto.

Che ne sarà della creatura, se non ci inchiniamo fino a raggiungere e toccare la sua umana fragilità, contemplando le debolezze e le viltà nel numero delle cose ‘da perdonare’? Può un amore sopravvivere al rifiuto di contemplare l’errore e l’equivoco in cui probabilmente cadremo? Quanto durerà una relazione sentimentale in cui sarà annullata la distanza e in cui non c’è spazio per il Segreto? Che cosa finalmente ci ritroveremo ad amare, se ciò che cade sotto il nostro sguardo non è mai un ‘semplice’? Negare l’Ombra – in sé e nell’altro – può portare lontano?

C’è da contemplare la vita che si erge fiera davanti a noi, per amarla così com’è. John Donne ha scritto: tu così viva che pensarti basta a fare veri i sogni e le favole storia. Tu così viva, non tu così vera… Ma quello che inseguiamo è forse sempre proprio la verità. Anche dell’amore che tanto chiediamo vogliamo che siamo vero, assoluto, unico, irripetibile in ogni suo gesto. Quello che non riusciamo ad ottenere da Dio pretendiamo che ci sia dato dagli umani.

Per molto tempo, lungo tutta l’età matura, mi sono chiesto come si possa amare una donna che si prostituisce, anzi, una prostituta vera e propria. Ad una sola condizione: che si riesca a tenere insieme il bene e il male, che si riconosca statuto di realtà alla luce e alla tenebra che sono mescolate in noi fino a confondersi spesso.

Prendersi cura dell’altro significa arredare una provincia dell’anima. La regione della realtà ‘occupata’ dall’altro con la sua esistenza è lo spazio esistenziale, il piano di realtà temporale dentro il quale soltanto si dà relazione. Astrarre dal tempo è operazione folle: significa negarsi la possibilità di fare storia, istituendo file di continuità in cui soltanto si mostra il ‘significato’ di una persona.

Arredare, abbellire, rendere spazio il tempo, fare spazio dentro di sé, accogliere, farsi mente ospitale, impegnarsi a raccontare all’altro la sua favola mondana. Riconoscere la realtà della sua anima. Fare anima. Coltivare lo spazio del racconto. Dare voce all’incanto.

E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo.

PAUL VALÉRY, Cattivi pensieri

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CAMMINARSI DENTRO (159): L’attesa è iniziata


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A questo punto della notte giova congedarsi dalle consuetudini del giorno e lasciare che intervenga il sonno a fare giustizia delle ore trascorse in silenzio. La quiete della notte sarà un’altra quiete, che passerà a spalmare sull’anima pensieri di pace. Gli affanni del giorno sono lontani.

Tutto sprofonda nell’oblio, a sera. Quando poi si fa notte, tacciono le voci che pure hanno fatto il frastuono dell’anima: le risonanze suscitate dalla voce argentina di Michele, stamattina; i taciti rimproveri e le pause assorte dell’amico lontano; una vana attesa, punteggiata da misteriose lettere e silenzio; i piaceri della tavola e il sonno ristoratore del pomeriggio; il lavoro alla scrivania; le uscite di casa e i rientri consueti…

Tutto ha congiurato a generare, come sempre, generica quotidianità. Nessun sussulto né stupore né scatto improvviso. Il giorno è stato lieto, interrotto solo da qualche ansito breve. Nient’altro ho avvertito. Non potevo chiedere certo soprassalti né un pianissimo per me. Un solo lungo silenzio, interrotto appena qua e là da qualche bisbiglio della vita intorno a me. Tutto è giunto attutito alle mie orecchie. Come se la vita si fosse concessa una tregua. Essere cullato solo dalla mia voce interiore e sapere che fuori non piove: è un giorno di riflessione che l’inverno ha concesso a noi.

Tornerà presto il vento a spazzare le strade e a scuotere le cime degli alberi sulla montagna. Le foglie morte non sembrano voler andare via. Tutti si affacciano a spiare il cielo, a lamentare il giorno di pioggia, l’insistenza della pioggia, come se l’inverno dovesse affrettarsi ad andare via! Che ostinazione in questo!

E’ tempo di frutti nuovi. La buona stagione se n’è andata trionfalmente, lasciando i migliori colori a testimoniare che la vita non se ne va mai del tutto. Guai a non godere del lungo strascico dei giorni! E’ la vita che saluta e si allontana un po’.

La primavera è lontana, ma so che verrà. Adesso voglio godermi il cipiglio e il burbero brontolare delle cose che non accennano a trovare un posto in cielo e in terra in cui consistere in pace. Ora è tempo di morire. Verrà poi il tempo di rinascere e di tornare a respirare lentamente la felicità. L’attesa è iniziata.

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CAMMINARSI DENTRO (158): Il fantasma della mia libertà


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Al culmine della mia esistenza, oltre la stessa età adulta, mi accade di osservare tutta la vita come segnata grandemente dalla forza e dall’influenza delle illusioni. Mi sembra di aver fatto la maggior parte delle cose importanti quasi da cieco, avendo come guida astratte chimere. Solo con il tempo, passando da una sconfessione all’altra da parte della realtà, ho imparato a riconoscere la speranza, distinguendola severamente dai fantasmi della mente.

La natura dell’illusione è tale che quando cadiamo preda di una chimera non ce ne rendiamo del tutto conto. Anzi, siamo portati a pensare che si tratti di andare dove ci porta il cuore, di ragioni del cuore che sono diverse dalle ragioni della ragione… Tra le ragioni del cuore e le ragioni della mente – o meglio, dell’intelletto, della ragione – siamo portati a credere che siano da preferire le ragioni del cuore. Io sarei portato a condividere questa propensione se dentro le ragioni del cuore ci fossero più ragioni che astratto sentire, cioè se la conoscenza necessaria per un corretto sentire fosse una saggezza pratica. In assenza di questa ‘saggezza dell’amore’ c’è mera istintività, passione, egocentrico consistere. Insomma, al di qua della riflessione c’è solo illusione ed errore in agguato.

Giustamente, Stanisław Lec ha scritto:

«Rifletti prima di pensare».

Siamo portati a credere che pensare sia sempre già pensare, che mettersi a pensare a qualcosa sia di per sé sufficiente. In realtà, bisogna imparare anche a pensare, che è poi riflettere, cioè rendere oggetto di osservazione e di studio anche se stessi. Non bisogna agire in modo irriflesso, istintivo. Niente di più rischioso di una spontaneità immediata, cioè senza mediazione concettuale. La ‘cosa’ deve essere un concetto, un’idea, non una scelta da prendere e basta, senza che la scelta stessa sia sostenuta da conoscenza vera della ‘cosa’.

La stessa volontà, a cui ci appelliamo come se coincidesse con il nostro io cosciente, non ci appartiene, se volontà significa libero volere. Nativamente siamo tutti liberi. E’ necessario intendere, però, quella libertà come mera potenzialità di agire. Jean-Luc Nancy ha scritto:

Non c’è «esperienza della libertà»: la libertà stessa è l’esperienza.

Il tempo provvede poi a metterci a contatto con i nostri limiti. Preferisco pensare servo il mio arbitrio. La libertà, che non riesco a pensare se non come ‘connessa’ alla mia natura, è piuttosto il fine delle mie azioni. Io voglio essere libero. Non posso fare a meno di sentirmi libero. Non posso rinunciare a pensare la mia libertà. Eppure, non posso dire di essere del tutto libero. Che nulla intervenga a limitare la mia libertà! La mia volontà (libera), allora, è per me il risultato dell’azione virtuosa, dell’esercizio teso a realizzare condizioni di libertà per me.

Quante volte abbiamo ammesso di esserci sbagliati, di aver fondato anche per anni le nostre convinzioni su idee non provate, su meri presupposti? Ci basta un indizio per arrivare a dire di avere prove sicure sulla bontà di un comportamento, di una convinzione, di un’idea che ci siamo fatti di qualcuno!

L’illuso ignora la realtà nella sua tangibile evidenza, o meglio, non la ignora, ma la oblitera, la cancella, la rimuove, o meglio ancora, non la rimuove del tutto ma la ritiene marginale e di poco conto, rispetto all’evidenza dei suoi sogni, luminosa e quasi corposa. (LIONELLO SOZZI, Il paese delle chimere. Aspetti e momenti dell’idea di illusione nella cultura occidentale, SELLERIO EDITORE 2007, p.16)

Può accadere, certo, che noi elaboriamo il fantasma di un’intesa sublime con gli altri sulla base di spunti in realtà assai modesti, cui attribuiamo significati e promesse del tutto abusivi, così come ascriviamo a noi stessi meriti che non sussistono, e accarezziamo l’ideale ma poi non abbiamo la strenua costanza e l’assidua fermezza necessarie per restargli fedeli. Non traduciamo in nulla i nostri sogni, ci accontentiamo di una sorta di velleitaria nostalgia. […] incapacità di capire il reale, d’intendere che l’“altro” non è affatto tenuto ad adeguarsi ai nostri modelli, percorre le sue vie e compie le sue scelte, che coltiva a sua volta miraggi e progetti assai lontani dai nostri. […] Ogni uomo è chiuso nel bozzolo dei suoi sogni. (p.17)

Ben altra è la natura della speranza: essa ci porta lontano dalle nostre chimere, nella terra incognita che abitano gli altri. Lì siamo al sicuro.

«La speranza è come un ponte che si innalza al di sopra di ogni situazione […]. Come un ponte che ci fa uscire dalla nostra solitudine e che ci mette in una relazione senza fine con gli altri: con gli altri, in particolare, che soffrano e chiedano aiuto; ma, ancora, cosa è mai un cuore senza speranza?» (Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, FELTRINELLI 2005, p.51)


La cultura popolare si abbandona alle sentenze facili, spesso contraddittorie, che si contraddicono tra di loro. Avrete sentito dire “Finché c’è vita c’è speranza”, accanto al più volgare “Chi di speranza vive disperato muore”! Quando smettiamo di pensare, finiamo per credere che non sia possibile uscire da quell’antinomia: le due sentenze sono vere entrambe! Il nostro scetticismo sulle cose dipende dal disincanto in cui ci precipitano le nostre delusioni. Come se la vita perdesse tutte le sue attrattive! Ma proprio questo oscillare l’anima cerca di esprimere, senza dare troppo credito alla volgare negazione della speranza.


Il germanista Claudio Magris in un brillante saggio intitolato Utopia e disincanto afferma che utopia e disincanto

«anziché contrapporsi devono sorreggersi e correggersi a vicenda». […] «Il disincanto è un ossimoro, una contraddizione che l’intelletto non può risolvere e che solo la poesia può esprimere e custodire, perché esso dice che l’incanto non c’è ma suggerisce, nel modo e nel tono in cui lo dice, che esso, nonostante tutto, c’è e può riapparire quando meno lo si attende. Una voce dice che la vita non ha senso, ma il suo timbro profondo è l’eco di quel senso». […] «Il disincanto, che corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza. […] La speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto. […] Il disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza» (p.53).

 

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CAMMINARSI DENTRO (158): Il fantasma della mia libertà

CAMMINARSI DENTRO (157): Un’antica servitù


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Una circostanza ricorrente nella pratica educativa è data dal fatto di ‘scontrarsi’ con persone che patiscono infelicità e incomprensioni a causa della loro ignoranza. Mi è accaduto recentemente di trovarmi di fronte a un ragazzo adulto che era letteralmente preda di un ingorgo emotivo: raccontava disordinatamente fatti avvenuti in famiglia, accavallandoli e saltando da un episodio all’altro. Ho provato per tutta la durata del colloquio a farmi spiegare ora questo ora quell’episodio, ma egli non riusciva a trovare le parole per farlo: lamentava, comunque, di non poter sopportare più i soprusi e le angherie a cui la famiglia lo sottoponeva senza una ragione…

Quando parlo di ignoranza mi riferisco a quell’analfabetismo emotivo di cui parla sempre Galimberti, che contraddistinguerebbe un po’ tutti gli adulti oggi, giacché non riescono a parlare con i ragazzi, aiutandoli ad affrontare il mondo. Chiamo, ancora, ignoranza l’incapacità di dare un nome alle proprie cose, ai fatti, alle emozioni, alle situazioni più diverse.

Al ragazzo di cui parlavo ho chiesto, nel momento più drammatico del colloquio: “Ma i tuoi ti vogliono bene?”. Mi ha risposto: “Oggi non è più un problema”. Cose se fosse inutile aspettarsi ancora affetto. Come se egli non ne meritasse. O forse perché le relazioni sono così appesantite dalle incomprensioni che è difficile per lui dire a che punto stiano le cose. Naturalmente, il lavoro di motivazione proseguirà con il coinvolgimento della famiglia, per conoscere aspetti della realtà che sicuramente sfuggono a lui e per far entrare nel lavoro stesso persone che fanno parte del suo paesaggio affettivo, ma in modo sfocato e approssimativo.

Oggi mi preme solo dire le emozioni provate. Di fronte a un linguaggio sempre poco appropriato e a una memoria delle cose appannata, ho sentito tutta la precarietà di un’esistenza che magari non comprende le parole altrui e che si ritrova a scontrarsi con incomprensioni che sarebbero facilmente evitate se soltanto sapesse districarsi dalle situazioni con un atteggiamento più plastico, più mobile. La rigidità dello schema mostrato – a cui egli ricorre sempre – fa pensare che è facile bersaglio dell’impazienza altrui. L’ignoranza ci condanna ad avere quasi sempre torto. E’ facile avere ragione di chi non è in grado di mostrare le proprie ragioni, se al fastidio che genera l’ambivalenza si aggiunge la preoccupazione per l’irresolutezza dei comportamenti.

E’ sempre vero quello che ci ha insegnato Lorenzo Milani più di quarant’anni fa: tra un uomo che conosce duemila parole e uno che ne conosce ventimila, il primo è il servo e il secondo è il padrone.

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CAMMINARSI DENTRO (157): Un’antica servitù

CAMMINARSI DENTRO (156): Una parola di troppo


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Potrà apparire perfino irritante il fatto che io parli di me qui. E che lo faccia talvolta con tanta ‘sfrontatezza’ – con la franchezza che si addice piuttosto al racconto delle cose del mondo – da risultare veridico; che ostenti la pretesa di essere creduto.

Charles Baudelaire ha raccolto in un volumetto intitolato Il mio cuore messo a nudo una storia di sé che apre con noiose riaffermazioni della volontà di dire il vero. Sa bene quanto sia difficile evitare di mascherare la rappresentazione della propria interiorità con ricordi di copertura e idealizzazioni postume. Magari, si esagererà nel calcare la mano sulle tinte fosche, per apparire più interessanti! La formula della ‘rivelazione’, poi, dovrebbe riscuotere il maggior successo. Eppure, bisogna ‘prendere la penna’ e raccontare la morte del proprio padre. E poi la morte della propria madre. Anche se non furono eventi memorabili. Peter Handke ha scritto Infelicità senza desideri. Mai fu scritto niente di più terribile e doloroso: una madre che si uccide. Ma non c’è solo l’immane da raccontare.

Un criterio di verità dovrebbe andar bene: lasciare lì tutto quello che si è scritto, anche se il tempo provvederà a smentire quanto già detto. Passare sempre a dire quello che sarà sentito come ‘più vero’. Cercare, ancora, di comprendere che cosa fare della contraddizione scoperta in sé: a cosa credere, a cosa riconoscere statuto di verità.

Più che un ‘diario in pubblico’, che richiederebbe uno sguardo orientato soprattutto verso la propria azione sociale, è interessante proporre un ‘diario delle posizioni’, come ho sempre chiamato per conto mio quanto andavo scoprendo del mondo e tutto ciò che sceglievo di considerare definitivo.

Se così è – e così mi sembra che sia sempre stato questo camminarsi dentro -, non temo di avere pronunciato una parola di troppo: sarà il tempo a fare giustizia degli eccessi, come delle manchevolezze della scrittura.

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CAMMINARSI DENTRO (156): Una parola di troppo

CAMMINARSI DENTRO (155): Che cosa significa non dimenticarsi di sé


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L’occupare la mente con esigenze pratiche, utili a qualcun altro e a se stessi, affannate fino alla distruzione di ogni sintomo di autocoscienza disinteressata è, dai maschi, ritenuta una salvezza. Perché il tempo soli con se stessi fa paura; angoscia e tortura la più parte di questa specie esteriore, soprattutto nelle prime, ruggenti, decadi dell’esistenza. Più oltre, qualcosa muta. Non per propria volontà, perché siamo obbligati nel corpo, pur adottando ogni contravveleno, a cambiare. Qualche avvisaglia già traspare prima della transizione agli anni sempre più poveri di eventi. I più tardivi, tra i maschi, e incorreggibili pur di fare qualcosa, ancora e ancora, si dotano di nuove mercanzie e ausili, che dovrebbero aprirli alle nuove aspirazioni. Cercano letture e pagine edificanti, massime e sacri detti antichi, maestri e terapeuti, pensieri buoni e più indulgenti. Partono per i pellegrinaggi e fanno opere buone. Non comprendono che questo tempo non va riempito; va fatto maturare attingendo a se stessi, alla propria memoria. Ma questa, se non precocemente coltivata, corredata di pensieri scarabocchiati negli intervalli della vita concitata precedente, di impressioni domestiche, con difficoltà torna alla luce.

DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2010, pp.101-102

Se riconsidero tutta la mia vita di maschio, incontro facilmente me stesso: ritrovo le tracce che mi portano ai tempi più lontani, ai ricordi sempre vivi degli sforzi fatti per coltivare l’anima, per fare anima, per orientare verso l’interiorità l’intera esistenza.

Sicuramente, il lavoro della mente è stato favorito dalla mia naturale inclinazione alla vita schiva, che in qualche modo è il contrario della ‘vita esteriore’ di cui parla Demetrio.

Ho sempre osservato tutto ciò che di immateriale emergeva delle esistenze altre, lasciandomi trafiggere dalla luce della loro interiorità: ho patito ogni contatto, subendo dolorosamente ogni influenza, positiva e negativa. Mi sono fatto toccare da tutte le persone che ho incontrato. Dai vecchi, come dai bambini. Del mistero di ogni esistenza ho assorbito l’incanto. Potrei raccontare mille storie, per quanti volti ho costruito dentro di me. Delle innumerevoli donne che ho amato nulla posso dire, perché la maggior parte di esse non poteva essere avvertita di quanto accadeva in me. Intransitabile utopia è stata l’espressione che ho usato ogni volta, per dirmi che non potevo avvicinarmi troppo, non potevo aprire il mio cuore all’amore che non può essere corrisposto. Degli amori astratti nulla sarà mai detto. Gli amori mai nati.

Per vari decenni ho coltivato la convinzione profonda che l’introspezione psicologica servisse a scrutarsi dentro e a leggere tutto quello che si agita nel cuore. Nella vita degli affetti. Nella vita della mente. Ben presto, però, sono stato distratto dall’irruzione delle conoscenze psicoanalitiche, di cui debbo dire, tuttavia, che si sono rivelate una perdita di tempo: non mi hanno aiutato a saperne di più su di me. In campo ‘analitico’, conta soltanto lo sguardo esterno, di un altro, che si posi su di noi. L’autoanalisi è una pia illusione, per me. Piuttosto, psicologia e psichiatria hanno giovato alla comprensione della mia natura. La ‘conoscenza’ della mia personalità, in ogni caso, non ha generato cambiamenti di sorta.

La pratica di vita – l’esperienza religiosa iniziale, poi quella politica e sindacale, ma soprattutto l’azione educativa – ha generato in me la saggezza dell’amore, cioè la capacità di comprendere, di tenere insieme le ragioni antitetiche della vita, gli opposti che non possono escludersi, pena l’astrattezza dottrinale e l’inconcludenza pratica.

Ho saputo riconoscere sempre il bene che ricevevo. E ricordo tutto il bene che ho ricevuto. Me ne sono nutrito. In ogni momento della mia vita, mi sono dedicato alla valorizzazione di tutto ciò che di buono c’era negli adulti di riferimento, salvandoli tutti. Potrei dire quasi anno per anno ciò che ho appreso, restituendo la mappa dettagliata dei principi, delle massime, delle regole, delle prescrizioni che mi sono stati trasmessi.

Ogni sera, ho fatto l’esame (di coscienza). Addirittura, lo faccio ancora nel corso della stessa giornata, ‘riempiendo’ di consapevolezza ogni passo compiuto. Sono sempre presente a me stesso, sobrio e vigile.

Perdonare e ringraziare – come ho scoperto poi nell’esistenza del filosofo Derrida – sono state le attività maggiori. Ho ripreso da qualche anno un’antica abitudine mia, quella di inchinarmi mentre saluto le persone, anche giovani. Sento che non ci sia niente di più bello del fatto di far sentire immediatamente alle persone quanto grande sia il valore della loro esistenza per me. Solo quando provo paura mi irrigidisco. Mi inchino lentamente, abbassando gli occhi, quasi a voler trasmettere una sottomissione forzata, che non dovrebbe sussistere, per la mia dignità e per il mio onore. Mi riscatto sempre, però, impegnandomi a combattere il disagio che gli altri mi provocano, comunicando le ragioni del disagio stesso.

Io ricordo chi sono stato, cos’ero in antico. Delle profondità della coscienza credo di sapere tutto, perché mi sono sempre osservato vivere. Conosco le mie viltà, come i miei eroismi. Tuttavia, non parlerò mai né degli uni né degli altri. Lascio agli altri il compito di cogliere gli estremi dentro i quali sempre l’esistenza oscilla, per decidere cosa prevalga in me, se meriti fiducia e stima oppure no.

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CAMMINARSI DENTRO (155): Che cosa significa non dimenticarsi di sé

PENSARE E SCRIVERE (5): Note senza testo. Elogio dell’infedeltà.


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L’espressione note senza testo è di Roberto Bazlen. La prenderemo in prestito per piegarla a un uso tutto nostro: all’idea che quando parliamo in pubblico e quando scriviamo è come se stessimo annotando un testo che non c’è. Anche se stiamo presentando l’opera di qualcuno – e, dunque, di un testo reale stiamo parlando! -, in realtà alludiamo a qualcosa che non coincide con quanto andiamo dicendo, che riguarda solo noi, perché nasce da noi, dalla nostra ‘lettura’ di quel testo, che sarà sempre infedele.

Dopo tutto, non potremo mai esercitare una semplice parafrasi, cioè una riscrittura di quel testo, ché si tratterà sempre – nella pratica quotidiana – di ‘tradurre‘ quanto proviene dagli altri, per potere, a nostra volta, dire. E se poi si ‘ridurrà’ a pretesto – in quanto pre-testo – il nostro dire delle cose altrui, tutto dipenderà dalla traduzione, che è solo dire quasi la stessa cosa, almeno quando siamo chiamati a ‘render conto di ciò che abbiamo ascoltato’ (mia suocera aveva l’abitudine di mettermi spesso alla prova, perché convinta che io non la ascoltassi, quando si rivolgeva a me, o che fossi distratto da cose meno importanti!).

In realtà, la traduzione è cosa seria nella vita quotidiana. Si potrebbe dire che non facciamo altro che tradurre quello che sentiamo dire dagli altri, riducendolo alla nostra ‘misura’. Se ci facciamo prendere dal compito di raccontare un’avventura recente o un semplice fatto a cui abbiamo assistito, come quando dobbiamo riferire le opinioni di un’altra persona, sempre ci ripromettiamo di essere fedeli ai ‘fatti’. Ma è veramente così?

Quando io prendo la parola, non rinuncio mai a categorizzare i fatti, a gerarchizzarli, a dare loro un ordine che si adatti alle mie esigenze – talvolta, riesco a seguire un ordine ‘cronologico’ -, ma preferisco sempre istituire nessi che rispondano ad esigenze espositive di tipo ‘didattico’.

Quando avrò detto cosa io pensi – e prima ancora cosa io abbia capito -, apparirà chiaro che sto parlando d’altro, di un di più che mi appartiene, che ‘invera’ il discorso altrui, ma necessariamente nel mio orizzonte di senso. E’ questa la ragione non ultima di tutte le incomprensioni. E’ a partire da qui che comincia la vita, cioè il gioco linguistico che ci lega e che ci scioglie, che ci fa procedere e che ci arresta. La vera comunicazione si ‘spende’ in questo commercio quotidiano sul senso che attribuiamo alle cose.

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PENSARE E SCRIVERE (5): Note senza testo. Elogio dell’infedeltà.

PENSARE E SCRIVERE (4): Annotare testi

L’oggetto contenuto in questa pagina è una scoperta fatta oggi, salvando su Google Documenti tre testi messi insieme per introdurre alla pratica dell’annotazione testuale. Poterlo fare con mezzi potenti è senz’altro utile. Basti pensare al sistema delle note di cui dispone Adobe Acrobat.

Dal punto di vista didattico, annotare testi è attività di sintesi. Si richiede, per questo, uno sviluppo dell’abilità corrispondente.

Il primo e il secondo testo riportati – La nota: ovvero processi di sintesi e di ri-creazione testuale e Annotare – sono di Graziella Tonfoni, la breve scheda sulla Sintesi è mia.

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PENSARE E SCRIVERE (4): Annotare testi

QUANDO I LIBRI SI PARLANO TRA DI LORO (2): Persuasi di sé

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«Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita».

«Rettorica» è l’apparato di parole, di gesti, di istituzioni con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla «Persuasione».

Michelstaedter sceglie questa epigrafe per la sua opera: «so che / faccio cose inopportune e a me non convenienti» (SOFOCLE, Elettra, vv. 617-618). Sergio Campailla, curatore dell’edizione Adelphi, spiega tra le Note: “Con queste amare parole la matricida Elettra si rivolge alla madre Clitennestra”.

Michelstaedter sa bene, come d’altronde Wittgenstein, che l’autenticità si sottrae alla parola; sa che nel momento in cui la «cosa» viene pronunciata, cadendo sotto il dominio della «Rettorica», entra nella mutevolezza del divenire, perdendo il suo carattere di autenticità «persuasiva». La «Persuasione» smarrisce la sua assoluta pienezza. Ma, a differenza di Wittgenstein, egli non sa risolversi nel silenzio: l’idea – come per i mistici – resta un punto fermo nel suo pensiero, un modello etico e ontologico insieme, la cui irraggiungibilità non annulla il fare, ma ne sottolinea tutto l’aspetto tragico: «Ogni tentativo di “parlare” della persuasione si rivela intrinsecamente antinomico. Eppure, ciò deve essere fatto: drân, fare – verbo tragico per eccellenza, che indica non il fare nella sua discorsività quotidiana, ma l’istante, l’acmé supremo della decisione, il culmine dell’azione, dove il carattere dell’eroe emerge pienamente, irreversibilmente» (Folin).

[Post in progress: pubblicato per dare un’idea del mio modo di procedere, delle scelte tematiche, del carattere enciclopedico e ipertestuale che assumerà il Blog. Potrebbe bastare anche questo post: in esso compariranno tutti i riferimenti ipertestuali indispensabili per dire ciò che conta oggi]

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QUANDO I LIBRI SI PARLANO TRA DI LORO (1): I libri si parlano tra di loro

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Sono note a tutti alcune ‘formule’ felici di Eco, da “lector in fabula” a “se un codice non è buono per mentire non è buono nemmeno per dire la verità”, fino al nostro “i libri si parlano tra di loro”, che risale ai tempi di alfabeta. Noi ci chiederemo cosa abbiano da dirsi i libri, e saranno loro a rispondere per noi. Parleranno tra di loro per noi. Non si tratterà di recensioni: delle opere a partire dalle quali prenderemo a scrivere assumeremo quello che ci serve ora, riservandoci di ritornare su di esse, per rimaneggiare il post o per fare di quest’ultimo l’oggetto di un link ipertestuale.

Naturalmente, saranno i nostri libri. Non le novità librarie. E nemmeno i libri noti a tutti.

Seguiremo un nostro antico demone: la passione per gli ipertesti. Ci piace collegare le cose tra di loro: costruire, montare, assemblare, sintetizzare.

Il metodo è presto rivelato: partiremo da un testo e da qualcosa in esso che ci condurrà ad altro. Ci serviremo di pali e di frasche, saltando dagli uni alle altre. Qualche volta ci perderemo nei nostri labirinti. Ci premureremo di gettare la chiave prima di inoltrarci. Preferiamo la navigazione a vista.

Non andiamo da nessuna parte. Siamo impegnati a costruire ponti. Ma non incominciate a fare gli spiritosi: non siamo pontefici! Ci piace leggere. Ci accade di leggere troppe cose contemporaneamente. Forse così facendo troveremo una misura. Il tempo non ha provveduto ancora a fornirci di ‘discrezione’: procediamo massivamente, accumulando e sommando suggestioni e piccole verità.

Ci interessa dissimulare certezze e convinzioni consolidate. Fingeremo di non sapere dove stiamo andando. Anche noi abbiamo diritto a un po’ di suspence!

6 novembre 2010

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Se andiamo a vedere di cos’è fatto un ‘saggio’ di alfabeta – dal numero 1 del primo anno di pubblicazione: era il maggio 1979 -, scopriamo già nell’Editoriale l’intento della Redazione del mensile di recensire non un solo libro alla volta né solo libri. Un esempio eccellente di questo modo di procedere è dato da La lingua, il potere, la forza di Umberto Eco. La prima delle cinque colonne di cui si compone la prima delle tre grandi pagine (42×31 cm) si apre con quattro riferimenti ‘bibliografici’: ROLAND BARTHES, Leçon, Paris, Seuil, 1978, pp.46 (s.i.p.) [pubblicato poi in italiano da StampAlternativaEditrice a dicembre del 1979, a mille lire]; Foucault: il potere e la parola, a cura di Paolo Veronesi, Bologna, Zanichelli, 1978, pp.154, lire 2400; GEORGES DUBY, Les trois ordres ou l’imaginaire du féodalisme, Paris, Gallimard, 1978, pp.428, franchi 80; MICHEL HOWARD, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Bari, Laterza, 1978, pp.308, lire 7500.

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CAMMINARSI DENTRO (154): La mia solitudine

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Queste parole mi sono venute in mente dopo aver letto quello che Duccio Demetrio dice delle solitudini maschili. Mentre prosegue lo studio della sua opera, mi domando di cosa sia fatta la mia solitudine e fino a che punto io possa parlare di essa. Sicuramente, nessuno conoscerà mai il Segreto, l’Inconfessabile per eccellenza di tutta la mia vita. Nemmeno dirò i segreti che tormentano la mia coscienza, l’Irreparabile, l’Imperdonabile, l’Irredimibile che si è accampato nella coscienza e non accenna a volersene andare. La memoria dell’offesa arrecata ad altri non può essere ‘curata’ chiedendo ‘semplicemente’ perdono. Soprattutto quando si tratti dei morti. Essi non perdonano! Il lungo cammino di ‘espiazione’ non conosce, per questo, approdi. Senza la possibilità di risarcire gli altri, ciò che non si può dire deve rimanere sepolto in fondo al cuore e lì giacere per sempre, monito perenne e voce della colpa immemoriale, ormai.

Ho scoperto la grandezza della mia solitudine dieci anni fa, durante l’esperienza dell’infarto e di quello che ne seguì. Compresi allora quanto siamo soli durante una lunga malattia. Da quest’ultima arrivai a comprendere meglio le altre solitudini che costellavano ormai la mia vita: l’assenza del calore dell’amicizia, l’incolmabile distanza tra uomini e donne nell’amore, la debole reciprocità in tutte le forme d’amore, l’impossibilità di sperimentare la fraternità tra gli Educatori, l’isolamento a cui sono condannate le persone oneste, la viltà dei Colleghi di lavoro e non solo di essi di fronte al potere…

Non ho mai avuto paura di essa, però. Un vecchio Collega amava ripetermi negli anni di scuola: «Beata solitudo, sola beatitudo» (Beata solitudine, la sola beatitudine). Beatitudo significa anche felicità. E questo mi portava spesso a chiedermi, in passato, se non dovessi ricavare dalla necessaria solitudine che ricevevo in dono dalla sorte motivo di contentezza, addirittura di felicità. Se quella solitudine era la condizione in cui si ritrovava chi avesse scelto una vita virtuosa, cos’altro assegnare alla vita buona se non il riconoscimento che il premio della virtù era la virtù stessa e che questo solo era felicità?

Mentre imparavo a morire, avevo già imparato a vivere, grazie ad esercizi spirituali che praticavo da sempre: dentro lo spazio della coscienza, camminavo e camminando camminai, cioè mi resi conto di essere in cammino. In realtà, la mia vita non è stata altro. Ho sempre temuto il silenzio della stasi spirituale. Perennemente in esodo dalle mie ragioni private, ho cercato di adeguare il ritmo della mia vita individuale al ritmo della vita universale. A questo avevo già dato il nome di felicità. Sentirmi uomo e non semplicemente individuo, maschio, cittadino… Ho imparato con Agamben a dire singolo. Oggi dico solo persona.

Mi accade ancora di sentirmi dire – ad esempio, nel Centro di ascolto in cui mi accade di parlare alle famiglie il mercoledì – che gli altri non capiscono quello che dico! Mi viene in mente un’espressione tragica di Cacciari che nel 1974 scriveva che certe cose potevano essere comprese solo da chi le aveva pensate già. E poi, in un’opera ardua di quegli anni aggiungeva che gli risultava oscuro quanto dicevano coloro i quali lo accusavano di oscurità.

Wolfgang Goethe era convinto del fatto che quello che un adulto sa di meglio non può dirlo ai suoi alunni! Io, invece, ho detto ai miei alunni tutto quello che sapevo della vita.

Ciò che resta è calma e silenzio. Segno evidente di una coscienza pacificata, a dispetto dei segreti che ognuno di noi ha da custodire gelosamente, per impedire gli assalti dell’immortale volgarità umana. La beatitudine più grande è quella che deriva dal fatto di sapere che l’anima non ha finestre. Eppure, essa, come la lettera rubata, sta lì spalancata inutilmente davanti agli occhi di tutti.

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CAMMINARSI DENTRO (154): La mia solitudine

CAMMINARSI DENTRO (153): Ciò che sono diventato. Al di là e oltre ciò che credevo di essere.

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Mi sto interrogando in questi giorni sulla natura della mia umanità, per comprendere a fondo se io sia riuscito ad essere quello che volevo o se, per caso, non abbia potuto fare a meno di essere quello che ero già, quello che affiorava di me anno dopo anno, indipendentemente da sforzi e progetti.

In buona sostanza, ho qualche merito se considero il ‘risultato’ raggiunto, l’equilibrio e la pace di una maturità da cui sono assenti astratti furori e bellicose rivendicazioni ‘sessiste’?

Per qualche anno, ho creduto di essere un ‘maschio selvatico‘, perché convinto della bontà di una naturalezza che non poteva essere riguardata come colpevole acquiescenza ad istinti distruttivi o a egoistiche affermazioni di sé.

E prima ancora, dal 1975, per molti anni dopo, sono stato convinto ‘femminista’, cioè schierato dalla parte delle lotte femminili. Mi sono convinto, però, lentamente del fatto che non potevo rivendicare un’identità politica che non mi riguardava e non mi apparteneva. La riflessione pubblica degli ultimi venti anni mi ha aiutato a ‘distanziarmi’ sempre di più dalle filosofie della differenza, che ancora oggi per me sono il miglior approdo di quelle lotte. Le mie ‘ragioni’ andavano cercate altrove.

Massimo Cacciari nel 1981, con il suo Weibliches, un capitolo sul ‘femminino’ contenuto in Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, mi aiutò a pensare che il Maschio è morto. Il ‘canto del dipartito’ è la nuova voce di chi si è congedato dal metafisico dissidio tra i sessi, che sopravvive nell’astratto supporre che ci sia un’immutabile natura maschile accanto e di fronte ad un’immutabile natura femminile. La ‘differenza in pace’ sembrava dischiudere la prospettiva di un umano consistere in cui ogni bene sarebbe venuto dall’incontro con le donne.

L’opera, forse, più utile al riguardo è il saggio del 1995 di Nadia Fusini Uomini e donne. Una fratellanza inquieta, che aiuta a pensare il concreto relazionarsi di persone di sesso opposto ma accomunate da ragioni affettive: alla domanda su chi sia un uomo e su chi sia una donna, lei rispondeva saggiamente così: cercherò di comprendere come questo uomo sia uomo di fronte alla sua donna e come questa donna sia donna di fronte al suo uomo…

Detto questo, e detto tutto quello che poi ancora è stato pensato a vantaggio del superamento di ogni astratto contrapporsi di sessi e culture diverse, resta da chiedersi quale sia la propria natura, se cioè si propenda di più per la ‘selvatichezza’, non importa come declinata, o se prevalga un più alto sentire che non assegna più agli istinti naturali e agli impulsi sessuali il primato di sempre. E c’è da chiedersi cosa sia questo sentire che non è riducibile alla ‘maschilità’ pura e semplice.

Io credo che alcuni Autori aiutino con le loro opere esemplari a dire in breve di cosa io stia parlando. Mi limiterò, per brevità, ad elencarle (molto ho già scritto e altro ne scriverò): ad esse ho affidato la mia riflessione negli ultimi dieci anni. Grazie ad esse, ho potuto pensare la mia esperienza e verificare cosa io stessi diventando, ma soprattutto cosa sono stato, al di là di quello che credevo di essere:

ROBERTA DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, GARZANTI 2003

ROBERTA DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, GARZANTI 2009

VITO MANCUSO, La vita autentica, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2009

DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini maschili, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2010

Soprattutto Duccio Demetrio mi porta a pensare di non essere mai diventato – e di non poter essere – un ‘maschio selvatico’: io credevo di esserlo, che lo sarei diventato, addirittura che al fondo della mia coscienza quello ero stato. In realtà, la mia invincibile timidezza mi ha portato a condurre una vita schiva, per cui i limiti e le debolezze proprie della timidezza si sono tradotte con il tempo in sentimenti e virtù riconducibili alla vita schiva.

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CAMMINARSI DENTRO (153): Ciò che sono diventato. Al di là e oltre ciò che credevo di essere.

CAMMINARSI DENTRO (152): La saggezza dell’amore (3) – Sotto il segno di Epimeteo

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Ho sempre indicato ai miei alunni e ai ragazzi tossicodipendenti del Centro di ascolto – ma anche ai ragazzi-adulti che ho incontrato – un altro amore. Chiamerò così il diverso sguardo, l’atteggiamento prudente nelle cose d’amore che porta a ponderare le scelte, a basare ogni scelta sulla conoscenza dell’altro. Si potrebbe applicare alla vita di tutte le persone che crescono il principio che alimenta l’esistenza di Prometeo – colui che prima pensa e poi agisce -, da opporre all’esistenza di Epimeteo – colui che prima agisce e poi pensa -.

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CAMMINARSI DENTRO (152): La saggezza dell’amore (3) – Sotto il segno di Epimeteo