“La voce è il vettore dell’esperienza più vicino all’inconscio”

_______________________________________________________________

Assieme a Volto, Sguardo, Parola, la Voce va a costituire quei modi dell’apparire della persona di cui non diremo che si risolvano in mera apparenza: «Nulla appare invano» (De Monticelli); le apparenze non ingannano, se sapremo, ogni volta di nuovo, tenere insieme apparenza e realtà della persona, con uno sguardo fenomenologico che ci condurrà a ciò che c’è di più proprio di una persona, attenendoci al principio di fedeltà, che prevede che si segua il modo di apparire della cosa, della persona fino alla sua essenza.

La voce: un potente strumento per raccontare il mondo. Ma proprio la voce in sé, come materia sonora, non i significati delle parole a cui la voce rimanda. Troppo spesso l’idea di voce è limitata al campo dell’oralità come contrapposto a quello della scrittura, o al rivestimento fonico di un concetto, o alla forma di un contenuto. Dove quello che importa alla fine è il contenuto. Invece, prima di ogni senso c’è un suono: anzi, il suono ha già, in se stesso, un senso.

Carlo Serra, filosofo della musica, ha esplorato in un recente saggio – La voce e lo spazio. Per un’estetica della voce, Edizioni Il Saggiatore 2013: – i vari modi in cui ogni cultura, attraverso la voce, immagina il mondo. Carlo Serra ci parla di cosa può fare la voce. Evocare una soggettività, invocare una relazione, esprimere la propria storia, raccontare la natura. O anche, come sentiremo direttamente da alcuni documenti sonori, accompagnare la caccia dei pigmei dal qui del villaggio al là ignoto e oscuro della foresta, oppure diventare un paesaggio sonoro di acque attraverso un canto mongolo. Ma prima ancora di emettere un suono la voce è semplicemente respiro: ascoltando il respiro rituale di un sciamano ci renderemo conto di quante valenze simboliche può assumere anche un semplice “prendere fiato”.

[Tutte le note di Estetica subiranno nel tempo rimaneggiamenti e integrazioni.]

La grana della voce – le mie letture

Leggere anche la Nota che precede: Estetica

_______________________________________________________________

Pubblicato in Estetica | Lascia un commento

Estetica

_______________________________________________________________

Dopo il Diario delle posizioni e gli Esercizi spirituali, ritengo di dover assegnare oggi la riflessione sull’esperienza personale al Discorso estetico. Se la prima espressione serviva a fissare le prese di posizione teoriche, la seconda alludeva meglio alla cura di sé, al lavoro educativo che mirava a rimuovere gli ostacoli sul cammino di liberazione personale.

La parola, finalmente, si accampa sulla scena (quasi) libera da timori e angosce. [La ‘fonte’ è il Lacan del Seminario XVII, con la produzione dei quattro discorsi]. La parola – ben distinta dalla lingua – è l’effetto di senso, l’effetto-soggetto che io sono, come risultato della causalità metonimica che istituisce la catena dei significanti lungo la quale si dislocano le identificazioni nel tempo, sotto la spinta del simbolico e del reale.

Prima ancora di parlar d’arte e della sua fruizione estetica e di ricezione e di emozione estetica, occorre chiedersi cosa significhi per noi fare esperienza.

Sicuramente, non sarà un fatto quantitativo – di esperienza appunto, che poi si riduce ad aver fatto molte esperienze!, come amavano dire i vecchi di una volta. Le esperienze possedute costituivano un tempo un sapere della vita che si traduceva con il tempo in un sapere per la vita: chi aveva più esperienza aveva da trasmetterne. Sapere equivaleva a conoscere la vita: sapere come inevitabilmente si sarebbe svolta. L’età da sola comportava sapere ed esperienza. Oggi – come direbbe Kundera – vecchi e giovani sono due continenti destinati a non incontrarsi mai. Ognuno di noi affacciandosi alla vita ha da scoprire tutta la vita. Sembra che tutto il sapere che pure abbiamo accumulato non possa servire in nessun modo alle altre esistenze che guardano nella stessa direzione. Ci affanniamo poi a far conoscere ai giovani la meta. E quando non ci riusciamo, indichiamo la direzione, con la speranza che si decidano a guardare nella stessa direzione verso la quale siamo rivolti noi. Fare esperienza è possibile a condizione che ognuno di noi si appropri della propria esperienza, e appropriarsi della propria esperienza significa categorizzare il sentire, dare un nome a tutti i moti dell’anima, per acquistarne coscienza e per vincere la sfida del senso vissuto: quello che, infatti, sembra appartenerci di più – il ‘vissuto’, l’esperienza (ri)vissuta – è costante materia di contesa, giacché la memoria opera in direzioni spesso sbagliate, perdendosi nel passato o nel futuro, senza trovare il modo di consistere nel presente, che è il ‘luogo’ dal quale soltanto è possibile vincere la battaglia del senso. Se non siamo in grado di dare un nome alle nostre emozioni e descrivere la profondità del nostro sentire, il nostro sentimento del tempo e delle cose e delle persone, riusciremo a vivere adeguatamente l’esperienza estetica, ricreando in noi i mondi possibili che l’arte crea per noi? Riusciremo a dire tutto ciò a cui l’arte allude, che presuppone, che indica, che cerca di dire?

E’ possibile andare mille volte al cinema e continuare a non comprendere la natura dell’opera, il suo carattere composito, ma soprattutto lo sguardo dello spettatore, l’importanza dello sguardo nella fruizione estetica. Noi postuliamo qui la ‘necessità’ di una educazione estetica, cioè una educazione del sentire, in assenza della quale ‘avvertiremo’ frammenti di senso, riceveremo sicuramente impressioni dall’arte, ma non approderemo tanto facilmente – consapevolmente – all’emozione estetica. Il Lettore esperto di cui parlava Umberto Eco è il ‘risultato’ della formazione, non dell’occasione offerta dal contatto occasionale, per quanto ripetuto, con l’opera d’arte.
Un incontro che segnerà tutta la nostra vita costituisce esperienza, è fare esperienza di una persona, comprenderne il significato: attribuirle un significato. Che sarà poi il significato che quella persona rivestirà solo per noi, presso di noi, a partire dall’esperienza che noi ne facciamo. Insomma, l’esperienza estetica è la semplicità dello sguardo, è il confine stesso dello sguardo, il darsi dell’oggetto all’interno di un’esperienza che si sa consapevole di sé, che esprime attraverso l’emozione estetica le costellazioni di senso entro le quali confluisce tutta l’esperienza personale.
Arte e arti, tutte le arti; la storia dell’arte; teoria generale dell’arte; sensibilità, immaginazione, fantasia, immagine, figura, simbolo… Una teoria estetica è postulata dalle estetiche filosofiche come dalle estetiche non filosofiche. Etica ed estetica si incontrano nei cieli delle teorie, fino a vedere confuso il loro oggetto: entrambe avrebbero a che fare con l’ineffabile. Invisibile, indicibile, ineffabile, inesprimibile, tuttavia, sono concetti che vanno ridefiniti, alla luce delle teorie dell’arte come del linguaggio. Ogni epoca ha una propria estetica, ma anche più di una. Al di sopra dell’opera e del genere e della poetica, possiamo sempre risalire ad un’estetica che sia presupposta da opera, genere, poetica. Autonomia ed eteronomia, avanguardia e tradizione… Bello, brutto, sublime. Genere, autore, opera, lettore, fruitore, critico, pubblico, destinazione dell’opera. Rendere conto della natura e della realtà dell’Estetica è sicuramente possibile a partire dall’esperienza estetica, dalla creazione artistico-letteraria alla presenza del fruitore, al lettore esperto.

[Questa scheda sarà rivista, corretta, rimaneggiata, completata nel tempo]

ESTETICA (1) – “La voce è il vettore dell’esperienza più vicino all’inconscio”

Pubblicato in Estetica | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (6) – Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

_______________________________________________________________

Venerdì 20 gennaio 2017

Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

*

30 ottobre 1940
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, naturale come l’aria. E’ impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi 1952, pag.191

L’esito della pratica dell’elaborazione, che viene esercitata sulla nostra esperienza del dolore, ci mette davanti alla potenza del simbolo. Solo se accompagnata dai necessari processi di simbolizzazione, e se quest’ultima è preceduta da un’accurata e precisa categorizzazione del nostro sentire, l’elaborazione sortisce effetti trasformativi: il dolore ci trasforma, se sappiamo condurre il lavoro su noi stessi nella maniera dovuta.
Intanto, bisogna attraversare l’esperienza del dolore fino in fondo, senza risparmiarsi nulla che ci venga riservato in sorte: essa è preceduta e accompagnata da estenuazione e dolore della mente e angoscia e tedio; è scandita nel tempo, è percezione pura del fluire del tempo-dolore, che non smette di scavare dentro di noi, lasciandoci nella confusione e nell’errore. Queste ultime condizioni dello spirito postulano il complesso lavoro di analisi dei contenuti di coscienza, per distinguere pazientemente emozione e concetto e finalmente correggere ciò che c’è da correggere, se ci troviamo di fronte a scarsa esattezza del sentire. La trasformazione avviene in noi, se sapremo riconoscere la realtà dell’altro, così come essa è.
La durata del lavoro di elaborazione conseguente ad abbandono o perdita può durare anche per decenni, fino a quando non si arrivi a trovare la cifra dell’accaduto, se la ferita non cessi di sanguinare perché il lavoro è finito, avendo il tempo trovato il suo compimento. Ogni indugiare ed insistere ed ostinarsi nel chiedere senso, infatti, è segno di un tempo che non cura, come un ritrovarsi in mezzo al guado, senza meta e senza direzione di marcia: ne va di noi, del modo di consistere nel tempo, del raccordo da istituire di nuovo tra identità e memoria, dopo che il ricordo abbia agito sulla vecchia identità per congedarsi da essa; ma decidersi, cioè staccarsi dal vecchio, non basta, perché bisogna alzarsi al mattino e andare incontro al giorno, avendo scelto se farsi guidare da un demone buono o da un demone cattivo.

L’esercizio dell’interrogazione infinita sarà fruttuoso, se non ci stancheremo di ripercorrere la strada fatta, a costo di scoprire ogni volta di nuovo che non è ora, non è l’ora del nuovo sentire: il nunc in cui ci ritroviamo a consistere, per quanto sia un tempo dilatato oltre il ritmo dell’orologio, se pure è il tempo della nostra coscienza, lungo quanto si vuole e lento e poco cadenzato, non porterà con sé buone nuove per noi, se non interverrà a dargli senso – significato e direzione – una categorizzazione più ampia, la riconsiderazione dell’incidenza delle ‘vecchie’ categorie a vantaggio di un orizzonte di senso che non le comprenda più. E’ questo uno dei passaggi più duri per noi: emanciparsi da modi di guardare alle cose su cui siamo stati fermi per ampie porzioni della nostra vita non è gesto, azione, semplice decisione. Non è difficile dire ‘no’ a ciò che scopriamo essere causa del nostro dolore; più difficile ‘staccarsi’ da quello che siamo stati, e poterlo contemplare da riva come fa il naufrago che si volga a considerare ancora il pericolo passato. Se non arriviamo a vedere il pericolo, se non ci sentiamo all’acmè di una prolungata esposizione al pericolo, non coglieremo il rischio di essere colpiti ancora e di restare prigionieri di ciò da cui pure vorremmo liberarci. Quando si tratti di un oggetto d’amore, di persona lungamente amata, non è facile modificare il suo ‘significato’, attribuendole quel tanto di negativo che pure si richiede, perché acquisti le caratteristiche di ciò che ci colpisce, che ci ferisce, ci abbatte, perché sia possibile infine perseguire il fine del ‘taglio’, del distacco, della rottura, dell’abbandono di ciò da cui siamo stati abbandonati. Esatto sentire vuol dire proprio questo: avere il coraggio di rinunciare all’idealizzazione dell’oggetto d’amore, per proseguire sulla strada dell’analisi critica dei gesti, delle parole, degli atti compiuti nei nostri confronti, avendo cura che ci si riferisca a cose precise e non a sensazioni, vaghe intuizioni, allusioni, supposizioni.

Un esempio forte del modo più corretto di procedere all’eutanasia di un amore è partire dall’idea per niente scontata che «l’amore è sempre ricambiato», come sostiene Jacques Lacan. Se non è così, se abbiamo fondati motivi per dubitare dei sentimenti del nostro partner, non ci resta che sottoporre a verifica stringente ogni manifestazione di sé che l’altro orienti verso di noi, senza trascurare mai gli effetti che producono su di noi le sue manifestazioni di sé. In assenza di benessere, se addirittura si provi disagio, sofferenza, ci sono già le condizioni per dubitare della bontà di un sentimento.

α La nostra prima ‘fonte’ in materia di Simbolo è la voce Simbolo dell’Enciclopedia Einaudi – volume dodicesimo (1981), pp.877-915 -, curata da Umberto Eco.
Con il saggio Il modo simbolico, contenuto in Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi 1984, la voce di Enciclopedia viene ripresa e ampliata

Pubblicato in Dolore, Elaborazione | Contrassegnato | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (5) – Tenersi il dolore dentro

_______________________________________________________________

Lunedì 26 dicembre 2016

Tenersi il dolore dentro

*

Mentre l’anno volge al termine, non possiamo impedire alla nostra mente di riandare al tempo trascorso, per trovarvi un senso – significato e direzione di marcia, valore simbolico e inquadramento in unità temporali più grandi -: perché non sia solo un anno solare, una somma di mesi e stagioni, con qualche grande evento sparso qua e là, bisogna fare in modo che una categoria più grande, capace di comprendere sotto di sé più tempo, ci venga in aiuto, e per questo invochiamo da parte nostra conoscenze e capacità di sintesi.
Mentre seguo il film “The giver” su Netflix mi vengono in mente le parole “Tenersi il dolore dentro”, che in verità vengono pronunciate all’inizio del film. Siamo in una società futura di sopravvissuti a qualche catastrofe generale. Sono state cancellate tutte le ragioni di divisione e le disuguaglianze ma anche emozioni e sentimenti. In un’organizzazione impersonale i destini vengono decisi da un Consiglio di anziani che sceglie tutto. Nella festa annuale in cui gli adolescenti avanzano alla vita adulta, Jonas scopre di essere il prescelto, giacché possiede tutte le qualità richieste per esserlo. Sarà il Raccoglitore delle memorie. C’è già un vecchio che svolge il compito, che ora passerà a lui la memoria di tutto ciò che è stato e che nessun altro deve conoscere. Mentre inizia a scoprire il negativo della storia precedente dell’umanità, la persona che sta al vertice del Consiglio ci rivela che il compito più grande di Jonas è «tenersi il dolore dentro»: egli non dovrà rivelare ai suoi compagni d’età né ad altri la natura del suo addestramento. Tutti dicono sempre la verità. A Jonas ora è consentito mentire! Dalla frequentazione del vecchio Giver Jonas arriva a scoprire la guerra, la ferocia, l’amore…
La riflessione che propongo all’attenzione di tutti, allora, è “tenersi il dolore dentro”: penso subito alle paure senza nome dei bambini e al dolore muto della perdita e della malattia. Accade a tutti noi di non riuscire a dire la forza che si abbatte su di noi e che ci supera, facendoci ammutolire. “Tenersi il dolore dentro”, allora, non è solo una prescrizione morale, un compito, una virtù, il segno quasi di un dono della persona: tacere, rimandare ad altro, dissimulare il colpo subito con un piccola bugia, sublimare il dolore patito con uno sguardo che tiene insieme e giustifica atteggiamenti e studiati silenzi richiede una forza morale che è diventata manifestazione rara di sé. In questa società, infatti, si esalta ad ogni piè sospinto la pubblica confessione di sé, la trasparenza assoluta, la verità al di sopra di tutto, anche dell’amore.
Più che l’autenticità della persona, che vedrebbe premiata la dissimulazione onesta, si pretende la veridicità (della parola) e la sincerità (dei gesti e dei comportamenti). L’insistenza, l’ostinazione, il tribunale, la testimonianza anonima sono autorizzati, nell’esercizio della ricerca e della ‘sanzione’ della verità. Si cade facilmente nella trappola ‘analitica’ dell’assolutizzazione della singola azione, eretta a emblema e simbolo della persona: una menzogna, un tradimento equivalgono a una condanna senza appello, giacché ci dicono una natura menzognera e ci portano all’esito di una relazione messa davanti all’Irreparabile.
La via del perdono non è praticata a cuor leggero né suggerita come la più doverosa, per salvare una relazione. Riuscire a farlo è la riprova della capacità della mente di saper incorporare e integrare esperienze ed eventi significativi, rinunciando alle condotte espulsive ed evacuative. Coraggio e magnanimità, compassione e gratitudine sostengono bene solo chi si sia esercitato a lungo nell’atteggiamento dell’accettazione della persona dell’altro: tanta parte dell’attività educativa poggia su questo principio.
Ai padri e ai maschi, soprattutto, si richiede questa capacità, il dovere di esprimerla, per dare modo alla vita di dispiegarsi anche nei suoi modi capricciosi e imprevedibili. Il padre, poi, deve essere il lungimirante, colui che va oltre il quotidiano e l’accidentale, perché sa guardare le cose dall’alto, senza perdersi nei fatti e nelle prese di posizione degli altri. Il padre tace, apparentemente senza prendere posizione, in realtà ha di mira un bene più grande o la preoccupazione di preservare i beni presenti, in qualche modo minacciati. È noto l’aneddoto ricavato dalla biografia di Sigmund Freud: il padre passeggiava per le strade di Vienna, tenendosi vicino al muro di un lungo caseggiato. Un grasso commerciante si avvicinò e giunto vicino a lui, gli gridò: «Scansati, ebreo!», dando un colpo secco al suo cappello che cadde nel fango. Il giovane Sigmund, che ascoltava il racconto, aspettava il seguito della storia, proteso verso l’eroe che era suo padre, ma lui raccolse il cappello e andò via. I biografi riferiscono una delusione del piccolo Sigmund, di cui non abbiamo prove. È più giusto pensare che su quella delusione egli abbia saputo costruire dentro di sé l’immagine del Padre, che pensa non solo a sé ma alle conseguenze delle sue azioni. Pensando ad esse, a quello che poteva accadere, se avesse reagito all’offesa, quel padre si tenne il dolore dentro…
Il cuore della mia riflessione, tuttavia, è altrove, nella considerazione dello spettacolo del dolore del mondo a cui siamo quotidianamente sottoposti dai media. Essi non possono fare a meno di informarci. Dobbiamo decidere che ne è di noi, se dare voce al dolore degli altri oppure no, dando così un senso ad esso. Possiamo distogliere lo sguardo, ma, se siamo rimasti umani, ci porteremo dentro, comunque, la traccia di quel forte sentire.
Le agenzie di verità del nostro tempo – scuola, Chiesa, giurisdizione – talvolta si schierano contro l’ostentazione dello spettacolo del dolore da parte dei media: invocano il silenzio, il pudore, la prudenza, la compassione… Bisognerà dire, tuttavia, che ci lasciano soli di fronte a uno ‘spettacolo’ che comunque è già stato sottoposto al nostro sguardo. Restiamo quasi sempre soli di fronte ad esso e finiamo per tenercelo dentro, anche perché è difficile dare voce ogni giorno a tutto il dolore del mondo.
Non lo ammettiamo volentieri, ma nel corso della nostra giornata il nostro umore porta i segni di quella ferita. Tra i fatti di cronaca, poi, in cui qualcuno perda la vita o subisca grave offesa, ci portiamo nel cuore qualcuno più degli altri.
Mentre l’anno volge al termine, la stampa ripropone mese per mese i fatti di rilievo, come la morte dei personaggi famosi, le catastrofi naturali, i passaggi politici, il volto della povertà, la compassione. Sono rari i momenti di festa, dunque non rimproveratemi per questa mia riflessione, che non consegno al 31 dicembre: è partita già. Tutti sentiamo che qualcosa sta morendo e desideriamo ardentemente per noi e per gli altri che i primi giorni del nuovo anno siano nuovi, cioè portino cose buone. Sappiamo, allo stesso modo, che non è mai stato così, che i destini umani non sono scanditi dal calendario: i momenti di gioia e di felicità restano consegnati alla convivialità, al dono, alla gratitudine, spesso alla nostra capacità di tenerci il dolore dentro, magari per non togliere a chi è stato disattento o cattivo con noi la possibilità di durare ancora, non importa se inconsapevolmente.
Un piccolo sgarbo, una disattenzione, una mancanza anche grave, un silenzio studiato ci feriranno ancora. Ciò che conta è la capacità di dire sempre Sì ancora, se ricordiamo il bene ricevuto.
Possediamo tutti il coraggio e la forza, l’indulgenza e la magnanimità. Se sapremo tenere a bada i nostri demoni, non prevarrà il risentimento, né con esso lo spirito di rivalsa e la neghittosità e la tetraggine. Contro la malinconia del così fu, contro l’irredimibile, prevalga la speranza, lo spazio per accogliere in noi l’insanabile diversità, e la capacità di andare oltre l’errore, correggendo l’errore, senza respingere la persona che sbaglia.
Restare umani è continuare a volere il Bene, al di là di ogni commiserazione.
La terra senza il male non è mai esistita. Dovremo combatterlo in noi e fuori di noi, mirando a ritrovarci sempre dalla stessa parte, cioè dalla parte di chi cerca sempre nuove ragioni per dire Sì.

Scrivimi: posta@gabrielederitis.it

Pubblicato in Dolore, Elaborazione | Contrassegnato | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (4) – Il tempo dell’amore

_______________________________________________________________

Lunedì 17 ottobre 2016

Il tempo dell’amore

*

Il potere della memoria non risiede nella sua capacità di far risorgere una situazione o un sentimento effettivamente esistiti, ma in un atto costitutivo della mente legato al proprio presente e orientato verso il futuro della propria elaborazione – Jacques Dérrida

Angelo smemorato

Continuare a scrivere sull’elaborazione è segno del carattere residuale dei discorsi attuali: ciò che resta è un resto, il sopravvivere di ciò che vorremmo inerte, non più vivo, né operante in noi. Il riconoscimento di un peso che avrebbero ancora le cose significa, poi, che il desiderio deve essere interpretato ancora, nonostante i ripetuti addii e le rotture e la distanza e il tempo trascorso. Catalogare e ‘archiviare’ il passato è possibile a condizione che sia tutto chiaro. Il lavoro della memoria, tuttavia, comprende il presente, per il quale si procede nell’elaborazione dell’esperienza vissuta, e il futuro che viene preparato dal modo di consistere oggi qui. Il carattere simbolico dell’elaborazione implica una ricomposizione di sé su altri piani di realtà che non sono dati, non sono già dati.

*

Siamo abituati a concepire l’elaborazione – la riflessione sull’esperienza vissuta – come strumento da mettere al servizio dell’abbandono, della perdita, del lutto. Se prevale questo richiamo al lavoro da fare su di sé quando siamo nel ‘lutto’, cioè in tutte le forme di perdita di cui è dato fare esperienza, sarà necessario estendere il ‘lavoro’ a mancanza, lontananza, assenza, che non comportano di necessità una perdita. La malinconia d’amore, che è consustanziale alla mancanza, andrà combattuta con le opportune strategie di apparizione, a cui faremo ricorso nella vita quotidiana per esorcizzare la mancanza.
Il desiderio di conoscenza (dell’altro che è in noi, come dell’altro che è fuori di noi) che accompagna la domanda d’amore chiede di sapere ma non sempre è orientato nella direzione giusta: lo sguardo si rivolge al passato, come se in quel tempo immemoriale fosse depositato il germe della verità che salva. Vogliamo sentirci dire che le cose sono andate come vorremmo che fossero andate (solo chi sia dotato di maturità affettiva saprà accogliere la verità dell’altro che si dischiuderà davanti a noi attraverso i suoi racconti, che andranno ascoltati e basta: è vera maturità saper custodire nel proprio cuore la realtà dell’altro, oltre le paure e le insicurezze personali…). Ci rendiamo prigionieri del passato, quando la vera conoscenza è del presente: la persona con la quale siamo impegnati a stabilire una relazione è una presenza, si farà per noi vera presenza, se noi sapremo costruire un legame che non sia condizionato dalla paura né dal risentimento.
L’altro è impegnato a consistere nel presente, essendo preso, come noi, dal compito di elaborare il proprio  passato, per farne un’occasione da mettere al servizio del presente. Il presente-ora – luogo dell’esperienza che non si esaurisce nello spazio breve di un giorno, di un avvenimento, di un gesto datato – è tempo-ora, è il nunc che siamo impegnati a dilatare nel dominio del tempo vissuto, per farne possibilità di consistere e certezza del sentire. L’ordine del cuore, infatti, non è estraneo alla dimensione personale del tempo: assegnare all’altro il posto che gli compete nella percezione che ne realizzeremo è operazione ripetuta nel tempo, che ci consente di verificare la bontà del nostro interesse, la forza del sentire, il valore assegnato alla persona.
Chi si staglia davanti a noi non è mera presenza, vuota parvenza: l’apparizione dell’altro è ingresso nella nostra esistenza, se contribuiremo a dare senso a quella apparenza, legandola saldamente alla realtà dell’altro. Si darà incontro, se sapremo, da una parte e dall’altra, tenere insieme apparenza e realtà della persona, istituendo le file di continuità che costituiscono la vera garanzia della bontà della quotidiana contrattazione del significato delle cose; è nell’ancora che torniamo a ripetere e nell’ancora della volontà di sapere che sarà reso possibile dare vita a quella continuità che farà poi storia. E sarà storia da costruire, non rievocazione del passato personale, da spendersi in un improbabile commercio dei significati delle cose. E’ il futuro della propria elaborazione di cui parla Jacques Derrida.
Vivere nel passato, avendo assegnato ad esso il potere di fare giustizia nell’amore, perché luogo in cui sarebbe depositata la verità personale, è consegnarsi alla malinconia del così fu, vissuto come imperdonabile, imprescrittibile, irredimibile: è rinunciare alla possibilità della redenzione del tempo, al riscatto delle azioni compiute, al lavoro di elaborazione del passato, in vista di un significato ulteriore da dare alle cose. E’ il presente il tempo dell’amore, ché è il tempo della presenza, della trascendenza personale, dell’ulteriorità di senso, che contribuiamo ad assegnare giorno per giorno alla vita della coscienza con i nostri atti.
La valorizzazione della trascendenza della persona dell’altro passa attraverso il riconoscimento della trascendenza come realtà della persona che attingiamo facendoci guidare dal suo modo di apparire: solo tenendo insieme apparenza e realtà riusciremo a cogliere la profondità del sentire personale, cioè la sfera del sentimento, che ci conduce al cuore della realtà della persona.
Il visibile ci conduce sempre all’invisibile dell’esperienza dell’altro. Il volto, lo sguardo, la voce, la parola, gli atti dell’altro sono i suoi invisibilia, la realtà più vera della persona. Ad essi daremo voce, nella contrattazione dei significati: indicheremo ciò che ‘vediamo’, ciò che l’amore ci fa vedere. L’intelletto d’amore saprà dare un volto alla persona, saprà risalire dallo sguardo al soggetto inconscio del desiderio, si farà guidare dalla voce verso le oscurità dell’Ombra, accostandosi sempre più alla realtà della persona. Il presente è lo spazio ampio della temporalità della coscienza, il luogo del suo consistere, la dimora del suo essere. L’ek-stasis mondana è la propensione oltre i meri fatti, nell’atmosfera rarefatta ma concreta delle parole, dei gesti, delle azioni, che materializzano la spinta del desiderio: la tensione verso l’altro, che si afferma nel desiderio di conoscenza dell’altro, rivela i modi di darsi e di sottrarsi dell’anima, nella sua apertura alla dimensione estatica dell’altro: la nostra trascendenza è protesa verso la trascendenza dell’altro; i nostri invisibilia cercano gli invisibilia dell’altro. Il commercio delle anime, quando si dia incontro, costituisce il luogo della verità: per noi, «la verità è il tono di un incontro» (Hofmannsthal); solo imparando ad «abitare la distanza» (Rovatti) poi riusciremo a dare voce adeguata al desiderio, trascorrendo coraggiosamente da un ‘luogo’ all’altro, secondo i suoi spostamenti metonimici.

*

α Cadiamo sempre in un errore prospettico di cui non ci rendiamo conto quando ci attardiamo su posizioni sterilmente preoccupate del mero recupero del passato, mentre dovremmo considerare il vero compito di consistere nel presente, il nostro presente, e da lì muovere i nostri passi verso un futuro da costruire come spazio dell’elaborazione dell’esperienza vissuta, luogo di tutti i ‘vissuti’ che affiorano alla coscienza e che reclamano una ulteriorità di senso e spazio nella stessa coscienza, l’istituzione di file di continuità nella trama di sempre nuovi racconti, perché ciò che è stato non precipiti nella malinconia del ‘così fu’: solo ciò che è raccontato prende vita; dare forma alle cose è questo nominare e dare voce a ciò che preme dolorosamente in noi e che ci chiama a sempre nuovi compiti, all’esercizio rinnovato della parola che incanta e commuove il viandante che è in noi. Rimettersi in cammino gioiosamente è la scienza della vita che è vita davvero.

α È coraggio di vivere questo congedarsi dalle secche del passato che non passa, per dare nuova voce ad ogni richiamo delle cose che chiedono senso, che si dia senso a tutte le voci che si accampano sulla scena della vita intorno a noi: ad esse corrispondere non è tradire il senso della nostra presenza – quasi un venir meno alla fedeltà alla terra che ci sostiene e che ci nutre -, se il posto che andranno ad occupare in noi quelle voci contribuirà a dare senso alla nostra vita, facendo diventare biografia l’infranto, se chi ci guarda è interessato a raccontarci la favola della nostra vita. È questo corrispondere alle nostre attese che dà senso all’attesa e alla speranza. Avviene, talvolta, che un ascoltante riesca ad essere angelo per noi. Massimo Cacciari ha scritto che «la creatura è in ascolto»: quell’«è» va scritto in corsivo, per significare che non di pochi ascoltanti di professione è il compito di costituire occasione di salvezza per qualcuno. Ad ognuno di noi sia angelo chi gli sta accanto, che sia capace di raccontare a noi quello che siamo stati, perché sia possibile consistere in questo presente e sperare di essere amati ancora.

Pubblicato in Elaborazione, Tempo | Contrassegnato | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (3) – Oltre il silenzio

_______________________________________________________________

Mercoledì 12 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (3) – Oltre il silenzio

*

Angelo smemoratoLa terra di nessuno in cui ci ritroviamo a consistere precariamente oggi ci è nota. Più che di vuoto, si tratta del nulla che precede ogni scelta, la condizione di chi si ritrovi di fronte a un nuovo non ben definito ancora. E’ la nostra libertà che assume i contorni della sospensione e della dilatazione a dismisura del tempo della coscienza, considerato che lo stesso spazio era occupato in precedenza da relazioni umane che sono venute meno e da compiti da cui siamo stati abilmente esclusi. Quello che ci ritroviamo a ‘chiedere’ senza esitazione, direi perentoriamente, oggi, è il pieno rispetto della nostra identità e del nostro valore. A questa sola condizione siamo disposti ad uscire di casa per andare incontro al mondo. Non siamo chiusi orgogliosamente nella nostra beata solitudine, che non siamo interessati a considerare la sola beatitudine possibile. Siamo in buona compagnia con noi stessi, ma preferiamo essere contaminati ancora dal contatto con l’umanità altrui, soprattutto con l’impegno politico e sociale. 

α  Il vuoto è propriamente la mancanza di senso in cui precipitano le cose prima di noi, cioè prima che interveniamo a dargliene uno con il lavoro quotidiano della coscienza che si impegna nella contrattazione dei significati con gli altri, perché un mondo sostanzialmente estraneo a noi si trasformi in una realtà durevolmente condivisa. Se la semiosi illimitata costituisce l’attività prevalente della mente, segnata com’è dalla preoccupazione etica di accettare quanto pure viene dagli altri e che deve trovare posto nella nostra coscienza, perché si dia vera comprensione delle ragioni degli altri, la condizione tossicomanica è contraddistinta dal lavoro ‘contrario’, di tipo evacuativo: le condotte d’abuso, infatti, come ogni altra forma di dipendenza, mirano ad espellere dall’area della coscienza tutto ciò che è fonte di dolore, la fatica del concetto – per sconfiggere equivoci e malintesi, ambiguità e fraintendimenti -, il lavoro di traduzione e di interpretazione dei propri e dei vissuti altrui, la stessa fatica di esistere, cioè di realizzare l’istanza di fondo del proprio desiderio.

α  Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo.
Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
(da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

*

Pubblicato in Elaborazione | Contrassegnato | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (2) – Il silenzio

_______________________________________________________________

Mercoledì 12 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (2) – Il silenzio

*

Non si può mai dire quanto sia destinata a durare l’esperienza del dolore che accompagna i processi di elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta, se l’elaborazione interessa la rottura dei legami affettivi e l’abbandono sia da elaborare in absentia.

Il silenzio, che viene scelto come risposta alla domanda di senso che accompagna il lavoro di riflessione sull’esperienza trascorsa, assume talvolta i caratteri del rifiuto: da parte nostra, non si tratta di vedere a tutti i costi corrisposto un sentimento che non costituisce più la ragione di un legame; piuttosto, ci aspettiamo che l’altro non si eclissi, rifiutandosi di situarsi all’altezza del passaggio, della transizione a un nuovo ordine per noi. Abbiamo bisogno di comprendere in che modo l’altro si sia sottratto al faticoso lavoro quotidiano di contrattazione dei significati delle cose: dobbiamo dare un nome al soggetto che abbiamo amato e che precipita sempre più nell’insensato, dal momento che non riusciamo più a far corrispondere alle nostre parole le cose. La comunicazione, infatti, si ammala per questa ragione, perché viene meno il senso: come nel caso del lutto, dobbiamo dare un senso a un ‘nuovo’ che non ne ha ancora uno. Il senso che aveva per noi è venuto meno. Dobbiamo ridefinire intere porzioni della nostra esistenza, alla luce del senso nuovo da dare a ciò che ne aveva già uno, ma che lo ha perduto per noi.

«Winston, come fa un uomo a esercitare il potere su un altro uomo?». Winston riflettè. «Facendolo soffrire» rispose – GEORGE ORWELL

Il silenzio che viene opposto dall’altro può essere riguardato poi come espressione di una volontà che ha posto alla base del rapporto di coppia il potere, l’affermazione volubile e unilaterale di sé su di noi: ad esempio, una concezione dell’amore tutta basata sull’idea che debba essere sempre il maschio a ‘servire’ la donna e che solo debba dimostrare interesse e attaccamento per lei produrrà indefinitamente un silenzio produttivo, ché c’è da aspettare solo il cadavere del nemico portato dalla corrente; la prevalenza dei modi autoritari è spia di una mentalità ristretta, a sua volta figlia dell’educazione autoritaria ricevuta; l’aridità di cuore, infine, ma non per ordine di importanza, è alla base di tanti fallimenti a cui vanno incontro relazioni sentimentali in cui sia presente l’incapacità di amare, che si manifesta soprattutto con il silenzio del cuore. 

Se di elaborazione simbolica si deve parlare, c’è da chiedersi a quale ‘simbolo’ si debba far corrispondere la figura del silenzio che ci viene restituita, perché possa partire il lavoro di ricomposizione dell’infranto a un livello più avanzato: il tempo dell’elaborazione sarà lungo per questa ragione, per la difficoltà che incontreremo a dare un nome al silenzio dell’altro. Trovare le parole non basta. Le parole debbono curare la ferita della perdita, riempiendo un vuoto, cioè dando (nuovo) senso alle cose. Non si tratta semplicemente di tornare a vivere, riprendendo il cammino interrotto. 

Quando una relazione sentimentale abbia occupato una parte grande della nostra vita, e quando, in aggiunta, sia stato condiviso uno spazio politico o sociale, se interviene il silenzio di coloro che dovrebbero proteggere lo spazio comune, si aggiunge per noi silenzio a silenzio. Dobbiamo destreggiarci fra due piani di realtà intrecciati, che fanno pensare all’errore iniziale commesso, quando si assunse lo spazio sociale come luogo di incontro e ‘prolungamento’ della relazione privata. Degli errori che si commettono nelle cose d’amore, questo è il più difficile da ‘correggere’: assegnare al lavoro vissuto insieme il compito di alimentare e di sostenere la vita dei sentimenti è rischioso, per il fatto che le divergenze che facilmente insorgono nel tempo sul lavoro contribuiranno a minare le fondamenta della relazione sentimentale. La ‘confusione’ dei piani di realtà è facile in chi, nella coppia, non abbia grandi risorse private da mettere in campo per proteggere l’intimità dalla vocazione a ‘comandare’: lo spettro dell’Ombra femminile, che si aggira ad ogni piè sospinto intorno a noi, continuerà ad invadere il campo, senza lasciare spazio al confidente abbandono di un tempo. 

Se lo spazio pubblico finisce per esaurire quasi le occasioni di vita comune, tutto subisce una torsione ‘ideale’: l’immagine che ci eravamo fatta del partner e della relazione viene ‘coperta’ dalla funzione pubblica, nella quale verranno trasferite e proiettate le tensioni che erano rimaste irrisolte nel ‘privato’. Di qui, la necessità di combattere la battaglia per la chiarezza e per il riconoscimento nella sfera pubblica. L’oscillazione tra i tentativi fatti in una sfera e poi nell’altra dovranno trovare un approdo, uno sbocco nel pubblico, se esso sarà diventato il luogo dell’amore. L’errore iniziale potrà essere corretto solo così, cercando di distinguere e poi di separare i due piani di realtà. Lo sforzo iniziale teso a distinguere, con l’indicazione forte al partner dei compiti, dei metodi, delle funzioni e dei ruoli delle persone impegnate nell’impresa pubblica potrebbe non sortire alcun effetto. Si renderà necessario, allora, porre il problema formale del rispetto dei compiti, dei metodi, delle funzioni e dei ruoli delle persone: sarà la verifica dei poteri, da cui dipende tutto ciò che sarà. Se la risposta del partner sarà la manipolazione dello spazio politico a suo favore, per conservare il potere acquisito a nostro sfavore, e se tenderà a ricondurre sempre tutto alla sfera privata, come se solo lì le questioni potessero essere affrontate e risolte, riproponendo nella sfera privata la stessa pretesa di prevalere, senza scendere mai a patti, senza cooperare, senza concedere mai a noi il rispetto dei nostri diritti, non resterà che combattere la battaglia politica nella sfera pubblica, dichiarando al partner che sarà assunto come piano di realtà esclusivo quello pubblico, con tutto quello che seguirà. Se i tratti di personalità dell’altro non gli consentiranno di cambiare, di introdurre modifiche sostanziali al comportamento, riportando nella sfera pubblica le cose a posto e operando, di conseguenza, le necessarie distinzioni, per salvare l’impresa comune dal conflitto permanente e la relazione sentimentale dalla dissoluzione, non resterà che rendere pubblico il dissenso, formalizzando le critiche e cercando il sostegno all’interno della realtà lavorativa e presso i ‘superiori’, se si tratti di realtà associata. In assenza di risposte adeguate, se gli associati si schiacceranno sulle posizioni del nostro partner, misconoscendo le nostre ragioni, non ci resterà altro da fare se non abbandonare il campo: ci dimetteremo nella sfera pubblica e metteremo fine alla relazione sentimentale, dopo aver verificato che la strumentalizzazione e la manipolazione delle persone e la negazione dei ruoli avrà reso impraticabile la scena. 

Il punto di maggiore chiarezza, per noi, è stato il silenzio del cuore nel nostro partner, che non ha saputo dire Sì per tutto il tempo del dissenso politico e delle verifiche formali alla nostra domanda di democrazia interna, che era accompagnato dall’incapacità di esprimere chiari sentimenti nei nostri confronti: nessuna distinzione è intervenuta, nessuna separazione dei piani di realtà è stata operata, per correggere e salvare il salvabile. Il nostro abbandono è stato accompagnato dal silenzio politico del nostro partner, degli associati tutti, dei ‘superiori’. 

Il lavoro di elaborazione del ‘lutto’ prosegue ora su altre questioni aperte per noi, in parte già affrontate e parzialmente chiarite. Il silenzio del cuore del partner è da ascrivere sicuramente ad angustia della mente e a inerzia dei sensi, per ‘curare’ i quali abbiamo lavorato vanamente per anni: la terapia delle idee suggerita dalla Consulenza filosofica e dalla pratica degli Esercizi spirituali non ha sortito nessun effetto. Probabilmente, una psicoterapia si renderebbe necessaria per porre rimedio ai guasti che provoca una personalità inquieta e irrisolta: il rapporto con il passato personale e familiare e l’insicurezza di fondo che segnano i comportamenti e la sfera del sentire della persona sono lo scoglio contro il quale hanno fatto naufragio tutti i nostri tentativi di ‘cura’: se è sempre vero che l’amore non è cieco ma, anzi, ci insegna a vedere, è altrettanto vero che l’amore non cura e non guarisce, se non ci sia la volontà di migliorare la propria vita, a fronte del disagio e del dolore inflitti a chi circonda la persona che resiste. 

Pubblicato in Elaborazione | Contrassegnato | Lascia un commento

Il tempo dell’elaborazione (1)

_______________________________________________________________

Lunedì 10 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (1)

*

img_1404.jpg
Considerando le età della vita, ad ogni nuova svolta accade di chiedersi quanto abbia influito sul senso di sé che ci accompagna l’educazione ricevuta in famiglia, l’aria che si respirava in casa, il sentimento del tempo, con le paure di ogni genere che segnavano i giorni.
Tutti noi proviamo paura, magari diciamo timore, incertezza, perplessità, dubbio, esitazione, per non dire paura. Preferiamo tacere il sentimento che accompagna l’incertezza, che verte su «ciò che vi è» là fuori, magari prima di uscire di casa. Ogni nuovo incontro, ogni appuntamento importante ci mette agitazione, eccita la nostra fantasia: anticipiamo gran parte di ciò che vorremmo accadesse, ma che puntualmente non avviene. E lo sappiamo bene ogni volta, quando ci disponiamo nell’attesa di un incontro.
I teorici della politica hanno parlato della «piccola paura» che proviamo e che fa bene alla democrazia: è il sentimento del limite, che ci fa temere sanzioni e punizioni.
I rimproveri di mio padre mi hanno accompagnato fino alla sua morte, e su di essi ho scritto dolorosamente contro: posso dire oggi che non sopporto il più piccolo rimprovero.
Le parole che ci venivano riservate erano accompagnate dalla mortificazione: gli adulti ci dicevano che dovevamo abbassare lo sguardo, e non dovevamo ridere durante la cerimonia dei rimproveri. Solo tardi ho compreso che mortificare è dare la morte, volere la morte della parte negativa di una persona, e le intenzioni erano buone, ma forse il bersaglio che veniva colpito non era sempre quello giusto: ne usciva ferita l’anima, mortificato non solo l’orgoglio ma tutto il sentimento di sé. I nostri educatori, i genitori e le maestre, non distinguevano tra la persona e il comportamento. Noi capivamo che dovevamo essere sbagliati noi, se persistevamo negli stessi comportamenti. Non sempre a un rimprovero seguiva un abbraccio. O forse, sì. Rischiamo oggi di pensare che avremmo avuto bisogno di più amore, ma non è vero. Abbiamo avuto tanto amore, solo che era forte la paura di essere picchiati, cosa che accadeva ogni giorno. Forse, abbiamo ricevuto troppi schiaffi, perciò oggi non sopportiamo lo schiaffo del silenzio che uccide. Se ci chiediamo cosa leghi questo nostro presente al più lontano passato della nostra vita, francamente non sappiamo più rispondere. La tentazione di credere che le rinunce e gli abbandoni e le dimissioni di oggi siano il frutto e il riflesso di più antiche ‘offese’ è da respingere. Una piccola parte di noi patisce l’offesa dell’amor proprio ferito. Altre ragioni prevalgono in chi mostra di non conoscere la strada che porta al nostro cuore. Elencarle tutte o dare ragione di quelle che più verosimilmente influiscono sulle scelte altrui è vano esercizio, ché conta solo nell’elaborazione simbolica del ‘lutto’, che andrà condotta fino in fondo, magari ingannando il cuore con qualche bella menzogna che lo aiuti a riprendere il cammino interrotto. La tendenza a ‘sublimare’ è meccanismo di difesa efficace ancora e per qualche aspetto ‘nobile’, giacché riscatta il ‘nemico’, con l’offerta unilaterale dell’onore delle armi. Se poi riesce a prevalere il gioco preferito del riconoscimento realistico della vittoria conseguita dall’altro, abbandonare il campo è operazione poco dolorosa, che non è segnata da alcun rimpianto: alla malinconia del «così fu» segue il sentimento delle cose belle che pure prevalsero in un’avventura comune lunga e feconda.
La dissimulazione onesta prevarrà. Diremo una bugia. Assegneremo all’età raggiunta e alla stanchezza la decisione di andar via, anche se non ci sentiamo né stanchi né vecchi. Chi vuole raccattare gli ultimi pettegolezzi, per vederci chiaro, non avrà soddisfazione. Non abbiamo nulla da imputare alla nostra infanzia, che è stata felice, anche se accompagnata dalla paura; né al comportamento altrui, oggi, che era segnato da tante buone ragioni, se siamo qui a fare i conti con un ultimo distacco. Le parole pronunciate da Kant morente – Es ist gut, Sta bene – ci piacciono, perché indicano accettazione di un compimento; come ci piacciono le parole di Goethe morente – Mehr Licht, Più luce -, perché indicano domanda ulteriore di senso. Non di morte si tratta, certo!, ma che qualcosa si sia esaurito è certo. Krisis vuol dire soprattutto passaggio a un nuovo ordine. Fine di un ordine e transizione verso un nuovo ordine. È tempo di pulizie in casa. Le vecchie carte vengono buttate via, per fare posto a ciò che verrà. Il timore del nuovo è sentimento antico, forte come i rimproveri di un tempo e i silenzi studiati di oggi.

*

α  Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

*

Pubblicato in Elaborazione | Contrassegnato , | Lascia un commento

Elaborazione


*

Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tenta­re di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.

*


Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

*

Pubblicato in Elaborazione | Lascia un commento

Ho sempre sperato che esistesse qualcuno come Lei

_______________________________________________________________

Martedì 10 dicembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (477): Ci dev’essere qualcuno come Lei

*

Hannah_Arendt1
 Accade qualcosa:

Non ho mai dubitato
che ci dovesse essere
qualcuno come Lei,
ma ora Lei c’è realmente,
e la mia gioia straordinaria
per questo durerà sempre.

Lettera di Ingeborg Bachmann
a Hannah Arendt
16 agosto 1962


Questo breve testo compare in esergo nell’opera di Laura Boella Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Tre Lune Edizioni 2000.

Potrebbe far pensare ad un’emozione e basta. Un trasalimento. In realtà, dice un sentimento, la scoperta dell’esistenza dell’altro, una gioia quasi incontenibile, come siamo soliti dire quando ci accade qualcosa di grande, che ci supera.

E’ apparsa Lei, figura grande di qualcosa che era sepolto nel nostro cuore. Lei ha dato voce a un bisogno inespresso. La sua epifania mondana crea uno spazio inedito. Venerazione, Amicizia, Devozione, Amore.

Abbiamo bisogno di credere che esista qualcuno che sia più grande di noi. Qualcuno che non dobbiamo sforzarci di amare, perché la sua esistenza ci viene incontro con il suo semplice apparire. Del genere delle cose perfette, è vera esistenza, pronta a farsi vera presenza nella nostra vita. Coltiviamo una segreta speranza, grati del privilegio ricevuto. Immaginiamo già beni preziosi nascosti nelle piccole cose che accadranno.

Proclamiamo di essere sempre disposti a riconoscere a tutte le creature lo statuto dell’esistente, assegnando nello stesso tempo ‘gradi’ di trascendenza personale, livelli di consapevolezza di sé più o meno alti a poche persone speciali.

Deve trattarsi d’altro, quando esprimiamo questa chiara gratitudine. L’oggetto del nostro sguardo è riserva inesauribile di bene, tesoro di fedeltà, sorpresa ripetuta.

Abbiamo incontrato raramente persone che potessero farci provare un sentimento dell’altro così grande. Se non siamo disposti a credere che si tratti di persone che appartengono a un genere superiore, riusciremo ad inchinarci con la stessa umiltà di fronte alle altre creature?

La gioia provata all’atto della scoperta di questa esistenza speciale per noi durerà sempre. John Donne ha scritto: Tu così viva / che pensarti basta / a fare veri i sogni / e le favole storia! Estrema forma di platonismo dello sguardo, basta pensare Lei perché quella gioia si rinnovi.

E’ quasi un amore quello che ci prende in ogni atto di empatia, ché non è riducibile a pura immedesimazione o partecipazione comprensiva. Quell’esistenza si staglia corposa nella sua misteriosa consistenza davanti a noi, promessa di quel retto conversare cittadino di cui sentiamo così spesso la mancanza.

Certo, si tratta di qualcuno con cui poter parlare! Ritrovarsi l’uno di fronte all’altro e guardarsi negli occhi e sorridere amabilmente dell’immortale volgarità umana. Tutto considerare, niente giudicare tale da non potersene distaccare senza affanno.

Quello che desideriamo per noi, oltre ogni immaginabile godimento, è stare in quel dialogo che non ‘cade’ mai, perché Lei non smetterà di essere fonte di nuove scoperte. Più dell’amore, perché esperienza delusoria, aspettiamo un incontro.

Chi ha abitato lungamente la vita senza nulla disprezzare di ciò che è umano accetterà di buon grado anche la nostra conversazione, forte della consapevolezza che ogni cosa che sia stata creata è buona e santa, se contemplata dall’alto della collina.

Contrassegnato , | Lascia un commento

Tornare a casa da sola di notte: quello che prova una donna

Tornare a casa da sola di notte:
quello che prova una donna

 

Si intitola “Au bout de la rue” (“In fondo alla strada”) il cortometraggio del regista francese Maxime Gaudet. Un piano sequenza di tre minuti, un’unica inquadratura per far vivere allo spettatore quello che le donne possono provare quando si ritrovano a camminare da sole per strada di notte. Una ragazza saluta gli amici prima di incamminarsi verso casa, l’amica le raccomanda di stare attenta. La musica nelle orecchie, la strada poco illuminata. Pochi passi più avanti e un uomo si avvicina cercando di attirare la sua attenzione: “Buonasera. Ehi buonasera. Sto parlando con te! Ma guarda non mi risponde questa… Dove stai andando? Se vai a casa ti accompagno? Ehy, ti sto parlando!”. La ragazza non si volta, continua a camminare seguita da insulti irripetibili. Si possono quasi toccare con mano l’ansia e la paura che prova a ogni angolo svoltato. E poi finalmente il portone di casa e quella sensazione di avercela fatta, che ogni donna prova almeno una volta nella vita (a cura di Marisa Labanca)

Contrassegnato | Lascia un commento

MASSIMO RECALCATI, La perversione come cifra del nostro tempo, 8 giugno 2016

Perché si è attratti dalla perversione 2

Pubblicato in Massimo Recalcati | Lascia un commento

Demoni


.

Lunedì 30 maggio 2016

*

La scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos.
Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno, bensì superare il confine tra realtà e immaginario. – MICHEL FOUCAULT

Nello scrittore il pensiero non guida il linguaggio dal di fuori […]. Le mie parole sorprendono me stesso e mi consegnano al pensiero. – JACQUES DERRIDA

Il linguaggio non è della lingua, ma del cuore. La lingua è solo lo strumento con il quale parliamo. Chi è muto è muto nel cuore, non già nella lingua… Quali le tue parole, tale il tuo cuore. – PARACELSO (Citazione contenuta in James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi 2005, pag.41).

*

angelo-chagall

Parliamo qui di δaίμoν, del demone personale di Hillman: del carattere, della ghianda, della nostra natura profonda, delle inclinazioni, delle vocazioni, di ciò che di più proprio si dà di una singolarità qualunque. E’ la voce che parla per noi, la presenza sempre assente che si fa sentire inducendoci a fare altro rispetto a ciò che diciamo di voler fare e che a volte ci mettiamo a fare, tradendo il nostro più profondo sentire. Il nostro demone può essere anche un demone cattivo, una voce diabolica, forza che divide, che abbatte, che distrugge: Hillman parla di seme cattivo. Le nature malvagie esistono. Esiste la cattiveria.

E’ demone per noi qui il dio della scrittura in noi, la forza e la voce che premono e che chiedono di accedere all’espressione. Lo abbiamo scoperto tardi, quando la vita aveva già provveduto ampiamente a fornirci degli strumenti che credevamo indispensabili ad agire e che credevamo fossero i soli di cui poter disporre per sentirsi anima e non solo un groviglio di energie e di facoltà scarsamente gerarchizzabili e disposte a sottomettersi a una ‘logica’ qualsiasi, nemmeno a quella dell’ineffabile, che non chiede rigore e consequenzialità. Abbiamo impiegato tempo, molto tempo per arrivare a comprendere le forze contrastanti in noi, a tutte riconoscere dignità e senso, a tutte dare ugualmente voce e direzione: la cusaniana coincidentia oppositorum< ci convince: la coesistenza del Bene e del Male nell’uomo è il primo dato dell’esperienza da riconoscere.

Siamo partiti dall’improvvisazione, dalla scoperta di una parte grande di noi che ‘parla’ quando teniamo una lezione o quando dobbiamo prendere la parola di fronte a un vasto pubblico, avendo rinunciato a leggere per intero il nostro discorso, magari affidato alla scrittura. La lezione frontale, poi, non può mai essere ‘letta’: non sarebbe ‘lezione’. Abbiamo lottato per trent’anni e più per arrivare a prevedere tutto quello che avremmo detto ai nostri alunni, lezione per lezione. Negli ultimi anni di insegnamento, abbiamo scoperto che le migliori lezioni erano quelle ‘improvvisate’, non preparate in nessun modo. Abbiamo assaporato sempre più l’emozione di quella ‘impreparazione’ a cui ci esponevamo.

Siamo stati guidati, ancora, dall’idea platonica dell’amore che ci veniva restituita da Umberto Galimberti, là dove evocava un fondo enigmatico e buio dal quale saremmo tutti impegnati a divinare, per fare i conti con la dicibilità  dell’indicibile.

Oggi siamo felici di sapere che c’è un demone in noi che ci precede e ci guida, ci salva e ci danna, perché esso è il nostro destino. Abbiamo fatto nostro, infatti, il detto di  Eraclito – Éθoς άnθropωι δaίμoν -, come è stato interpretato da Hillman per primo: A ciascuno è destino il proprio carattere.

*

Quando Foucault afferma che «la scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos», allude a un potere grande della scrittura che dobbiamo chiarire. Intanto, farne «un elemento dell’ascesi» vuol dire che con essa realizziamo la nostra Ascesi fondamentale, cioè rispondiamo a un’istanza profonda per quanto riguarda l’esito dei conflitti nei nostri rapporti con il mondo, per cui essa diventa fattore mediativo, elemento di compromesso quasi, giacché non è risposta immediata, irriflessa, né mera spontaneità. E’ dare un’altra voce al contrasto, affermare una verità che giace al fondo: affermare una voce che ha in sé la spinta etica costruttiva. E’ in questo la ragione della «trasformazione della verità in ethos» (etopoiesi): è un fare ethos, costume, mentalità, comunità. Se è vero che le comunità non esistono, non sono mai esistite, il fare comunità si renderà possibile, forse, a questa condizione, che il soggetto del desiderio faccia sentire la sua voce, l’istanza profonda e più vera di sé, attraverso la verità che la scrittura sa restituire. Evidentemente, sarà la scrittura di sé la via che conduce ad ascesi, verità, ethos. Così, uno stile diventerà modello, termine di confronto, exemplum. I parlanti troveranno il modo di comunicare e trasmettere parresia. Dire la verità in pubblico, proporre un ‘diario in pubblico’ costituirà la garanzia di verità, consentirà la trasformazione più difficile, cioè l’assunzione della verità proclamata all’interno del discorso pubblico. Uno stile personale si farà stile collettivo, mentalità. E cos’altro può essere questo stile se non ‘dire la verità’? La natura della scrittura, tuttavia, per cui essa ci precede e ci istituisce come ‘scrittori’, è la condizione di verità. Non siamo noi a scrivere: è la scrittura, piuttosto, che ci dà la parola. Diamo voce ai nostri demoni. Ricostruiamo la genealogia del nostro sapere individuale. Andiamo alla radice del bene e del male in noi. Scendiamo ai nostri Inferi, per risalire rinnovati nello spirito. Quando ci sentiamo ‘beanti‘, cioè quando la ferita sanguina, dobbiamo lasciare che sanguini, che parli, che ci dica di noi. Solo per questa via riusciremo ad ‘incontrare’ l’altro che è in noi, come l’altro che è fuori di noi.

 

Contrassegnato | Lascia un commento

Ampio e profondo


Venerdì 20 maggio 2016

*

L’aggettivo latino latus si traduce in italiano con ‘ampio’ e ‘profondo’. Mi piace pensare che un sentimento è ‘latus’. Non semplicemente ‘profondo’, come è proprio del sentire più personale, ma ‘ampio’. Siamo abituati a sentir parlare della profondità dei sentimenti, non della loro ampiezza. Eppure, il riferimento spaziale alla profondità potrebbe essere fuorviante: cosa ci induce a pensare che un sentimento sia profondo? andremo forse a ‘misurare’ quella profondità? non sarà forse riguardato, quando ci esprimiamo così, piuttosto, come un sentimento intenso? Ecco, l’intensità di un sentire, un forte sentire ci porta a parlare di profondità del sentire, di sentimenti profondi. Io preferisco pensare che ‘ampio’ e ‘ampiezza’ si addicano di più a un chiaro sentire. Non dirò un ‘ampio sentimento’, cioè continuerò a dire con voi un ‘sentimento profondo’, ma la nota che restituisce ‘ampio’ mi aiuta a dire meglio quello che mi preme dire ora.

L’attivazione degli strati profondi della sensibilità, cioè la nascita di un sentimento, comporta uno sconvolgimento dell’ordine del cuore: le cose cambiano significato, a volte radicalmente. L’irruzione di una persona sulla scena della nostra coscienza ne ridefinisce i confini: se ci moviamo sempre lungo i sei lati del mondo – alto, basso, avanti, dietro, destra, sinistra -, è tra ‘destra’ e ‘sinistra’ che si gioca una delle partite cruciali. I due ‘lati’ che corrispondono alle nostre braccia alludono insieme a un abbracciare, a un ‘comprendere’, che è propriamente e caratteristicamente ciò che facciamo quando permettiamo a qualcuno di ‘entrare’ in noi, giacché abbracciamo con lo sguardo, comprendiamo, cioè sentiamo, entriamo in contatto emotivamente, superando la linea provvisoria di confine che ci separa lasciandoci nell’indifferenza. Quando consentiamo a una persona, quando diciamo Sì, cioè quando esprimiamo un consenso al suo significato e al suo valore, cioè quando diamo significato e valore a una persona, essa esce dall’indistinto in cui era confinata per acquistare senso per noi: non ci è più indifferente; non si confonde più con gli infiniti oggetti che popolano il Reale che quotidianamente siamo impegnati a istituire, a ordinare, ad ‘arredare‘.

Contrassegnato | Lascia un commento

In questa luce


Giovedì 19 maggio 2016

*

Se ci fosse una ragione per queste sventure
potrei dare una frontiera al mio dolore:
quando il cielo piange, la terra non straripa?
Se i venti infuriano, non impazzisce il mare
col suo grande volto rigonfio minacciando
il cielo? E tu vuoi una ragione
per questo tumulto? Io sono il mare.
William Shakespeare, Tito Andronico

E’ forse questo il tempo della sintesi, della forma compiuta, della chiarezza raggiunta. Non dell’armonia, dell’equilibrio, della misura. La traccia della strada già fatta è utile economicamente, cioè per l’economia delle energie mentali, per non dover ripercorrere sempre di nuovo quanto già è stato esplorato e ricondotto a unità. Sintesi, Forma, Libertà, Responsabilità sono Grundworte (Grundwort è ‘la parola fondamentale’, ciò che c’è di più originario: la base a cui tutto ricondurre. Tutto ciò che c’è da sapere.) Naturalmente, i traguardi raggiunti non sono perfezione, compiutezza, esito, approdo. Ogni nuova conoscenza costringe a ridefinire porzioni, a volte significative, di realtà.
Non dico di essere padrone di me, ma consapevole sì, più consapevole. So chi sono.
Non c’è maturità da raggiungere. Nessuna parola definitiva da pronunciare sulle cose. La maturità degli affetti è altra cosa, come l’esattezza del sentire, che per me oggi sono quasi tutto: le persone possono essere accessibili oppure no; se non lo sono, pazienza! C’è sempre un buon libro che aspetta. E questo è tutto. Questo è sufficiente, per poter dire di essere a buon punto.
Avverto un sentore di risarcimenti in corso, di compensi. Le cose lungamente dibattute, i reclami e le rimostranze incominciano a ricevere risposta. Sembra, così, che le cose tornino al loro posto. Ma il ‘posto’ non c’è più. Non occupo più il posto di prima. Sono tornato ad essere situazionista: credo solo nelle cose in cui credono coloro i quali stanno facendo qualcosa con me.
Il panorama è cambiato. Niente è più come prima. Ho smesso di fare domande, ma anche di credere che sia sufficiente chiedere. Non avendo ricevuto risposta per troppo tempo, ho smesso di chiedere, senza, per questo, dover credere o poter credere. Il disincanto è la fine della tensione verso l’unità che ha sempre contraddistinto la mia vita. Ho rinunciato al mio Streben.
Non sono più mancino, cioè allocentrico. Ho creduto per la gran parte della mia vita che al mio mancinismo corrispondesse una ‘natura’ che la medicina aveva scoperto e segnalato, cioè la tendenza dei mancini a mettere sempre gli altri al centro: non ho mai avuto bisogno di primeggiare; mi è bastato sempre lavorare bene, per il raggiungimento di obiettivi desiderabili, quasi sempre per l’affermazione di altre persone.
Accetto la castrazione. Accetto il dolore. Non mi scontro più con l’Ombra femminile. Raggiungere e Oltrepassare è compito rinnovato, da apprendere sempre di nuovo. Fare i conti con le emozioni altrui è impresa ineludibile, soprattutto quando la rozzezza prevale. Se i parlanti sapessero come l’emozione tradisca sempre uno stato (più o meno permanente) della mente, starebbero più attenti alle loro parole! Di fronte all’indomita volontà di affermazione di sé, oltre ogni ragionevole dubbio, tuttavia, è sempre importante concedere al mondo la sua vittoria, almeno fino a quando non sia possibile riprendere l’iniziativa, per riconquistare lo spazio perduto, o per acquistare spazio vitale.
La difesa dello spazio sociale comune – in cui consentire ad altri ancora di muoversi, perché poi lo spazio educativo si trasformi in spazio transizionale – è sostenuta oggi da una serena e convinta idea teorica: che l’educazione sia esercizio di esperienza e che si debba dare forma al lavoro educativo, per difendere l’idea stessa che ci sia una dimensione educativa dell’agire umano e uno spazio da occupare, accanto al lavoro terapeutico e al lavoro sociale.

*

Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tenta­re di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.

*


Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

*

Continuerò a svolgere il mio lavoro educativo con tutti, convinto dell’unico fatto che conti per me: che c’è uno spazio educativo, che lo spazio educativo deve trasformarsi in spazio transizionale, cioè deve servire ad aiutare le persone a creare lo spazio interiore indispensabile al lavoro di elaborazione dell’esperienza vissuta, che faccia da contenitore per lontananza assenza mancanza abbandono perdita.
Se non si accetta l’esperienza del dolore, non si dà governo dei sentimenti.

Contrassegnato | Lascia un commento