I narcisisti non guariscono mai

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Sabato 14 settembre 2013

IL NOSTRO SENTIRE (2): I narcisisti non guariscono mai

Angustia della mente, apatia dei sensi e aridità di cuore concorrono sicuramente a farci percepire l’altro come poco sensibile ai richiami di chi cerchi le vie d’accesso al suo cuore. Più doloroso ancora è l’impatto con le persone dotate di Io ipertrofico, ‘piene di sé’, mai disposte a concedere il perdono, portate a ‘rilanciare’ sempre senza riconoscere i diritti dell’altro, incapaci di credere ai sentimenti altrui.

Narcisismo, disturbo narcisistico di personalità, anaffettività sono i territori da esplorare. È tempo di guardare negli occhi la Medusa che ci pietrifica con il freddo che si porta dentro.

Il freddo dentro

Un caso esemplare, al riguardo, è quello di Erika De Nardo che il 21 febbraio 2001, all’età di sedici anni, uccise sua madre e suo fratello, con la complicità del suo fidanzatino. Tre anni dopo il delitto e un anno dopo la condanna definitiva, su Erika scese il silenzio. Lidia Ravera scrisse allora Il freddo dentro (Rizzoli, 2003), una lettera ad Erika di 175 pagine con la quale esce dal silenzio e pone domande, perché «Erika ha spostato le frontiere dell’orrore, le ha rese domestiche. Le ha situate in un interno borghese, perfino virtuoso. Fra la gente perbene. Erika rassomiglia troppo ai ragazzi normali. E’, contemporaneamente, turpe e banale, estrema e mediocre, cattiva e sciocca, colpevole e ingenua. Il suo gesto ha disordinato il tranquillo scenario delle nostre convinzioni». […]
Il silenzio «si è richiuso su tutto quel sangue versato, commentato, esposto. Ha coperto le impronte, le intercettazioni, le confessioni involontarie, quelle volontarie, le bugie. Ha coperto la tragedia e la commedia che la tragedia ha bruscamente interrotto. Il silenzio si è sostituito alle accuse, allo sconcerto, all’orrore. E’ sceso su di te come un sudario, a ripararti dagli sguardi, a spegnere l’attenzione. Tutti ne parlano, attorno a te, di questo silenzio, te lo porgono come un dono, lo brandiscono come una spada contro chi vuole ancora parlare. E’ diventato un ‘progetto educativo’, il silenzio. I riflettori, dicono, ti hanno fatto male. Non si può regalare una ribalta a una giovane narcisista.
Non si può premiarla con la notorietà dopo che ha ucciso.
Infatti, non si può.
Ma neanche si può premiarla con il silenzio, dopo che ha offeso le nostre certezze.
Lei ha bisogno di silenzio, noi abbiamo bisogno di risposte, o almeno di continuare a porci delle domande», a riflettere, a pensare, perché Erika è un caso estremo, ma il freddo che è dentro di lei potrebbe essersi insinuato anche in altri corpi giovani, in altre anime. Come una malattia. E la colpa potrebbe essere anche nostra. [dal risvolto di copertina] 

Dopo aver dedicato anni allo studio delle forme pietrificate del sentire, ci sembra di poter dire qualcosa di ‘definitivo’. Ci piacerà essere smentiti da visioni più adeguate della realtà.
Risponde Umberto Galimberti, la rubrica settimanale dell’inserto D di Repubblica, del 20 luglio 2013 – Narcisisti senza speranza? -, presenta la lettera di uno psicologo e psicoterapeuta che lamenta la sua condizione di narcisista. Questo lettore dichiara di essersi sottoposto a lunghe psicoterapie, anche per prepararsi al suo lavoro, ma di avere scoperto che il suo narcisismo di fondo era rimasto intatto. La sua vita affettiva  era precaria e tormentata. Si rivolge al filosofo e psicoterapeuta Galimberti per chiedere aiuto, considerato che il 15 giugno nella stessa rubrica – Perché quelli che si amano troppo non sanno amare – aveva incontrato la sentenza che segue: «Dai narcisisti bisogna stare lontani perché “costituzionalmente” non sanno amare. E dal narcisismo non guariscono mai». Galimberti risponde con Freud: «Al progetto terapeutico si frappone naturalmente l’incapacità di amare del narcisista, che si sottrae alla prosecuzione della cura, per affidare alla persona amata l’ulteriore processo di guarigione, con tutti i rischi connessi alla pesante dipendenza del malato da colei che si è prestata a questo estremo salvataggio». Galimberti conclude: «A questo punto non resta che sperare che l’amore faccia miracoli, e qualche volta li fa».

A parte questa conclusione ottimistica e illusoria, resta il dato, di cui da tempo facciamo esperienza anche sulla nostra pelle, dell’incapacità di amare, dell’insensibilità, dell’aridità di cuore di chi è affetto da questa malattia.

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Leggere anche IL NOSTRO SENTIRE (1): Il nostro sentire – La volontà libera

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Il nostro sentire

Sabato 14 settembre 2013

IL NOSTRO SENTIRE (1): Il nostro sentire – La volontà libera

 

L'ordine del cuore

Leggere ROBERTA DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, GARZANTI 2003

Il «sentire» che Roberta De Monticelli osserva in questo saggio è componente fondamentale della nostra affettività, esplorata nelle diverse manifestazioni: dalle infinite sfumature affettive della percezione sensoriale alla vicenda degli stati d’animo, dagli umori alle emozioni, dai sentimenti alle passioni… Ricondurre questi fenomeni all’interno di una visione d’insieme significa anche cominciare a tracciare una personologia, ovvero una teoria di ciò che siamo. Per condurre la sua analisi, Roberta De Monticelli esplora lo stato della ricerca filosofica per intraprendere poi quella «riduzione all’essenziale» di marca fenomenologica al termine della quale si potrà affrontare il tema dell’indifferenza morale e della banalità del male.

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Un Seminario sul sentire

Intervista a Roberta De Monticelli sul sentire (Festival di filosofia di Modena, 2008)

Leggere L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e incontro con l’altro, di MARA DELL’UNTO

[Recensione de L’INDICE] Roberta De Monticelli ha iniziato i suoi studi con lavori dedicati a Husserl, Wittgenstein, Frege e Leibniz, che discutono gli aspetti logici e ontologici del loro pensiero. Nell’ultimo periodo ha dedicato particolare attenzione al problema, insieme epistemologico, etico e ontologico, della persona, in volumi come La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia (Guerini, 1998; cfr. “L’Indice”, 1999, n. 10) e La persona, apparenza e realtà (Cortina, 2000). Questo suo ultimo libro ne costituisce l’ideale proseguimento nella direzione di una fondazione dell’etica.

L’etica riguarda le persone: io, tu, noi. Che cosa sono le persone? Anzitutto, non sono cose. Più precisamente, una persona è un’entità dotata di individualità essenziale: è unica, irripetibile, non replicabile in serie. Quasi un’ovvietà: per il senso comune, ma non per la filosofia, nella quale signoreggia, da Aristotele a P.F. Strawson, una teoria per la quale Socrate è Socrate perché possiede una serie di proprietà localizzate spazio-temporalmente. Eppure, per fare di una persona quella persona, questo non basta, ed ecco come verificarlo. Se chiedete a un innamorato perché ama la sua amata, vi risponderà: non perché è bella, buona, intelligente, qui o là, prima o dopo, ma perché è lei; in quel “perché è lei” sta proprio il senso di unicità e irripetibilità delle persone.

L’etica, d’altra parte, deve rispondere al problema di come distinguere il bene dal male. Qual è la soluzione secondo De Monticelli? So che qualcosa è bene perché sento che è bene – il sentire essendo la percezione di qualità di valore nelle cose (prima tesi fenomenologica). Qui sorge una facile obiezione: il sentire è soggettivo, dunque anche bene e male lo sono, e così l’etica si dissolverà nel relativismo. L’obiezione sorge da una considerazione riduttiva del sentire, e per rimuoverla è necessario analizzare con precisione il sentire stesso.

Anzitutto, l’affettività umana è un intreccio complesso di tendere e sentire: azione e risposta da una parte, ricezione e ascolto dall’altra. Senza ascoltare non si potrà mai rispondere adeguatamente. Seconda tesi fenomenologica è dunque la seguente: la componente tendenziale dell’affettività deve fondarsi su quella ricettiva; il tendere si fonda sul sentire.

In secondo luogo, il sentire è una struttura stratificata con decorso ascensionale: posso sentire il piacere di questo massaggio o il dolore di questa ferita (livello del piacere e del dolore), ma posso anche sentirmi male perché oggi tutto va storto o euforico perché la fortuna mi arride (livello dei sensi vitali e degli umori), e posso, infine, ammirare quella persona per la sua intelligenza, essergli grato per la sua generosità, amarlo perché è lui, ecc. (livello dei sentimenti). A ogni strato è in gioco una distinzione tra bene e male, che procede dal giudizio “questo è piacevole o doloroso” sino al giudizio “questo uomo è degno di ammirazione, stima, amore, ecc.”. Il primo strato permette giudizi valoriali rispetto a cose, il secondo rispetto alla nostra persona, il terzo rispetto ad altre persone. Il giudizio diretto su altre persone è particolarmente delicato. Ogni altro, abbiamo detto, è unico e irripetibile: il che lo rende un valore in sé. Il livello dei sentimenti permette di sentire questa irripetibile individualità. Come? La risposta si articola in due momenti, statico e dinamico. Solo al livello dei sentimenti è in gioco una comparazione di valori: il giudizio sull’altro è un giudizio secondo la mia scala di valori, comparata con quella dell’altro. La scala di valori, detta anche agostinianamente “ordine del cuore”, contribuisce a fare di ciascuno un’individualità essenziale, e per questo un valore per sé (momento statico). Come si forma un ordine del cuore? Con l’educazione del sentire: esercizio alla precisione assiologica che si guadagna soprattutto nel contatto con gli altri (momento dinamico).

Fin qui si è detto che il sentire è stratificato e che è strutturato secondo un ordine del cuore, risultato di un’educazione. L’accusa di relativismo non è ancora superata: infatti, se ogni ordine del cuore è diverso, e se ciascuno giudica secondo il proprio, ogni giudizio sarà relativo. Occorre guadagnare la nozione di rispetto, e di qui quella di “base universalmente obbligante”. Se risultato di un’opportuna educazione, la scala di valori di ciascuno, oltre le differenze individuali, dovrebbe permettere di sentire l’individualità di ognuno: tale sentimento è il rispetto, il sentire che a ognuno è dovuto lo stesso per il semplice fatto che è una persona. Come nasce il sentimento del rispetto? Con l’amore. Come abbiamo visto, se io amo e sono amato, in questo abbraccio sono in gioco le nostre individualità come tali, nella loro purezza e irripetibilità. Purtroppo, non si può amare tutti, ma si può estendere questo sentimento, in forma debole, nella forma del rispetto per tutti: il rispetto diviene così l’ombra vuota dell’amore – un’ombra importantissima per la morale. L’accusa di relativismo cade, se si suppone che ciascun ordine del cuore debba essere compatibile con una base universalmente obbligante, il cui contenuto è appunto il rispetto, il sentimento di ciò che è dovuto a ognuno in quanto tale. Ora disponiamo della risposta completa all’obiezione: il sentire ha una struttura stratificata e non momentanea, che cresce e va educata; ciascuno giudica secondo il suo personale ordine del cuore, ma questa varietà non porta al relativismo, perché ogni ordine del cuore deve essere compatibile con una base universalmente obbligante, che ha come contenuto il rispetto. La nozione di rispetto deve essere supportata da quella di individualità essenziale: rispetto l’altro perché lo riconosco come individualità essenziale; in secondo luogo, il rispetto è il vertice di un processo educativo: i sentimenti vanno risvegliati, e l’amore svolge un ruolo indispensabile in questo risveglio.

Le tesi principali del libro ci paiono due, una ontologica e una di filosofia morale: esistono entità dotate di individualità essenziale; l’etica si fonda sul rispetto come sentimento di ciò che è dovuto a ognuno in quanto tale. Accanto a queste tesi ce ne sono numerose altre: il realismo assiologico, la priorità del sentire sul tendere, la stratificazione e complessità del sentire, la necessità di educare il sentire. Non è tempo di discuterle tutte, e ci soffermeremo solo su tre problemi, relativi alle due tesi principali. Anzitutto: perché una persona è un’individualità essenziale? Il modo più persuasivo per mostrarlo ci pare quello che fa appello alle parole dell’innamorato: “Amo lei perché è lei”. Ora, a partire dall’amar-lei-perché-è-lei (sentimento dell’individualità come tale) è postulata metafisicamente l’esistenza di entità dotate di individualità essenziale, senza che questa inferenza sia sufficientemente argomentata. Invero, De Monticelli ci rinvia a un suo testo in preparazione, Persona e individualità essenziale. Sull’ontologia e l’epistemologia dell’individualità: forse là, piuttosto che in L’ordine del cuore, sarà da ricercarsi la risposta alla domanda.

In secondo luogo: scopo del libro è fondare un’etica sul sentire; di fatto, esso fonda un’etica sul rispetto. Il rispetto è definito come sentimento di ciò che è dovuto a ognuno in quanto tale, in quanto cioè individualità essenziale – sentimento, dunque, completamente a priori, purificato da qualsiasi riferimento alla sensibilità. È noto come Kant abbia fondato un’etica totalmente razionale e a priori, depurata da ogni residuo sensibile, convinto che solo così si potesse evitare il relativismo morale. De Monticelli, d’accordo con l’accusa di formalismo di solito mossa a Kant, ha tentato di fondare un’etica non relativistica sull’affettività, ma per evitare il relativismo è ricorsa a un sentimento a priori come il rispetto. Si tratta ancora di un’etica del sentire?

In terzo luogo: come evitare che l’individualità si trasformi in assolutezza del relativo? La risposta del libro è la seguente: ciascun ordine del cuore individuale deve essere compatibile con una base universalmente obbligante, il cui contenuto è il rispetto. Sembra profilarsi però un corto circuito dell’individualità: l’individualità ha il suo limite nel rispetto; il rispetto si definisce come il sentimento dell’individualità. In questo libro, De Monticelli ha tentato di ribaltare due popolari luoghi comuni della filosofia, che individualità e sensibilità, sotto rispetti diversi, comportino relatività. Al lettore, che non vogliamo troppo influenzare con le nostre perplessità, il compito di giudicare se ci sia riuscita o meno.

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Che cos’è una scelta? Fenomenologia e neurobiologia, di Roberta De Monticelli   

La novità di ognunoLa novità di ognuno ci guida alla scoperta di questa verità insieme antica e rivoluzionaria, intimamente legata a una delle questioni filosofiche capitali e attualissima, quella del libero arbitrio, oggi messo in discussione dal riduzionismo radicale di molti scienziati. Per fondare la sua riflessione, Roberta De Monticelli intreccia due cammini: da un lato ripercorre i passi dei maestri del pensiero filosofico su questo tema; dall’altro riparte dall’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, dai nostri sentimenti, dai nostri atti. Perché non è certo una riflessione astratta volta a definire la natura umana. Al contrario, sono posti al centro dell’attenzione la nostra vita, i nostri sensi, la nostra carne, i nostri affetti. È proprio grazie alle nostre decisioni – attraverso ciascuna delle nostre decisioni, piccole e grandi – che definiamo la nostra unicità. Siamo noi stessi, in ogni istante, a costruire la nostra identità, la nostra persona. Oggi paiono dominare l’indifferenza politica e morale e il suo contrario, il richiamo a principi astratti d’autorità. La novità di ognuno ci dice invece che ciascuno di noi, fedele alla propria natura, è libero di scegliere – e dunque si deve anche assumere la responsabilità morale e politica delle proprie scelte.

Roberta De Monticelli, “Libertà del volere: un’illusione antica?”, Festival della Mente, 6/9/2009

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Base della conoscenza

Giovedì 24 luglio 2014

Oggi parte il progetto di organizzazione della conoscenza con il ricorso sistematico ai materiali d'archivio accumulati nella 'nuvola' OneDrive. 

https://onedrive.live.com/redir?resid=175386405FC3A1FA!49559&authkey=!AADT2Xf7jZ4rs20&ithint=folder%2c 

è l'indirizzo che porta a BASE DELLA CONOSCENZA, la cartella che contiene tutte le cartelle.

 

 

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Alessandra Pauncz

Lunedì 8 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (4): Alessandra Pauncz

La responsabile del CAM di Firenze è Alessandra Pauncz, autrice del libro Trasformare il potere. Come riconoscere e cambiare le relazioni dannose, edito da Romano. 

Pauncz

ALESSANDRA PAUNCZ è psicologa iscritta all’Albo ed esperta di violenza domestica. Attività di supervisione a gruppi di lavoro sulla violenza domestica. Si occupa dal 1995 di maltrattamento e violenza alle donne. Dal 1995 collabora prima come operatrice di accoglienza e dal 1997 come coordinatrice del Centro donne contro la violenza “Catia  Franci” – Associazione Artemisia – di Firenze. E’ docente di corsi di formazione e perito per il Tribunale di Firenze. Dal 2006 è diventata coordinatrice nazionale della “Campagna del Fiocco Bianco” rivolta alla sensibilizzazione degli uomini contro la violenza alle donne. Nel 2009 fonda il primo centro in Italia per il lavoro con gli uomini autori di violenza contro le donne di cui è l’attuale presidente. E’ comparsa in numerose riviste divulgative sui temi della violenza e come ospite in trasmissioni televisive.

 

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Leggere anche:

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti 

IL GENERE UMANO MASCHILE (2): Assunzione di responsabilità 

IL GENERE UMANO MASCHILE (3): Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti

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Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti

Lunedì 8 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (3): CAM, cioè Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti

La Casa delle donne di Brescia cura la pubblicazione periodica dell’elenco dei Centri di ascolto per gli Uomini Maltrattanti esistenti in Italia.

Il CAM di Firenze è forse il più avanzato d’Italia. Leggere le Linee guida, l’opuscolo di auto-aiuto – Come affrontare la violenza domestica. Piccola guida per uomini che vogliono cambiare -, il pieghevole per gli uomini, il pieghevole per gli operatori, la bibliografia.

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Leggere anche:

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti 

IL GENERE UMANO MASCHILE (2): Assunzione di responsabilità

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Assunzione di responsabilità

Domenica 7 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (2): Assunzione di responsabilità

«La violenza sulle donne è questione che riguarda innanzitutto gli uomini ed è quindi necessario che nel mondo maschile cominci ad aprirsi una discussione» – Daniela Albanesi, Presidente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria

Per quanto mi riguarda, l’impegno che parte da qui, da questa Rubrica – Il genere umano maschile -, è un modo per parlare al pubblico maschile che mi legge, che esorto a schierarsi senza timori e reticenze. È tempo di aprire una discussione sulla maschilità, su quello che significa essere maschi oggi, di fronte all’emergenza rappresentata dalle uccisioni di donne e dalle violenze che esse subiscono, considerate in tutte le loro forme. Di esse occorre rendere conto, con un’informazione quotidiana. Io lo farò. Qui, non farò altro. Diffonderò tutte le notizie che abbiano a che fare con questo problema. Sarà il mio modo di dimostrare la volontà di assumermi la responsabilità di essere maschio: lo sono, ma per potermi sentire tale, senza vergognarmi di esserlo, debbo lavorare perché le donne non subiscano altra violenza, perché cambi il potere, perché cambi la mentalità, perché si affermi la differenza in pace dei sessi e delle culture.

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Leggere anche:

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti

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Uomini non più violenti

Sabato 6 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti

Del genere umano maschile avevo iniziato a parlare per un libro soltanto, il 15 aprile 2011, nel tentativo di ‘salvare’ ciò che di più umano ravvisavo nell’umanità maschile: la solitudine dei padri, tra le altre cose.

Un’occasione nuova si è offerta il 26 giugno scorso, quando ho potuto leggere un servizio che si apriva con queste parole: “Uomini che maltrattano le donne. E si pentono”. Dunque, c’era qualcuno che registrava finalmente il cambiamento, addirittura presso coloro che condizionano l’immagine del maschio oggi, fino a causare la riproposizione dello stigma di sempre: il maschio è violento. L’impressione che ricevo dalla lettura dei giornali da qualche anno, infatti, – sicuramente da quando insistentemente si parla di femminicidio – è che l’ombra della violenza sia calata su tutti i maschi. Difficile, per questo, nascondere il disagio e la vergogna.

«La violenza sulle donne è questione che riguarda innanzitutto gli uomini ed è quindi necessario che nel mondo maschile cominci ad aprirsi una discussione» afferma la Presidente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria, Daniela Albanesi. Incominciamo a parlarne, dunque. Il 26 giugno ho scoperto, altresì, e con piacere, che in Italia esistono 11 Centri di ascolto per uomini maltrattanti (Abuser). Ho stabilito subito un contatto con Solidea “Relazioni libere dalla violenza” di Roma e con il CAM di Firenze, perché intendo lavorare alla creazione di un Centro di ascolto analogo nella mia città.

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Lettera d’amore in ritardo

Giovedì 25 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (474): Lettera d’amore in ritardo

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Il volto interno

Domenica 21 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (473): Dell’amore il volto interno

Finché una luce senza margini d’ombra
illumina l’oscurità del tempo,
risale ad uno ad uno i suoi tornanti
e m’accorgo di te entrata nella mia vita
neppure mi chiedo da che parte e quando
e se lo sei o se invece non sei sorta
su dalla sua profondità di notte in notte affiorando.
– Che farà qui – mi dico mentre splendi
e sorridi un sorriso anche mio – forse
veglia su di me. Forse affina da sempre il mio pensiero
occupato da troppe parvenze e monco –
e ti guardo come sei, già nota
sebbene mai prima d’ora veduta
e stupisco che l’amore abbia questo volto interno.

Mario Luzi, Il pensiero fluttuante della felicità, dalla raccolta Su fondamenti invisibili

Di tutte le epifanie mondane di cui abbiamo fatto esperienza fin qui la sola che si affermi tra gli istanti eterni come irripetibile apparizione c’è lei, ogni volta di nuovo, solo colei che fa tremare il nostro cuore e ci riempie di gioia quando cade sotto il nostro sguardo e si fa subito sguardo che sorride a noi, soltanto a noi.

Avevamo apparecchiato per il rito d’amore un’altra macchina per noi, che valesse a proteggere le deboli mura dietro le quali credevamo di aver messo al riparo il nostro cuore. Avevamo immaginato un lento incedere, i gesti misurati di chi accortamente apre e chiude come fa la primavera con i suoi primi boccioli, lunghe pause dell’anima e spunti e avvertimenti e cenni di assenso, perché volevamo essere maneggiati con cura.

Ma lei era lì, già viva presenza che chiedeva ulteriorità di senso, un altro senso ancora, già desiderio di conoscenza. Noi la conoscevamo appena, eppure volevamo già fermare il tempo, ripercorrendo infinite volte gli istanti appena trascorsi per il futuro gioco della memoria. Cos’altro è poi il bisogno irrefrenabile di vederla ancora, quando si sia appena allontanata, se non l’urgenza della mente di disegnare ancora i confini e le frontiere interne e le piccole ombre e misurare la luce che promana dal corpo d’amore? 

Le sue esitazioni sono state pure avvertimento, e il silenzio non pausa né accorto meditare. Le sue ostinazioni non erano attesa di un’altra certezza da fornire, perché uscisse dalla fredda insicurezza in cui sempre si cacciava. Attraverso gli occhi, invece, attraversò fino all’ultima stanza il labirinto, mentre la mente estatica contemplava ancora stupefatta il volto interno di quello che si ostinava a chiamare amore.

La viva presenza è presenza viva solo se a sua volta protesa a cogliere l’ek-stasis della propria presenza mondana. Non basta amare ed essere amati, se quest’ultimo modo di consistere nel mondo non è consapevole accettazione della propria mondana presenza, oggetto di un desiderio che attenderà sempre una risposta.

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Non ci basta primavera?

Martedì 16 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (472): Non ci basta primavera?

Accade raramente di ritrovarsi a considerare che un’occasione preziosa è stata sciupata per insipienza e per impazienza. Siamo convinti che intervenga a compromettere una relazione umana che stava per nascere la nostra stupidità o una catena di sfortunate coincidenze. Equivoci, fraintendimenti, incomprensioni… Mentre, invece, è solo l’impazienza a guidarci verso la rovina.

Negli uomini ci sono due peccati capitali, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e negligenza. Per l’impazienza sono stati cacciati dal Paradiso, per la negligenza non vi tornano. Ma forse c’è un solo peccato capitale: l’impazienza. Per l’impazienza sono stati cacciati, per l’impazienza non ritornano. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

Non si può dire, però, che non ci si possa adoperare ad arginare la piena dei nostri affetti, per orientarli verso sponde più sicure. Basta ritornare a fare con metodo quello che ci eravamo disposti a fare prudentemente.

Tutti gli errori umani sono impazienza, interruzione precipitosa di ciò che è metodico, apparente recinzione intorno all’apparente. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

Quello che resta lì a ricordarci chi siamo è l’errore commesso invadendo il campo con affrettate iniziative, con l’enfasi e l’entusiasmo, l’eccesso di interpretazione e il malcelato interesse ad acquisire un amico in più. Bisogna far finta di niente, magari fischiettare spensierati, per ingannare la vita e farle credere che il giardino non ha bisogno di acqua né di particolari attenzioni. Non ha bisogno di delicatezza né di essere maneggiato con cura. Non provvede primavera a risarcire le sue creature con i venti opportuni e le acque salutari e le ondate di luce e il tepore improvviso? Perché chiedere ormai quello che sicuramente verrà a recare conforto e ristoro? L’inverno è finito. A che vale l’affanno e la corsa e il trepido interrogare? Primavera è arrivata.

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Leggere Foucault

Lunedì 8 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (471): Leggere Foucault

foucault1SPECIALE MICHEL FOUCAULT, un Seminario… Genova 4 Aprile 2013 –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT – Mario Galzigna, uscire dall’oleografia psichiatrica  –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT: Mario Galzigna, la follia al di la’ della confisca istituzionale  –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT – Mario Galzigna e Paolo Peloso, La follia tra prossimita’ e distanza

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Dopo l’amore

Venerdì 29 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (470): Dopo l’amore

È un dolore diverso e difficile da sopportare. Non colpisce una regione del cuore tra le altre. Ne esce alterato il senso di tutta un’esistenza.

Ci siamo affacciati alla vita in un mondo in cui il matrimonio era indissolubile, l’amore eterno, l’esperienza sentimentale del tutto oscura: la cultura romantica era ancora ‘operante’: la sfera degli affetti confinava con l’assoluto e l’eterno. Nessuno era in grado di ‘pensare’ i sentimenti: essi apparivano nella nostra vita misteriosamente e sembrava che dovessero durare per sempre. La loro genesi, lo sviluppo, la durata erano questioni che nessuno si poneva. Si trattava di doni della vita sui quali nessuno osava interrogarsi. La mancanza di chiari riferimenti concettuali e l’assenza di ‘avvertimenti’ sul da farsi portavano tutti a credere che ci si dovesse affidare alla loro ‘bontà’, salvo poi affrontare separatamente la questione dell’errore e quella del male come prodotti della libertà personale: ogni errore e ogni colpa andavano ascritti alla sfera della responsabilità personale: i sentimenti negativi potevano essere riguardati come oggetti da studiare e su cui discutere. Direi che soprattutto l’amore conservava l’aura di mistero che aveva guadagnato nel tempo.
Se avessimo avuto ‘intelletto d’amore’, avremmo tenuto insieme luce e ombra, illuminando la zona luminosa, magari per decidere meglio di che cosa tutta quella luce fosse fatta, senza trascurare gli ‘avvertimenti’ che pure ci venivano dall’esperienza e che avrebbero renderci consapevoli di quanta ombra ci fosse in quell’esperienza.
È stato detto autorevolmente che l’amore non è cieco, anzi insegna a vedere. Ma quanta ‘sapienza’ si richiede per arrivare a ‘vedere’ e poi ad agire sulla base di ciò che si è compreso dell’altro? Perché, pure in mezzo a questo chiaro vedere, non riusciamo a decidere quasi mai che non vale la pena di inaugurare una relazione che si presenta già con caratteri a dir poco problematici? La conoscenza dell’altro è possibile solo dentro la relazione sentimentale ‘conclamata’? Perché non riusciamo a dare (il giusto) peso agli ‘avvertimenti’ dell’esperienza e al giudizio di coloro che, talvolta, ci mettono in guardia dal proseguire sulla strada imboccata?

Abbiamo impiegato quasi tutta la vita a districarci nella foresta di sentimenti, ostentando nella vita quotidiana una certa ‘sicurezza’ sul nostro sentire e sulla possibilità di intrecciare relazioni sentimentali soddisfacenti. Fino a quando non abbiamo scoperto che eravamo impegnati in una battaglia per il riconoscimento senza fine. In realtà, ogni cosa significativa e sana vive nel tempo, è fatta di momenti di verifica che non possono essere rimandati all’infinito: abbiamo appreso a nostre spese che modi sbagliati di intendere i rapporti uomo-donna, ad esempio, influenzano pesantemente la relazione affettiva, interferendo con i modi di risposta alla domanda d’amore. Ambivalenza e irresolutezza, che sono le caratteristiche di fondo della sensibilità romantica, sono la peste che trasforma poi ogni cosa, alterando il fragile equilibrio che sempre tiene insieme ogni relazione che si basi sulla reciprocità dello scambio. Senza tale chiara volontà, siamo di fronte alla patologia del sentimento, alla malattia dell’amore. Ci sono amori malati che bisogna aiutare a morire, per salvare la propria salute mentale e tornare a vivere in modo sano. Quando ci accada di essere noi l’oggetto del rifiuto, se l’esito finale tarda a manifestarsi, per  la pura volontà di perpetuare un rapporto che non si vuole troncare, a noi resta il comito di gestire il malato terminale. Bisogna aiutarlo a morire. E non è facile.

È un dolore difficile e diverso da sopportare. Quando lo stato di sospensione e la vana attesa si fanno deserto degli affetti, e ogni contatto non ci recherà più alcun conforto, ci ridurremo ad oscillare tra buone maniere e recriminazione. Come se ci fosse qualcosa da salvare ancora!

Ci siamo chiesti negli ultimi decenni cosa si debba raccontare ai ragazzi in materia di sentimenti, particolarmente oggi, in un tempo in cui si parla solo di emozioni, raramente di sentimenti. Si può dire che l’amore è un sentimento ‘a tempo’, che di solito dura qualche anno, difficilmente per tutta la vita? La realtà delle tante unioni felici si presenterebbe subito alla mente come un argomento efficace contro tanto ‘realismo’. Resta il fatto che il costume è cambiato. Il modo di sentire collettivo si è fatto pragmatico, cioè meno propenso a sposare teorie generali buone per tutti i casi. Ognuno di noi è portato a pensare che il campo degli affetti è forse il campo in cui la libertà personale si manifesta più ampiamente. Siamo, tuttavia, ancora soli di fronte alla vita e al suo ‘spettacolo’: le cose si manifestano a noi in modi sempre inediti, anche se ci affanniamo a vedere sempre lo stesso nelle più diverse situazioni, per quel bisogno di identità che impone il ricorso all’immagine della continuità della vita. Ad essa applichiamo schemi di comodo, per metterci al riparo dalla tempesta delle passioni e dalle intermittenze del cuore. Giuriamo fedeltà ed eternità per gli affetti che proviamo, ma ci scontriamo con il venir meno degli stessi. Si smette di amare, per la gravità delle incomprensioni, per l’insuperabilità dei fraintendimenti, per la volontà di non perdonare.

È un dolore diverso e difficile da sopportare, perché non c’è più amore. A questo non eravamo preparati. Abbiamo saputo affrontare tutto, le nascite e le morti, l’esaltazione per ogni nostra nuova nascita, ma anche l’afflizione per le perdite per cui non eravamo pronti. Questo dolore è più forte della stessa morte. Non perché l’amore fosse grande e abbracciasse ogni cosa in noi, ma per il fatto che questo abbandono ha il sapore del rifiuto, che si accompagna ad altri rifiuti che stiamo vivendo negli stessi mesi e nelle stesse ore. A questo dolore non siamo riusciti a dare ancora un nome.

È un dolore diverso e difficile da sopportare. Ne esce ridefinito il senso di tutta un’esistenza, perchè l’amore per noi non è solo l’amore per una donna: non si è trattato solo di una storia d’amore. Quando all’oggetto d’elezione sono state riservate le cure che nemmeno una figlia ha ricevuto e sono stati compiuti i gesti che avrebbero dovuto assicurare per sempre il riconoscimento e l’amore ricambiato, non è possibile fare a meno di pensare che si è trattato di un sentimento mal riposto, di una fiducia immeritata. Il tempo del disamore porta inevitabilmente con sé il disincanto. All’incanto perduto succede fatalmente la prosa quotidiana. Tutte le forme di deprivazione che vanno a costituire il tempo-dolore non possono essere compensate né surrogate da alcunché. Per chi scrive non si è trattato di una canzone di Cole Porter.

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Il Segreto

Martedì 26 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (469): Il Segreto

«C’è un solo segreto, tra i valori maschili, ed è il segreto del padre: il padre che si fa segreto, che tace gli affanni, senza rinunciare al respiro lungo della vita distesa, che scioglie i grumi di dolore e rende giustizia dei diritti di ognuno nella propria mente ospitale. Il padre, infatti, è il lungimirante».

All’appuntamento con la vita solitamente si arriva impreparati come genitori: i titoli di studio non aiutano a fare bene. Se non fosse così, dovremmo concludere che gli Psicologi, in quanto scienziati dell’anima, saranno i migliori genitori! Tutte le altre categorie professionali, d’altra parte, avrebbero da rivendicare ‘competenze’ utili. Quale artigiano rinuncerebbe a credere, ad esempio, che la casa va avanti per i lavori grandi e piccoli che è in grado di fare, non solo per l’ordinaria manutenzione?
Non appena ci accingiamo a dire la ‘cosa’ – e la ‘cosa’ è l’oggetto del contendere, cioè l’Educazione, il modo in cui aiutare un figlio a crescere – le nostre ‘competenze’ si sciolgono come neve al sole. È lo ‘spettacolo’ della vita stessa che, fin dal suo primo apparire, ci costringe a rivedere il nostro lessico, il significato da sempre dato alle cose, il posto che occupiamo nel mondo. Non c’è una scienza conchiusa a cui attingere.

È stato detto che quando nasce un bambino in realtà nasce una madre. Quando nacque Sara, ebbi la sensazione forte che il mio organismo stesse subendo brusche trasformazioni. Quando nasce un bambino, nasce anche un padre.
Io credo, invece, che il padre fosse già presente in me, da molto tempo. Ne ebbi un chiaro sentore quando mio padre mi mise davanti una lettera che veniva dalla Direzione generale della Banca in cui lavorava. Mi disse: «Leggi e dimmi quello che c’è scritto». In seguito, volle che scrivessi io la risposta per lui. Avevo solo quattordici anni. Frequentavo il IV Ginnasio. Cosa aveva visto mio padre in me? solo una competenza linguistica?, peraltro ancora allo stato nascente! Oppure, come a me piace pensare, una misura, una saggezza che serviva in un momento di gravi decisioni?

Osservando in classe i nuovi alunni anno per anno e nel corso della loro crescita come studenti, ho avuto spesso la sensazione viva che in molti ragazzi ci fosse già il padre, per un senso della dignità personale, per la riservatezza, per la lungimiranza, per il rispetto delle ragazze e per la capacità di essere fattore di protezione per i deboli, fin dal primo anno della Scuola Media Superiore! Essi erano in grado di reggere all’urto delle situazioni dirompenti senza perdere la calma; sapevano assorbire in silenzio torti e mortificazioni a cui le circostanze suggerivano di non rispondere, per prudenza; erano equilibrati nei giudizi; capaci di mantenere i segreti; generosi e irreprensibili nell’amicizia.

La giusta ira che mi porto dentro oggi riguarda le persone che giocano con la sensibilità maschile e le situazioni in cui del valore maschile non risalta nulla. La sensazione nevrotica di non essere stimati né rispettati come padri è forte.
Con la storia del “padre assente”, tutti si approfittano vilmente delle situazioni per ritagliarsi spazi indebiti che tolgono la parola ai maschi, mostrando ignoranza criminale dell’umanità maschile, della sofferenza silenziosa in cui si consuma la condotta personale, in mezzo alla violenza delle parole che si sostituiscono alle persone e alla loro realtà umana.

Anche nel lavoro sociale che svolgo nel Centro di ascolto predomina la chiacchiera da bar sui padri, che sarebbero assenti, che arrivano ultimi alla battaglia contro la droga…
Il momento cruciale e decisivo di tutto il cammino di recupero dei ragazzi, tuttavia, è dato sempre dalla (ri)scoperta del padre. Il compimento dei processi riparativi e ricostruttivi è dato dai momenti di incontro tra padre e figlio.
Quello che si diranno, poi, è bene che resti patrimonio di chi è disposto ad ascoltare la vita e a rispettarla nella sua realtà segreta.

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Che c’è di peggio del fatto di ricordare il tempo felice nel tempo della miseria?

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Ricordando Domenica, 6 febbraio 2011

CAMMINARSI DENTRO (468): Feierlich und gemessen – Solenne e misurato

Come il movimento di una Sinfonia che si levi in crescendo per sostare meditante, in attesa della pausa breve, il cuore a volte avanza intrepido in mezzo alle voci che si accavallano scomposte per affermare la sua nota, il timbro di un’anima. Si ferma, allora, interdetto e perplesso, distratto da quelle voci che si fanno frastuono fastidioso e rumore, per ritrovare maestoso il cammino appena interrotto: il tempo di un’esitazione e poi di nuovo un polifonico succedersi di piani di realtà sfiorati, accennati, decisamente toccati.

E’ così che avanza la voce del desiderio nelle notti di luna, quando la sua pelle rispecchia il volto di Selene e tutt’intorno è festa di cicale e la nottola tace. E’ questo silenzio che siamo protesi ad ascoltare. Siamo in attesa. Quando la cicala interromperà il suo monotono frinire, il verso spettrale dell’uccello notturno annuncerà sinistri eventi al cuore. Questo temevamo. Che un segno esterno si facesse segnale, promessa smentita di nuovo dal cicaleccio del mondo, che si fa da presso a dire cose inaudite e strane. Che il tempo dell’amore è finito. Già il poeta aveva messo in guardia: il canto dell’allodola è cosa ben diversa dal canto dell’usignolo. La notte è finita.

Perché non accettiamo la felicità di un giorno – di una notte – e pretendiamo, invece, file ininterrotte di continuità, una condizione riservata solo agli dei immortali? Non fu voce del desiderio anche la sua? Non erano rivolti a noi sorrisi e gemiti, i dolci sguardi e le pause assorte dell’anima? Cos’altro chiedere al cielo, se non un’altra notte ancora, un incontro ancora con il nostro destino, il miele delle ore  e dei giorni non degli anni e dei secoli, la Luna su di lei, il dolce che si distilla nel cuore affannato? che si calmi il respiro, per più delicati affanni, per l’abbraccio, i capelli scompigliati e i lacci del cuore finalmente vinto dalla grazia e dal canto che monotono incede a ricordare che anche un’altra notte è passata?

Sia allora solenne e misurato il canto dell’anima che muta risponderà al canto di lei. Osservare l’incanto del suo stupefatto esistere. Un’altra nota ancora. Salutare insieme il giorno che avanza, io pianoforte, lei violino, e sentire l’eco della cicala, perché la notte continui ancora nel cuore assonnato e stanco.

Lunedì 25 marzo 2013

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Non basta essere soli

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Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (467): Non basta essere soli

Non bisogna dire ‘single’. Non bisogna scriverlo da nessuna parte. Come sono portati a fare i ragazzi, che hanno bisogno di gridare al mondo che un altro amore è finito. Quell’annuncio, poi, insospettisce: non è la sanzione del raggiungimento di uno status del tutto nuovo, una condizione che è anche scelta, come si addice a chi se ne va a vivere da solo e ci resta per sempre, acconciandosi a comprare singole porzioni di tutto, perché ormai il commercio mette nel conto anche la categoria dei solitari. Quell’annuncio insospettisce proprio perché è un annuncio: i single non vanno dicendo in giro di esserlo. Chi lo fa probabilmente è nella condizione del non-impegnato (ancora) sentimentalmente.

Non bisogna dire ‘single’, per non incorrere nella critica che parte dagli scettici: non tutti sono disposti a credere che non lo facciamo per dichiarare surrettiziamente la nostra disponibilità sentimentale. Questo è disdicevole, dal nostro punto di vista. Che senso ha, infatti, ‘mettersi sul mercato’ ad aspettare che risponda il prossimo partner, quando noi stessi finiamo per andare ad infastidire anche chi è impegnato già sentimentalmente, dimentichi dell’antico comandamento? E’ come se fossimo già tutti disponibili. Se è fatale che nasca l’attrazione per una persona, perché farsi prendere dall’impazienza di una dichiarazione che sa di impazienza? Può servire ad accelerare i tempi? Accorreranno a frotte partner impazienti?

Non bisogna dire ‘single’, per non affrettarsi a rinunciare al piacere di essere ascoltati ancora, perché anche un partner che ci abbia abbandonati è sempre il partner che amava ascoltarci. Sia così, allora. 

Sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.

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