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Domenica 2 settembre 2012
CAMMINARSI DENTRO (405): Contro l’inattendibilità dei sentimenti
E stupisco che l’amore
abbia questo volto interno.
MARIO LUZI
Il 24 novembre 1980, giorno di acquisto delle Elegie duinesi di Rilke, presenti nella Collezione di poesia Einaudi, scoprii tra i temi della poesia stessa «l’inattendibilità dei sentimenti». Naturalmente, non mi impegnai a circoscrivere l’applicabilità del concetto al solo campo della poesia rilkiana: ancora oggi, non è in quel quadro che mi spiego un’idea così radicale sul nostro sentire. Assumevo i temi ‘negativi’ di Rilke come espressione forte di una conoscenza dell’anima che superava quella degli studiosi tutti della mente e dei filosofi. Era come se procedere fosse possibile solo a condizione di avere sconfitto quell’idea.
Io conoscevo già la Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, in cui si descriveva una crisi del linguaggio che si spingeva fino al punto di confessare la perdita di senso di parole come ‘corpo’, ‘anima’, ‘mente’, ‘spirito’, ma si trattava di una società che viveva forse la sazietà di una condizione annoiata e stanca che solo in parte poteva essere ricondotta alla temperie culturale in cui erano nate le Elegie.
Avvertii, tuttavia, che da più parti giungevano a me segni di una crisi spirituale profonda ed estesa, che arrivava a incrinare i fondamenti dell’esistenza umana.
Mi colpì la Terza Elegia in particolare, là dove parlando del giovane, il poeta si rivolge alla ragazza per ammonirla: egli non ama solo te; anzi, in te egli sogna l’antico fermento, tutte le donne che ti hanno preceduta; egli vede in te, oltre te, tutte quelle donne… E come potrebbe essere diversamente!?
I luoghi della poesia in cui lo scompiglio e il turbamento si accampano sulla scena, mostrando un paesaggio straniato ed estenuato, sono tanti: basta rivisitare per intero il testo delle dieci elegie.
Ai miei occhi sonava sinistramente come destabilizzante un’idea che negava consistenza ai sentimenti. Ero ancora convinto che essi vivessero quasi di vita propria, che niente potesse scalfire un moto perenne che era dell’anima, dunque insondabile e inafferrabile.
In seguito, mi ritrovai solo a combattere ‘teoricamente’ contro un fantasma che rendeva insicuro il territorio su cui riposavano le mie certezze. Chi potrebbe negare che nel silenzio della nostra anima a fatica facciamo i conti con il nostro sentire? Ricorriamo all’aiuto della Poesia per dare senso ai nostri terrori e alle vanificazioni di cui facciamo continuamente esperienza. «Intermittenze del cuore», «arcipelago delle emozioni», «confusione dei sentimenti» e altro ancora contribuirono nel tempo a farmi sentire che vacillava il senso della stessa esperienza personale.
Più di tutto, però, fu determinante l’ostinazione di una donna, una feroce insicurezza personale che si nascondeva dietro una personalità forte e autoritaria. Quest’ultimo tratto di personalità, però, avrebbe dovuto rendermi certo che un’educazione autoritaria a sua volta aveva generato quella mentalità ristretta e che non si trattava di un dettaglio facile da emendare. Solo ora so cosa sia l’angustia della mente. Ci inventiamo esercizi spirituali per ‘correggere’ e favorire la crescita personale, ma occorre una disponibilità al cambiamento perché acquisti senso l’espressione ‘esercizi spirituali’. I farmaci non bastano. Occorre la volontà del ‘malato’ di guarire. Se il malato, poi, accusa il ‘medico’ e l’amico e l’amante e il compagno di vita e rifiuta il farmaco, ciò che resta è il calvario quotidiano della recriminazione e del sospetto, del fraintendimento e dell’equivoco, che la vita dispensa a piene mani a tutti noi. Se non si impara a “raggiungere e superare”, come intuì genialmente una mia alunna di primo liceo, tanti anni fa, si resta impantanati e si impone al partner di star fermo, perché ad ogni angolo è il rischio del ‘tradimento’. Se poi, ogni incidente di percorso, pure chiarito, e infinite volte, resta lì, come documento di tradimenti reali, effettivamente consumati, c’è da chiedersi se siamo in presenza di quella che è stata chiamata psicopatologia della vita amorosa; se, cioè, abbiamo sbagliato partner; o se non si tratti, piuttosto, ancora della vita che pretende da noi prove ulteriori di una ‘volontà d’amore’ non sufficientemente ‘dimostrata’.
Ho recitato la mia parte fino in fondo, perché – come mi ha insegnato Edgar Lee Masters – in questo consiste l’onore. Ho lasciato la ‘psicopatologia’ sullo sfondo – per non impazzire assieme a lei – e ho continuato ad onorarla, onorando il patto d’amore. Non ho mai creduto alla spada di Alessandro che, a Gordio, con un sol colpo ‘sciolse’ tutti i nodi: io credo che a noi spetti, non essendo ‘generali’ di un esercito in guerra, di sciogliere i ‘nodi’ della vita uno per uno, senza immaginare mai che siano troppi per noi. Solo così andremo incontro al nostro Destino e ‘realizzeremo’ una parte grande di noi. Anche se ci sembra di essere invischiati, immersi in un ‘errore’, vivremo fino in fondo il tempo mondano che abbiamo scelto di vivere tanto tempo fa. A questo tempo apparteniamo. Da esso è impossibile ‘sciogliersi’, immaginando brevi transizioni, passaggi indolori, ma soprattutto spiagge felici e ristoro e pace.
Quando ho iniziato a scrivere su di me, qualche anno fa, ho chiamato Etsagung, ‘rinuncia’, il da farsi. Ma rinuncia non significa ‘colpo di spada’, interruzione brusca di una vita di relazione che non è quasi mai del tutto ‘esaurita’. Si tratta ‘educare’, di ‘curare’ quella relazione, per accelerare processi di decantazione delle ‘scorie’, per favorire la ‘fuoriuscita’ di tutto ciò che giace al fondo da tempo senza risposta, per stabilire la distanza che sola permette scelte ulteriori…
Rinuncia è accettare la condizione residuale di chi è già andato via, ma resta lì fino a quando tutto si sarà consumato. E non parlo di giorni o di mesi. Parlo di anni. Tutti i processi sentimentali non ammettono scorciatoie. Tutto ciò che non è stato ‘curato’ a sufficienza continuerà a manifestare la sua ‘virulenza’ emotiva.
Rinuncia è uno stato di grazia. E’ arrendevolezza della fantasia. E’ riconoscere al mondo la sua vittoria, come direbbe Kafka. Non rassegnazione, passiva accettazione del ‘male’ e dell’errore. Stare dentro l’asimmetria di una relazione che non poggi su una forte reciprocità di intenti e di atti consapevoli è difficile e duro, ma può costituire una ragione a cui non sottrarsi, in nome di un sentimento antico che non cessa di esercitare il suo fascino sul nostro cuore.
Rinuncia è la rinuncia alla pretesa di sapere tutto, di possedere sempre l’intuizione dell’amore e di sapere sempre cosa sia bene per ‘tutti’. L’abbandono di ogni ‘metafisica del sesso’, che contrapponga ‘maschio’ e ‘femmina’, comporta l’assunzione dell’altro al rango di persona e basta: l’esperienza sentimentale si consuma tra due singolarità qualunque, che si ritrovano l’una di fronte all’altra, con il compito di disegnare i confini del territorio di un’esperienza che si farà comune se significati condivisi animeranno l’esperienza stessa. Per fare questo, bisogna rinunciare alla pretesa di sapere già cosa significhi ‘essere maschio’: scoprirò che tipo di maschio sono soltanto di fronte a lei, che, a sua volta, dovrà scoprire che cosa significhi ‘essere donna’ soltanto di fronte a me. Nel fuoco dell’esperienza soltanto affiorerà il magma originario, da cui proveniamo, e si crescerà a nuova consapevolezza… ‘Abitare la distanza’ è uno dei modi di questa rinuncia.
La prova più grande da affrontare, tuttavia, è un’altra. Di fronte al fatto che le donne tendono naturalmente a non ‘credere’ alle parole d’amore di un maschio, di cui potranno dubitare a lungo, c’è da fare una cosa esemplificata in modo perfetto da Hugo von Hofmannsthal nella commedia L’uomo difficile (1918). Dopo che l’amica e a suo modo mentore Antoinette si rivolge ad Hans Karl rimproverandogli di mostrarsi in modo contraddittorio e ingannevole, egli l’apostrofa con queste parole:
Ma lo sa Antoinette che cos’è cuore, lo sa? Che un uomo ha a cuore una donna lo può mostrare con una sola cosa al mondo: con la durata, con la costanza. Solo così. Questa è la prova, l’unica.
Queste parole, apprese nel 1976, quando lessi la prima volta il volumetto di Hofmannsthal, sono diventate poi il mio Karma, il fondo dell’esistenza personale a cui ho attinto sempre certezze, come un Destino che supera le mie ragioni e quelle di ogni maschio.
Noi ci portiamo dentro poche certezze, che costituiscono le nostre poche certezze. Per me, quella di Hans Karl Bühl è una verità indiscussa.
La conseguenza grande di questa certezza è nel tempo, nella considerazione di quello che facciamo della nostra esistenza, che è ‘abitare il tempo’. Nella dimensione che ci è propria soltanto acquisterà senso e consistenza il sentimento che proviamo per una persona. La serietà delle intenzioni non basta. Giustamente.