Il significato della memoria

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Domenica 27 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (451): Il significato della memoria

È accaduto, dunque accadrà ancora Primo Levi

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Il corpo

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Venerdì 25 gennaio 2013

CONTRIBUTI A UNA CULTURA DELL’ASCOLTO
CAMMINARSI DENTRO (450): MASSIMO RECALCATI, Il corpo e l’inconscio

e UMBERTO GALIMBERTI, Il corpo in Occidente

e Il corpo delle donne

e LORELLA ZANARDO, Il corpo delle donne

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Restare per sempre

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Giovedì 24 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (449): Restare per sempre

Ci sono giorni in cui non ti prende la malinconia, e fino a sera tu non cerchi altro che qualche parola accorta, che sia disposta a prenderti per mano e a condurti oltre la soglia del dolore muto. Che giunga balsamo ristoratore, lenimento, fresco sentore di cose pulite. Ti basterebbe una voce disposta a farsi mano protesa nell’attimo estatico in cui ancora non è pronta la guarigione e si intravvede appena la promessa di un bene leggero e durevole. E’ in quella apertura, nel sorriso appena accennato, nel calore della voce che precipitano i grumi di dolore. E si sciolgono quasi d’incanto. Scende invocata la voce amica di donna innamorata a ricordare il tempo del fremito e dell’ansito breve. I sospiri trattenuti a che valgono ora, lei assente? Non si apparecchia il miracolo per noi. Nessuna epifania mondana interverrà a rischiarare il cielo. Piove dappertutto.
E’ solo nella presenza il miracolo. Non è altro il miracolo. A che serve l’azzurra lontananza di romantica memoria? A prolungare uno strazio indicibile.
Noi non vogliamo cieche speranze, per cullarci ancora in una vana attesa. Vogliamo consistere qui, in questo tempo incerto della nostra vita, paghi di vedere soltanto le nostre file di continuità.
Che scenda finalmente dal cielo la creatura che salva. Che scenda in mezzo a noi, e restare per sempre sia il suo compito. Non chiediamo altro al cielo! E il miracolo da mostrare sia la mano accorta che apre e chiude il nostro cuore, come fa altrettanto accortamente la primavera con i primi suoi boccioli: non c’è voce capace di toccare le cose che non ci faccia pensare alle sue piccole mani!

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Il soggetto irriducibile

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Mercoledì 23 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (448): MASSIMO RECALCATI, Il soggetto irriducibile

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Come leggere Lacan

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Mercoledì 23 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (447): MASSIMO RECALCATI, Come leggere Lacan

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L’amore secondo Jacques Lacan

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Martedì 22 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (446): JACQUES LACAN, Sessuazione, sessualità, omosessualità, eterosessualità

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Noi siamo responsabili

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Martedì 22 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (445): Noi siamo responsabili

Il saggio di Vittorio Zucconi e Valeria Vaccari, Psicologia della responsabilità nella tossicodipendenza è del 1997. Ne venni a conoscenza attraverso il rogersiano Paolo Iaria, per qualche anno Supervisore del gruppo degli Educatori di Libera Mente, in qualità di medico psicoterapeuta, impegnato per 14 anni nella sede di Exodus di Santo Stefano in Aspromonte. Grazie a loro, abbandonai l’idea iniziale dell’“irresponsabilità” del tossicodipendente.
Pensare questa ‘responsabilità’ non è mai stato facile: bisogna fronteggiare la ‘naturale’ tendenza del tossicomane alla manipolazione, ma nello stesso tempo bisogna cercare un varco in cui inserirsi per comunicare con la sua parte sana. Solo in questo modo è possibile prendersi cura della persona che si rivolge a noi in cerca d’aiuto.

La prima competenza da sviluppare è proprio nella capacità di tenere insieme gentilezza e fermezza: l’accoglienza rispettosa e affettuosa accompagnata a lucido scetticismo sulle parole non verificate con la famiglia.
La prima mossa della ragione è data dalla proposta di aprire il ‘confronto’ con la famiglia: di solito, usiamo l’argomento che vogliamo ottenere almeno il risultato che la famiglia non danneggi emotivamente il lavoro che facciamo; successivamente, diremo che la famiglia ‘ci serve’, perché riteniamo che debba essere aiutata ad uscire dall’assedio in cui necessariamente si è chiusa. A tutti diremo che la ‘droga’ si combatte a viso aperto, senza trucchi, senza accordi segreti con nessuno. Per questa via, il ragazzo si trova sempre più ‘stretto’ tra gli obblighi a cui viene chiamato: accordi di ogni genere saranno tentati, per tastare il suo grado di ‘libertà’, la responsabilità che è in grado di esprimere.

Quando ho avviato l’esperienza di volontariato, nel 1989, ho scelto, tra le altre formule propiziatorie, le parole del sociologo tedesco Sigfried Kracauer: «La realtà si comprende a partire dai suoi estremi». Per molto tempo, ho pensato che per comprendere la salute, la sobrietà, la normalità occorresse concentrarsi sulla malattia, sull’eccesso, nel nostro caso, sulla dipendenza. Il risultato non è dato per ‘sottrazione’, cioè ‘togliendo’ tutte le condotte disfunzionali. Non basta immaginare che si debba esser sobri. Nemmeno aiuta pensare ‘per confronto e contrasto’: paragonata a quella del ‘malato’, la nostra vita ‘normale’ sarebbe sempre preferibile, come se anche in essa non si annidasse il germe del dubbio, il gusto dell’avventura, l’amore del rischio, la tentazione del gesto irresponsabile! Anche a noi piace bere il buon vino. Chi deciderà per noi fin dove sia prudente spingersi? Insomma, siamo liberi. Quando ci svegliamo al mattino, non sappiamo se ci faremo guidare da un demone buono o da un demone cattivo. Siamo esposti, come i nostri ragazzi, che si perdono nel gorgo muto della dissolvenza, a cui amano abbandonarsi per dimenticare quanto sia insopportabile consistere in questo tempo, in questa città, in quest’ora della vita. Occorrono buone ragioni per non cedere all’angoscia di morte che ci attanaglia. Il nostro destino dipende in gran parte dalla capacità di opporci all’ineluttabile e all’immensurabile, per arrivare a consistere qui e ora, paghi di quello che abbiamo, anche se dappertutto risuonano le grida scomposte di chi soccombe sotto i colpi di fortuna.

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FAUSTO PELLECCHIA, Sull’amore

Lunedì 21 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (445): FAUSTO PELLECCHIA, Un’idea sull’amore

Che la filosofia contenga già nell’etimo del suo nome un’originale  relazione con l’amore e il desiderio, è una caratteristica tenacemente rammemorata nella sua plurimillenaria tradizione.
 
Si suole ripetere che proprio questa relazione amorosa definisca la sua  dimora, nella distanza che la separa tanto dalle solitarie vette della sophia, quanto dai virtuosismi dell’antilogia sofistica.
 
Ma essa non potrebbe  attestarsi come inesauribile amore del sapere senza costituirsi, al tempo stesso, come sapere dell’amore, nel senso però di un genitivo soggettivo che non riesce mai a venire a capo di se stesso come genitivo oggettivo. In altri termini,  l’amore in cui abita la filosofia sarebbe nient’altro che un pensiero che ama o l’amore stesso in quanto pensa e si pensa, senza mai riuscire a raggiungersi come un sapere d’amore (che resta piuttosto riservato alla poesia e alla letteratura).
 
D’altra parte, proprio a Platone, che ne segnò per sempre la storia, vien fatta risalire la prossimità di quella scienza senza oggetto, che in occidente prese il nome di ontologia – sapere votato all’esistente puro, senza  proprietà – e della passione amorosa. Ciò a cui la filosofia volge il suo sguardo affascinato è l’esistente come tale che, sottraendosi ad ogni predicato reale, può essere appresa solo come punto di arresto del potere nominante del linguaggio.
 
Reciprocamente, ciò che appassiona nell’amore è propriamente solo l’esistenza dell’Altro che, svelandosi come imprendibile prossimità, si mostra come l’unico, quotidiano “miracolo” di cui ci sia riservata l’esperienza. L’intenzione suprema della filosofia consiste infatti nell’educare alla meraviglia più trita e, al tempo stesso, più imparabile: lo stupore che l’altro semplicemente sia, al di là o al di qua delle mie attese, dei miei desideri o del mio potere, meravigliosamente sciolto dalle parole e dai discorsi che tentano di catturarlo e di darne ragione – essendo piuttosto, proprio in questa loro impotenza, già da sempre a lui rivolti.
 
Di qui, l’inconsistenza dei tratti che nel discorso corrente sono raccolti sotto la rubrica di “amore platonico”.  Tanto l’idea che l’amato sono infatti esprimibili solo attraverso la radicale anonimia del nome, cioè attraverso l’impossibilità del nome di nominare la sua stessa capacità di chiamare l’Altro, di rivolgersi unicamente ad esso.
 
Non è un caso che l’idea platonica abbia la sua espressione tecnica nel nome della cosa seguito da “autò”, cioè nell’anafora del nome: l’idea della rosa è “la rosa stessa”.  Reciprocamente, la tesi secondo cui  l’Agathon è l’idea al di sopra di ogni altra idea, esprime il singolare statuto ontologico dell’amore: l’Agathon (solitamente tradotto con “il Bene”) non ha alcuna connotazione morale, ma appartiene alla famiglia di “agapao” (= amare, aver caro, da cui “agapeton” = amabile, desiderabile).  Che “esistente”  (ens) non sia un predicato reale, ma inerisca a ogni predicazione senza però aggiungervi alcuna proprietà, ciò può solo significare, se ben si riflette, che l’“agape” insegue unicamente l’essere dell’altro, non le sue qualità; e poiché  non potrebbe mai appropriarsene, lo cerca solo mantenendosi da esso indefinitamente a distanza: lo reclama, lasciandolo essere tale qual è, nella splendida sembianza del puramente Amabile.
 
Una prima indicazione proviene dall’aporia della categorizzazione dell’oggetto amato.  Ciò che rende possibile l’innamoramento e ne costituisce la causa, non è né il bello, né il buono né, tanto meno, la somma dei predicati reali con cui invano l’intelletto si sforza di afferrare l’essenza dell’amabile.
 
Se l’amante si dichiarasse dicendo: “Ti amo perché sei bello e intelligente, perché sei onesto e generoso, perché mi copri di attenzioni, perché mi sei fedele, ecc.”, bisognerebbe assolutamente diffidare delle sue parole. Molto più disperatamente autentica sarebbe l’ammissione costernata:  “Sono follemente innamorata di te, sebbene tu non sia né bello né intelligente, ed anzi un bugiardo,  egoista e  mascalzone…!”.
 
In questo senso, un’erotica filosofica sarebbe una versione profana della teologia della grazia:  l’essere eletti  senza merito, in virtù di un imperscrutabile volere – per non dire un capriccio – del dio, diviene il presupposto necessario da cui misteriosamente consegue l’amabilità  dell’oggetto. Per questo, ogni sapere e ogni discorso d’amore si arresta, infine,  sulla soglia del nome dell’amato, che lo interpella e  lo invoca nella sua intatta, inafferrabile singolarità

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Per amore di conoscenza

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Sabato 19 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (443): Per amore di conoscenza

Amore è desiderio di conoscenza.
CESARE PAVESE

Alla domanda su che cosa sia per noi Educazione è possibile rispondere in tanti modi. Se pensiamo nello stesso tempo a cosa sia a fondamento dell’Educazione e cosa sia un Educatore per noi, ci sembra più urgente riferire ciò che abbiamo messo di personale nell’azione educativa e che è possibile rinvenire nel tempo dell’insegnamento a scuola, nel tempo dell’aiuto al Centro di ascolto, nel tempo della crescita di una figlia a casa.
Tutta la mia esperienza educativa è stata sorretta da idee non proprio ‘pedagogiche’: non ho scomodato le moderne Scienze dell’educazione per andare avanti: piuttosto, mi sono fatto guidare dalle neuroscienze, dalla filosofia, da tutto ciò che aiutava ad accrescere la sensibilità, dall’arte alla letteratura, alla musica e al cinema.
A scuola è stato facile: dovevo addestrare i ragazzi a sviluppare competenza nelle quattro abilità fondamentali – ascoltare, parlare, leggere, scrivere -, per accrescere le capacità espressive e comunicative. Su tutto, però, ho fatto prevalere la scrittura.
A casa mi sono fatto guidare dalla cultura femminista, perché si trattava di aiutare a crescere libera dalla paura una figlia.
Al Centro di Ascolto si tratta sempre di “riportare i ragazzi a casa”, di aiutarli a riconoscere ciò che esalta l’esperienza personale e ciò che la deprime.

Della mia vita so con certezza che ho sempre lavorato per dare continuità a tutto quello che ho fatto. Quando mi sono reso conto dei cambiamenti che intervenivano in me, perché mi lasciavo alle spalle un’epoca della vita ormai trascorsa, non ho mai indugiato a lungo a rimpiangere le cose belle dell’infanzia o della prima adolescenza. Sono stato, piuttosto, impaziente di scoprire cosa la vita mi riservasse di nuovo. Ho accettato sui banchi di scuola e poi all’Università che la ‘sintesi’ arrivasse a tempo debito e che le cose prendessero forma dopo sforzi cognitivi, tentativi ripetuti, errori. Ho capito presto che solo il lavoro dà risultati: intelligenza, volontà, attitudini aiutano, ma non bastano. L’oscuro lavoro quotidiano soltanto è il crogiuolo in cui precipitano tutte le intenzioni e i propositi e i sogni e le aspirazioni e le performance. Ho visto crescere la mia parte sana grazie allo studio e alla prova a cui sottomettevo le mie facoltà superiori.

Mi è sempre piaciuta l’espressione “lavoratori della conoscenza” scelta dal mio Sindacato per designare gli Insegnanti. L’accento per me è posto su ‘conoscenza’. L’espressione più difficile del nostro compito umano nello sforzo di costruire relazioni significative con gli altri è “la conoscenza personale”, cioè la conoscenza della persona. Tutto il nostro sentire dipende dalla nostra capacità di conoscere la natura dell’altro, per stabilire di conseguenza contatti e scambi emotivi fruttuosi, per allacciare rapporti e dare vita a relazioni durature.
Siamo abituati a ricondurre l’idea della conoscenza a complesse strategie di apprendimento che portino all’acquisizione del significato di termini, concetti, fatti, principi, regole, leggi… Se rivolgiamo lo sguardo dalle ‘cose’ alle persone ci rendiamo presto conto del fatto che non si tratta mai di venire a capo una volta per sempre del significato di un’esistenza, come se fosse possibile ridurre la trascendenza personale, tutto l’invisibile dell’esperienza personale alla fissità di un concetto! A volte ci accade di dire che ‘sappiamo’ chi è una persona, perché abbiamo attribuito importanza ad essa, perché occupa un posto nella nostra esistenza, perché siamo spinti dalla curiosità ad indagare ancora, per dare ancora senso, più senso al modo di declinarsi nel mondo di qualcuno. Se non ci faremo accecare, però, da impazienza e avidità, dovremo riconoscere che il darsi a noi di un’esistenza non è mai paragonabile al modo di darsi delle cose, su cui finiremo sempre per esercitare una qualche forma di possesso. Nell’amore, come in tutti i modi di relazionarci all’altro, ciò che incontriamo è un soggetto, mai un oggetto. ‘Ridurre ad oggetto’ della nostra azione l’altro è sempre impresa destinata al fallimento e generatrice di follia.
La vita del soggetto è possibile ‘afferrare’ solo nel tempo, giacché essa si dà solo nel tempo. Tutti i tentativi di fermare il tempo sono pura pazzia. Noi siamo abitatori del tempo. Siamo i mortali. Non possiamo fare altro che consistere qui e ora, nel nostro tempo mondano, consci del nostro sbandato andare. Ci è concesso istituire file di continuità per dare orientamento al nostro cammino. È nell’istante eterno soltanto che dura l’incanto delle cose belle. Riesce a rendere eterno ciò che non dura solo chi arriva ad attribuire valore alle cose.

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L’aggressività umana come paradossale risposta paranoica alla gratificazione

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Martedì 15 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (442): Il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e la ‘vittoria’ dell’Io contro la vita: l’invidia della vita all’origine dell’aggressività umana

LacanA pagina 50 del suo Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Massimo Recalcati illustra incisivamente l’esito violento e la successiva pacificazione del soggetto che abbia esercitato la sua aggressività contro il “più simile”, il “più prossimo” a lui: «L’oggetto colpito – come insegna Aimée – è una versione idealizzata del soggetto che colpisce. È il suo “ideale esteriorizzato”. L’ammirazione idealizzante dà luogo a un’aggressività invidiosa perché l’esistenza dell’oggetto mostra persecutoriamente al soggetto ciò che esso non è. In questo senso, colpire l’altro è sempre colpire se stessi. Per questo, nel caso Aimée, Lacan indica come sia proprio la punizione del crimine, la sua sanzione simbolica – la reclusione di Aimée in carcere -, a riassestare i ruoli simbolici e a rivelarsi come pacificante per il soggetto». [Torneremo sul caso Aimée, su cui Lacan riferisce nella sua Tesi di Dottorato di Medicina, pubblicata nel volume Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità (1932), che inaugura un interesse costante, destinato a protarsi fin dentro la tarda maturità: la paranoia coincide tout court con la personalità (Seminario XXIII, pag.50); una tendenza primaria dell’uomo.]

Sembrerebbe, così, tutto spiegato, anche il caso di Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la madre e il fratellino. Gustavo Pietropolli Charmet, che faceva parte del Collegio dei periti che dovevano stabilire se Erika fosse colpevole, annotò nei suoi appunti che alla domanda: «Tua madre ti voleva bene?» Erika aveva risposto: «Non lo so». Charmet commentò in seguito: «Come è possibile andare in giro per le vie del mondo senza sapere che tua madre ti vuole bene?» La sua conclusione, che per tutto questo tempo io non avevo capito, fu: «Erika, dunque, è colpevole».
Proprio perché le condizioni di salute di Erika non furono definite buone – si parlò di un disturbo di personalità che forse le impediva di ‘sentire’, cioè provare emozioni e sentimenti -, io non riuscivo a comprendere la natura della sua colpevolezza: era capace di intendere, ma era anche capace di volere? La sua era una volontà libera, posto che non era sostenuta adeguatamente dalla percezione del valore, del significato della madre e del fratello?
Anche una volta accertato che lei – come il marito che uccide la moglie in casa, come tutti noi che spesso esplodiamo contro l’altro senza una ragione prossima, cioè senza una causa chiara – è ‘sana di mente’, ci ritroveremmo comunque di fronte a una colpa, che trae origine da quella che Lacan chiama “invidia della vita”, perché la nostra ‘risposta’ aggressiva non è conseguente ad una frustrazione ma ad una gratificazione. Ciò che si staglia davanti a noi non è qualcosa che ci viene negato: paradossalmente, dall’oggetto della nostra invidia aggressiva deriva solo amore, sovrabbondante amore. Il rifiuto dell’accettazione di quell’amore dipende dai sentimenti negativi che esso suscita in noi, che ci sentiamo esclusi da esso, e proprio mentre più grande si fa la cura nei nostri confronti! Ci sentiamo esclusi, perché le forze che ingabbiano la nostra parte ‘buona’ ci fanno proiettare sull’altro sentimenti persecutori, inducendoci ad elaborare pensieri negativi che sono solo la proiezione della nostra parte ‘cattiva’: finiamo per odiare nell’altro quello che non ‘troviamo’ in noi. Uccidiamo nell’altro quello che noi vorremmo essere, quello che abbiamo sempre sognato di essere.
La causa della nostra aggressività è tutta nella fissazione irrigidita nello “stadio dello specchio”, nella mancata accettazione della scissione originaria tra il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e l’ideale dell’Io con il quale erroneamente ci identifichiamo, pretendendo di ricondurre ad unità la dualità insanabile che solca la nostra coscienza: noi non proveniamo da una unità originaria a cui poter tornare: ogni nostalgia di questo genere è condannata ad essere insoddisfatta, non può essere soddisfatta da niente e da nessuno. Superare lo ‘stadio dello specchio’, allora, significa abbandonare la pretesa di unità per imparare a cogliere e a rispettare la diversità, la differenza irriducibile con l’altro che è in noi, come con l’altro che è fuori di noi.

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Un grido perduto nella notte

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Lunedì 14 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (441) : Un grido perduto nella notte

Fragile patrimonio sono i sogni,
ci fanno ricchi un’ora –
poi, poveri, ci scaraventano
fuori dalla purpurea porta
sul duro recinto
dimora di prima

Emily Dickinson

Il testo che segue è apparso poco fa nello spazio web del professor Recalcati, su Facebook.

Anche l’amore più grande, più assoluto, più certo, più simile ad un destino, può cadere, rivelarsi polvere, diventare niente. Cosa ci accade quando facciamo ancora esperienza di non essere altro che un grido perduto nella notte, quando incontriamo ancora la ferita traumatica dell’abbandono assoluto? Quando, come si dice meno radicalmente, “non è più come prima”? Può la vita resistere? Può continuare ad abitare un mondo che non è più lo stesso mondo? Può non cedere alla tortura dell’insensatezza? Ritarderò l’uscita del mio secondo tomo su Lacan per scrivere di questo. MASSIMO RECALCATI

Quello che sconcerta di più è l’inaudito stupore, l’imprevisto della nuova condizione, l’arresto del tempo dell’attesa e della speranza, l’apertura dell’anima non più ‘sostenuta’ dall’altra parte, l’eclissarsi improvviso dell’altra parte, assieme al gioco d’amore, alla voce, al volto, al caldo abisso della trascendenza personale. Non più risposte, spiegazioni e conferme, assillo e affanno, premuroso richiamo, appello invadente, rimprovero, sorriso. Cessa l’incanto della viva presenza, lo charme del tempo, con le file di continuità e il dono di sé. L’assenso, l’accordo, il conforto, la carezza non sono più. Il tanto mi dà tanto e l’apparato dei giorni, ma soprattutto delle ore. Il sapore immutato dei momenti vissuti insieme. L’attimo di gioia che si faceva istante eterno inspiegabilmente sottratto. Della gioia dispensata a piene mani più nessuna traccia, nemmeno il dolce ricordo. Solo disincanto e tragedia, scissione, separazione. Frantumi di tempo. Il nunc scomparso. «Potremmo riparlarne dopo?» Non più ‘dopo’. Solo immobile e vuoto presente. Anancasmi e brevi affanni. Poi, più nulla. Silenzio nella testa. Inerzia intellettuale e noia. L’orrenda, barbara malinconia che lima e che divora. Non la celeste nostalgia degli umani. Il vano sforzo della vicinanza sollecita e la testimonianza del solidale abbraccio. E poi? Cessati gli sforzi e gli abbracci e la vicinanza e la sollecitudine affettuosa? Solo tetraggine e abbandono. Come quello mortale del tempo dei sogni e delle belle speranze, quando era intollerabile a tutti che appena un po’ venissimo lasciati a noi stessi, come se fosse per sempre! Ma ora è così, è per sempre. Non avevamo creduto che si potesse giurare amore eterno, perché l’amore, come tutte le umane cose, è nel tempo, ma ci apparecchiammo per un tempo senza tempo, anche se non credevamo si potesse seriamente dire ‘per sempre’. Abbiamo prediletto perfino una canzone che chiede proprio quello che non si può promettere: Amami per sempre. Perché c’era chi aveva qualcosa da dire a noi sempre. Immancabilmente. Come la chiacchiera dei bambini, che farfugliano a volte cose insensate, ma vere, accompagnate sempre da convinto entusiamo e la serena certezza di essere creduti ancora. Sentivamo ad ogni piè sospinto che ci fosse tempo ancora per noi. Abbiamo creduto. Ci siamo affidati. Ora non c’è più sponda. Non sappiamo dove depositare le nostre emozioni. Ma la ferita che brucia in mezzo al petto e ci consegna all’angoscia dell’insussistenza e dell’infondatezza insensata è del cuore. È il tempo del dolore senza fine. Sentiamo già che esso potrà solo farsi più tenue e accennare a scomparire, per ripresentarsi a noi come morbo incurabile e strazio senza fine. Le intenzioni lacerate stanno lì a segnalare l’infranto e l’irreparabile, come morte sopraggiunta a colpire selvaggiamente. Come i venti freddi sferzanti di marzo, che tagliano la faccia e pietrificano e sconquassano le più miti pretese. Siamo stati così lasciati a chiedere e basta. E dopo aver dedicato una vita alla critica all’insensato chiedere, siamo lì, sulla nuda porta a chiedere, pur sapendo bene che si possa chiedere soltanto ciò di cui si conosce già la risposta. Eppure, non facciamo altro, ormai. Perfino nell’assenza fisica di chi dovrebbe rispondere ancora.

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Declinare crescendo

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Domenica 13 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (440): Declinare crescendo

A quattro anni dal congedo dall’insegnamento attivo, mi ritrovo spesso a considerare ciò che resta dell’esperienza di Educatore. Il mio ultimo Preside ci tenne a dichiarare in pubblico che, se pure andiamo in pensione, non cessiamo di essere Insegnanti: abbiamo il diritto di chiamarci ancora Insegnanti. E’ uno status sociale che non si perde. Confesso che a me fa piacere verificare, quando esco di casa, l’atteggiamento deferente degli adulti che mi chiamano Professore. Sento che una parte grande del mio Sé è ‘depositata’ in quella parola. Anche nel Centro di ascolto mi chiamano “il professore”.
Ciò che resta, perciò, non è un ‘resto’, per il fatto che da ventitré anni a questa parte alla condizione di insegnante si è sovrapposta per me quella di educatore nel Centro di ascolto: conclusa l’esperienza di insegnamento, non ho cessato di sentirmi educatore.
Negli ultimi sei anni, poi, mi sono nati due nipotini che contribuiscono ad impedirmi di invecchiare inutilmente e precocemente. Ho da fare.

Il ‘tempo’ dell’Educazione, tuttavia, è cambiato: è tempo della relazione d’aiuto e tempo della relazione educativa in famiglia.
Rispetto al ruolo istituzionale imposto dalla Scuola, mi sento ‘in trincea’, impegnato in un tipo di ascolto più ricco e vario, che mi ripropone gli stessi problemi, senza Didattica: non ho ‘materie’ da insegnare; prevale l’Educazione sull’Istruzione. Se a scuola bisognava rivendicare il ruolo dell’educazione su quello della mera istruzione – formiamo i ragazzi, non ci limitiamo ad istruirli nella nostra disciplina -, adesso è solo formazione, a casa e nel Centro di ascolto.
La preoccupazione della crescita dei bambini di casa e dei ragazzi del Centro  è esclusiva: non ha bisogno di ‘aggiungersi’ ad altro. Sento più nitidamente il valore e il  ‘peso’ della relazione umana: sono esposto, ne va di me, della mia natura, del mio carattere, delle mie inclinazioni, delle mie capacità relazionali; prima ancora di attivare conoscenze e competenze, mi sembra decisivo quello che riesco a fare a partire da quello che sono, perciò parlo di capacità.
Mi trovo ad interrogarmi ancora su identità sessuale, individuazione, disagio, famiglia, progetti di vita. Sono tornato a studiare l’età evolutiva, la formazione del carattere, le scelte educative, la natura umana, la struttura della personalità, la persona… con lo sguardo rivolto ai nipotini e ai ragazzi-adulti affetti da tossicomania. Non sono, però, il semplice ‘prolungamento’ dell’insegnante di un tempo, anche se quella relazione educativa resta sullo sfondo, come termine di confronto continuo.

Paolo Poli ha dichiarato recentemente, alludendo alla sua età, che si sente più libero, perché non lo guarda nessuno quando esce di casa. E’ importante trovare modi di convivenza accettabili con adulti privi di pregiudizi, perché dai giovani non può venire niente: non possono comprendere cosa significhi avere 64 anni. Non sono molti, se paragonati alla condizione triste di chi ne abbia dieci o venti di più e nessuna voglia di vivere… Tuttavia, questi miei anni portano già il segno della vecchiaia, ancorché incipiente. Il tempo del silenzio, dell’esperienza delle mancate risposte è iniziato. Per questo, è meglio parlar d’altro.

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Dove sono gli uomini?

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Perché ci illudiamo di non cambiare mai

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Giovedì 10 gennaio 2013

NOVITÀ: Perché ci illudiamo di non cambiare mai

 

Sul quotidiano la Repubblica di oggi, leggere: 

Anime immobili. Giovani e vecchi, perché ci illudiamo di non cambiare mai, di John Tierney

Una ricerca pubblicata su Science dimostra che a ogni età della vita siamo convinti, sbagliando, di restare sempre gli stessi per gusti e abitudini.

La ricerca degli psicologi Daniel Gilbert e Jordi Quoidbach di Harvard e di Timothy D. Wilson dell’Università della Virginia ha coinvolto 19.000 persone tra i 18 e i 68 anni.

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Chiara come un grande vento

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Martedì 8 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (439): «Chiara come un grande vento»: la coscienza secondo Sartre

Esattamente quarant’anni fa, il 17 aprile 1972, ho discusso la mia tesi di laurea su L’essere e il nulla di Sartre, che avevo intitolato: «Una filosofia della coscienza. Lettura fenomenologica de L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre». Avevo avviato lo studio dell’opera sartriana tre anni prima. Per tre anni ho lavorato in vista di quella che poi riuscii a far accettare come tesi personale per concludere il corso di Filosofia.
Convinto ‘sostenitore’ della Fenomenologia di Husserl dal 1967, l’approdo all’esistenzialismo fu per me il portato della crisi religiosa di quegli anni e l’esito più chiaro del bisogno di arrivare a un’idea almeno provvisoria della natura umana: l’espressione sartriana «libertà in situazione» mi avrebbe accompagnato, poi, per il resto della mia vita, assieme all’idea della trasparenza della coscienza. Per converso, mi abituai a pensare che non si possa temere niente più della vischiosità della coscienza.
Tra gli studi propedeutici alla scrittura, La trascendenza dell’Ego, che tradussi in italiano per i miei amici: avvertivo già l’importanza di quel piccolo saggio.

LacanA distanza di quarant’anni, nel dicembre 2012, avviando la lettura del ponderoso volume di Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, 643 pagine, edito per i tipi di Raffaello Cortina, ho scoperto quanto segue: «il passo inaugurale dell’insegnamento di Lacan consiste nel mettere in scacco la nozione di Io e ogni supposizione di padronanza che essa comporta» (pag.1). «La sua ripresa della riduzione freudiana dell’Io lo conduce a trovare in Sartre un compagno di strada capace di offrirgli una nuova ispirazione per provare a sganciare ancora più rigorosamente la nozione di soggetto da quella di Io» (pag.2). «La tesi sartriana dell’Io come oggetto, insieme al suo contributo alla critica fenomenologica del concetto tradizionale di “Io” e di vita psichica – sviluppata con rigore e originalità nel saggio del 1938 intitolato La trascendenza dell’Ego – costituisce indubbiamente lo sfondo della rilettura della teoria freudiana del narcisismo con la quale Jacques Lacan entra nel campo della psicoanalisi» (pag.2).

La coscienza non è costituita da nessun essere, non riposa mai su se stessa, ma si manifesta come spinta verso il fuori da sé, come “coscienza di…”, coscienza d’altro da sé, coscienza che non consiste mai di se stessa, dunque priva di unità o identità, strutturalmente “rivolta verso”, aperta, esplosa, in costante autotrascendimento, «chiara come un grande vento». (Jean-Paul Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità)

Nell’Introduzione al volume, Recalcati afferma: «Se c’è, come io credo e provo a sviluppare in questo libro, un neoesistenzialismo di Lacan …». La suggestione forte offerta da Recalcati, che l’intera opera di Lacan sia solcata dalla volontà di proporre un neoesistenzialismo, costituisce la conferma di tante intuizioni e supposizioni che hanno segnato questi quarant’anni di studi personali di Lacan. 

 

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La prima opera di Lacan acquistata (26 ottobre 1972)

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Godimento

L’ultima opera di Lacan acquistata (20 dicembre 2012)

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