Prima di ogni più esatto sentire

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Lunedì 31 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (5)
Aσκήσεις (8): Prima di ogni più esatto sentire

Si potrebbe riassumere questa riflessione dicendo, in prima istanza: Uscire dall’indifferenza. Se vogliamo ‘curare’ la nostra infelicità o siamo impegnati a rincorrere la felicità, come se essa fosse il bene più grande a cui mirare, dobbiamo prendere coscienza della vera natura di questo grado zero della sensibilità che è distacco emozionale, mancanza di interesse per il mondo, distrazione, noncuranza, mimetismo conformista del sentire.

L’indifferenza è il nocciolo duro da spaccare nella vita di relazione, per dare vita a più significativi rapporti umani. Noi vogliamo che le persone escano dall’indifferenza, scegliendo di dare un senso alla nostra presenza. Ma non sospettiamo nemmeno lontanamente che l’indifferenza possa essere una necessaria difesa dall’invasione delle emozioni, che bombarderebbero la nostra anima, se ogni presenza nel mondo ci colpisse fortemente, alterando i nostri stati di coscienza oltre misura e indiscriminatamente. Rischieremmo di essere ‘affetti’ da chiunque volgesse lo sguardo verso di noi. Tra le altre cose, finiremmo per innamorarci senza ‘criterio’!
La distanza che mettiamo tra noi e gli altri non è il modo più efficace per proteggere il nucleo fragile della nostra anima? E non è quello che fanno in ogni istante della loro vita anche gli altri? Paradossalmente, è proprio perché i più sono poco interessanti ai nostri occhi e per questo non entrano nella sfera del nostro sentire, per lasciarvi tracce durature, che costituisce un evento significativo nell’orizzonte della nostra esperienza l’epifania di una persona che distingueremo da tutte le altre, perché oggetto di amore naturale o di amore elettivo.

Naturalmente, tra i due estremi dell’indifferenza e dell’esatto sentire c’è l’errore, l’illusione, la convinzione acritica di essere nel giusto. E questa certezza personale ci situa già oltre l’indifferenza. È preferibile all’indifferenza.
Naturalmente, accanto all’angustia della mente, all’apatia dei sensi, all’aridità del cuore, che concorrono a generare indifferenza, c’è l’insieme delle vicissitudini della coscienza più autentiche e positive: ogni più esatto sentire è preceduto dalla spontaneità, dalla genuinità, dall’innocenza della vita degli affetti. 

Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

Aσκήσεις (7): Parlare in pubblico

 *

Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Parlare in pubblico

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Domenica 30 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (4)
Aσκήσεις (7): Parlare in pubblico

L’esercizio della parola in pubblico è uno dei più duri da ‘svolgere’. Ad esempio, prendere la parola per trentacinque anni di fronte a una classe di studenti delle Scuole medie superiori, per interessarli a un’ora di Italiano o di Latino, quando chi deve prendere la parola sia una persona timida, è un esercizio di cui non si parla, di solito. Si dà per scontato che ogni insegnante abbia sufficiente ‘faccia tosta’ da affrontare il pubblico studentesco senza affanno o timore. Gli insegnanti sembrano tutti votati alla ‘recitazione’ quotidiana. Pochi sanno che per alcuni di loro è ogni volta di nuovo un compito arduo da affrontare, perché si tratta di vincere insicurezze difficili da superare: si ripresenta ogni volta il timore di arrossire, di incepparsi mentre si parla o di risultare poco chiari o di non avere più niente da dire, soprattutto nei momenti di stanchezza morale, quando si vorrebbe piuttosto stare a casa, magari tra le braccia di qualcuno che sia disposto a dispensare carezze di ogni genere.

Delle quattro abilità linguistiche fondamentali – ascoltare, parlare, leggere, scrivere -, la meno curata è forse proprio il parlato, a dispetto delle innumerevoli verifiche orali che gli insegnanti compiono per dovere d’ufficio. All’interrogazione tradizionale, pure indispensabile perché fatta di domande specifiche, occorrerebbe affiancare il colloquio basato sul “Parlami di…”, per consentire un più fluente e compiuto discorso.
Dalla parte dello studente si consuma una battaglia permanente che egli ingaggia innanzitutto con il lessico, nello sforzo quotidianamente ripetuto di trovare le parole. Chi non ricorda la fatica della preparazione pomeridiana alle interrogazioni del giorno dopo? C’è chi non abbia tirato un sospiro di sollievo a sentir dire in classe che non sarebbe stato giorno di interrogazioni, anche essendo ben preparato? A chi non è capitato di ritrovarsi a balbettare vicino alla cattedra, nel vano tentativo di restituire il lungo lavoro fatto il giorno prima? Quanto volte si è verificato il caso dello studente che si è ribellato all’insegnante che non ha saputo apprezzare il lavoro svolto a casa, quando però la prova sia stata al di sotto degli sforzi fatti per prepararsi? Quanto tutto ciò dipende dal ‘parlato’, cioè dal fatto che una performance in pubblico non sia cosa scontata?
Per me, si trattava di affrontare un pubblico non sempre benevolo. C’era da superare l’emozione che montava e che non incoraggiava a parlare. C’era la sensazione di non ricordare più niente, che non ci avrebbe abbandonati più, fino alla discussione della tesi di laurea. In me, soprattutto il timore di chi si sente gli occhi addosso e fa voti agli dèi dei rinvii, perché l’esposizione al giudizio altrui è sempre troppa: non avevo ancora imparato ad affrontare il pubblico mentre parlavo. Fare le due cose insieme – pensare a ciò che doveva esser detto in modo chiaro e farlo senza impaccio – era decisamente troppo!
Eppure, ho attraversato il mio deserto, il deserto delle mie aspre solitudini, senza indietreggiare mai: ho accettato per decenni di arrossire davanti a tutti e con la morte nel cuore ho continuato a cercare le parole.
All’altezza del primo liceo, ho deciso che dovevo mettermi a parlare in Italiano in casa, dove si parlavano ben tre diversi dialetti: quello dei miei genitori, quello dei primi tre figli, quello del quarto figlio. Naturalmente, tutti mi prendevano in giro e mi giudicavano aspramente: erano convinti del fatto che ostentassi uno spirito di superiorità nei loro confronti, essendo un liceale! Nessuno comprese il mio dramma privato.
Anche se nessuno mi insegnava ad ascoltare, a parlare, a leggere, a scrivere, io dovevo comprendere i meccanismi della lingua, della grammatica, dello stile. Non sapevo ancora cosa fosse la pragmatica, cosa la semantica. Non avevo scoperto ancora Estetica, Filosofia del linguaggio, Linguistica generale, Linguistica testuale… Ogni progresso nella conoscenza e ogni voto lusinghiero equivalevano a una promozione sociale per me, non solo alla promozione scolastica, a un incremento del profitto.
All’Università avrei fatto le scoperte maggiori, proseguendo il lavoro avviato su di me. Mentre mi accingevo a sostenere gli Esami che avevano a che fare con la Lingua, il Testo, il Linguaggio, pensavo a quello che avrei fatto in classe con i miei alunni, per aiutarli a progredire come animali parlanti: sarebbe stato quello il mio risarcimento.  Avrei assunto come termine di confronto, per generare l’indispensabile dissonanza cognitiva, la condizione in cui versavo io come studente di liceo prima e universitario poi.

La fluenza del parlato, con il ritmo che pure richiede, non è capacità che si possiede e basta. Contribuirà ad accrescerla la tendenza ad imitare gli adulti a casa, se questi parlano in Italiano. Fu decisivo per me scoprire quanto sia importante accettare la propria voce. Un ragazzo non si rende conto fino in fondo quanto possa costituire un ‘freno’ all’espressione libera di sé la non accettazione della propria voce. A tutti i miei alunni ho suggerito la riflessione privata su questo punto: occorre allenarsi ad ascoltarla, fino ad arrivare a provare piacere a sentirla.
Dare alla voce un’intonazione durante la lettura di un testo, cercando di rendere il senso, alla maniera degli interpreti di professione, gli attori e i dicitori, è forse una delle ultime cose da fare, ma si avverte in ogni momento che ‘interpretare parlando’ è indispensabile per far capire a chi ci ascolta che il testo ci appartiene, ha influito sulla nostra sensibilità, ne abbiamo compreso il senso. Un esempio chiaro di questa difficoltà è dato dalla lettura de L’infinito di Leopardi. Per decidere fino a che punto fosse da premiare un ragazzo di quinta liceo che affrontava l’Esame di stato, mi sono limitato sempre a far leggere i primi versi de L’infinito. Dicevo soltanto: voglio sentire come leggi. La voce di una persona ci rivela più di quanto il parlante non sappia!

I miei alunni mi prendevano in giro affettuosamente dicendomi che la mia voce era soporifera. Naturalmente, cercavo di essere caldo e rassicurante e fermo e sereno… Inutile dire quanto fossi sicuro di aver raggiunto negli ultimi anni di insegnamento un livello alto di consapevolezza di quello che accadeva durante l’ora di lezione.

Soltanto negli ultimi anni di insegnamento ho capito quanto incida l’improvvisazione nella conduzione della classe durante la ‘lezione frontale’. Lungo tutta la mia carriera, non ho fatto altro che studiare per arrivare in classe pronto su tutto. L’intera estate era dedicata alla preparazione del Progetto didattico per l’anno scolastico successivo. Al mare o in montagna, avevo sempre i miei libri con me. Fermo restando che lo studio è indispensabile, sbagliavo a pensare che non si debba mai improvvisare! che tutto debba essere previsto!
Uno dei momenti più importanti della mia vita è stato la scoperta dell’improvvisazione, della necessità di improvvisare. Quando andiamo a un appuntamento importante, con una donna o per un posto di lavoro, al Centro d’ascolto per un colloquio, in un luogo in cui non siamo stati mai, per parlare con qualcuno che non sappiamo ancora se ci accetterà oppure no, noi siamo ‘esposti’, perché non sappiamo cosa dire. Non sappiamo bene quello che diremo, con quali parole, con quanta efficacia… Massimo Cacciari parla dell’arrischio della relazione, per significare questo essere in prima linea, senza difese o protezioni di sorta. Non siamo in pericolo, ma ne va della nostra immagine, dell’idea che l’altro si farà di noi: temiamo di non riuscire a far intendere quello che ci preme di più l’altro sappia.

Oggi so quanto sia inutile consegnare ad un incontro occasionale e fortuito il senso di sé, preoccuparsi di deludere l’altro: è fin troppo facile che accada! Ci si salva solo pensando alla fragilità del bene, a quanto dipenda dall’altro il significato che vorrà attribuire alla nostra esistenza. Attraverso le nostre ‘parole’ trasparirà comunque ciò che siamo.

Imparare a vivere attraverso l’esercizio della parola, imparando a parlare in pubblico. Per ascoltarsi vivere. Per conoscere la propria anima attraverso la sua capacità di divinare dal fondo enigmatico e buio da cui parla. Per imparare ad accettare il bene e il male che ne verranno da ciò che gli altri vorranno restituirci di noi.
Molti ragazzi affetti da tossicodipendenza mi hanno rivelato che hanno fatto ricorso alle sostanze per trovare il coraggio di parlare davanti agli altri. Al termine di lunghi percorsi segnati dai necessari processi riparativi e ricostruttivi della persona, tutti i ragazzi  hanno dichiarato sommessamente: ho imparato a parlare in pubblico senza paura. A loro è dedicata la maggior parte degli sforzi che faccio per essere una persona migliore, da ventitré anni.

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

 

 

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Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

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Mercoledì 26 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (3)
Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

[ La stesura di questo articolo si basa per intero sul saggio di MORENO MANGHI, Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan (ottobre 2009). Il progredire della conoscenza delle questioni teoriche e delle implicazioni pratiche imposte all’attenzione dalla lettura del saggio stesso comporterà correzioni e aggiornamenti del nostro articolo. La provvisorietà di questa sintesi personale è un tacito invito a chi legge a procedere con la lettura personale di quel testo nevralgico della letteratura psicoanalitica contemporanea.  ]

INDICE del saggio:

I. La frustrazione, 2
Riferimenti bibliografici dei seminari di Lacan citati, 3
Liminare, 4
PRIVAZIONE-FRUSTRAZIONE-CASTRAZIONE, 8
Privazione, 9
La privazione è la mancanza reale di un oggetto simbolico
Frustrazione, 11
La frustrazione è la mancanza immaginaria di un oggetto reale
Castrazione, 12
La castrazione è la mancanza simbolica di un oggetto immaginario
LA DIALETTICA DELLA FRUSTRAZIONE NELLA DOMANDA D’AMORE, 16
IL NESSO FRUSTRAZIONE-REGRESSIONE, 23
A CHE PUNTO SIAMO. RICAPITOLAZIONE, SCHIARIMENTI, GLOSSE, 28
AL DI LA’ DELLA DOMANDA D’AMORE: IL DESIDERIO, 32
AMORE INCONDIZIONATO E DESIDERIO COME CONDIZIONE ASSOLUTA, 36
LA VERSAGUNG AL CENTRO DELLA TRAGEDIA MODERNA, 42

La vertiginosa altezza raggiunta con il concetto di Versagung in ambito psicoanalitico può essere compresa solo da chi abbia dimestichezza con i temi dell’Educazione e della Cura, per le ripercussioni che quel concetto è destinato ad avere sulle idee che guidano Educatori e Terapeuti. Siamo oltre Pedagogia e Psicoterapia: non vale qui il solo specialismo delle Professioni d’aiuto, con titoli e curricula. Parliamo di cure informali, cioè di qualcosa che si situa al di qua dell’intervento codificato da setting e protocolli, perché il ‘fenomeno’ descritto non è riconducibile al solo ambito psicopatologico.
Accade a tutti noi, nel corso della vita, di ritrovarci accanto al dolore di qualcuno: allora saremo confortati nell’azione dal nostro sapere pratico e dall’esperienza, la nostra esperienza delle cose. Per me, ad esempio, che lavoro in un Centro d’ascolto per tossicomani da ventitré anni, è facile stare accanto a un ragazzo che sia affetto da quella grave patologia. Avendo imparato a tenere distinti ambiti di intervento e ruoli, riesco a stare nel ‘campo’ che mi appartiene, che è quello dell’educazione e delle cure informali. A proposito di queste ultime, non andranno confuse con le cure dei familiari, quando si tratti di assistere una persona affetta da malattie invalidanti o tipiche della vecchiaia. Genericamente intese, anche se previste con rigore dalla Scuola di Trento, ad esempio – vedere la Voce di Dizionario Community care in “lavoro sociale 3/2004, pp.421-426” e Cure informali (care) in “lavoro sociale 1/2002, pp.131-138” -, esse sono il nostro prenderci cura di persone che affiancheremo anche per anni: nel Centro di ascolto Libera Mente ci sono persone che frequentano il Centro anche da quindici anni. L’opera di affiancamento dei genitori che vi si conduce nel gruppo di auto-aiuto delle famiglie ci spinge a fare queste riflessioni sulle cure informali: in quanto adulti educatori, i genitori apprenderanno nuove modalità di comunicazione con i loro figli e nuovi stili educativi. Dovranno scegliere nuovi modelli educativi. Oppure, fare riferimento a vecchi modelli che conservino ancora la loro efficacia. Sicuramente, dovranno modulare il loro comportamento, basandosi sulla ‘fase’ che si sta attraversando: di puro ‘contenimento’, quando il ragazzo è nella fase acuta della dipendenza; di accettazione e di orientamento, quando i processi riparativi e ricostruttivi della personalità siano stati avviati.
Un Educatore che operi in un Centro d’ascolto può rivendicare l’assenza di competenze sviluppate in ambito accademico, essendo fornito di esperienza d’insegnamento – come nel mio caso – e di saggezza di vita, essendo un adulto impegnato nella formazione permanente di sé, nella cura di sé, nella ricerca costante delle proprie ragioni di vita nello studio, nella riflessione, nell’azione. Quasi cinquant’anni di studio della Filosofia, trentacinque anni di insegnamento della Letteratura italiana e latina, ma soprattutto della Lingua italiana, ventitré anni di lavoro sociale in un Centro d’ascolto, un’esperienza di formazione permanente in Exodus avviata venti anni fa autorizzano a pensare di aver conseguito certezze nel campo dell’Educazione e della Cura.
Rivendicare il valore e il peso di cure informali ha senso, perché prima, durante e dopo ogni intervento riparativo e ricostruttivo, intervengono a diverso titolo famiglia e volontariato sociale con un’azione educativa che è importante oggi che non dica genericamente ‘frustrazione’ e ‘rinuncia’: più correttamente c’è da dire Rifiuto (Versagung), con tutto quello che comporta di nuovo, anche per noi, questa rinnovata prospettiva.

La pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, da cui provengo, non sembra essere più di moda. Eppure, il senso del limite si apprende soltanto quando ci si scontri con le prescrizioni per l’azione che sono dettate da un’autorità riconosciuta e ‘ascoltata’. Un tempo contribuivano anche le pene corporali a confermare l’autorità della scuola e della famiglia. Oggi, è più difficile acquisire autorità sul campo, senza la ‘sponda’ rappresentata da Autorità che non era necessario nemmeno riconoscere, perché si imponevano sui ragazzi per il mandato ricevuto.
Il ‘comandamento’ Onora il padre e la madre, ad esempio, aveva una sua forza, per cui si imponeva nelle nostre vite attraverso esempio e testimonianza: i padri non erano soltanti i ‘patriarchi’ che rivendicavano un potere quasi esclusivo sui figli: essi provvedevano sempre alla trasmissione del desiderio. Quando chiesi la bicicletta nuova a mio padre, non disse di no. Ci pensò un po’ su e disse solennemente che l’avrebbe comprata «tra un anno». Naturalmente, io mi misi subito a contare i giorni. Così nasceva e si irrobustiva in noi il desiderio. Così imparavamo a differire nel tempo la soddisfazione dei nostri desideri: sapevamo che non sarebbe stato mai possibile avere ‘subito’. Nemmeno potevamo sperare di avere ‘tutto’. Passavamo il tempo a pensare a tutto quello che non avremmo avuto mai, perché troppe erano le cose che giudicavamo ‘irraggiungibili’. Così potevamo sognare ad occhi aperti, portandoci nel cuore le nostre segrete speranze. Così curavamo lo sviluppo dello spazio interiore indispensabile ad elaborare quello che poi sarebbe stato chiamato frustrazione. Ciò che ci veniva negato per l’immediato rientrava nel numero delle cose a cui bisognava rinunciare temporaneamente, in attesa di un ‘incasso’ certo ma lontano nel tempo. Così imparavamo a conoscere attesa e speranza. Così imparavamo ad accettare la rinuncia, la mortificazione, il sacrificio, l’assenza, la mancanza. In seguito, avremmo compreso meglio l’abbandono e la perdita.
Possiamo dire oggi che l’esperienza dell’abbandono è devastante, perché va ad intaccare i fragili equilibri che siamo impegnati a costruire ‘intorno’ al nostro Io, dimentichi del più poderoso e solido ‘contesto’ della persona.
L’esperienza della morte ci è più ‘familiare’, se non altro perché ‘attesa’, anche se la cultura dominante tende ad esorcizzarla, aiutandoci a ‘scansarla’, ad evitare di fare i conti con essa: è stato detto autorevolmente che è l’ultimo dei tabù.

Il campo dell’esperienza si è dilatato, per noi. Si potrebbe parlare di una mutazione antropologica che ha investito i sessi e le culture, che ha messo in questione sempre più i modelli educativi, che non ci consente di pensare l’esperienza nei termini autoritari in cui risultava ‘facile’ trasmettere esperienza da una generazione all’altra. La stessa espressione ‘trasmettere esperienza’ era forse già inadeguata allora: si trattava sempre di imposizioni, che spesso tradivano le vocazioni naturali delle persone… Quando, a partire dagli anni Sessanta, le energie ‘creative’ delle giovani generazioni si sono liberate, la mobilità sociale è cresciuta, le classi sociali sono scomparse, le distanze tra le persone si sono accorciate. La caduta delle barriere che tenevano separati i mercati, tuttavia, ha generato un nuovo tipo di solitudine: forgiare il destino personale in un campo tanto grande ha reso tutti esposti, più deboli, con meno tutele e scarse certezze sul mondo esterno. Da venti anni, almeno, nelle politiche di intervento a sostegno delle persone affette da grave disagio sociale, a partire dagli adolescenti, si è affermata una pedagogia interamente incentrata sulla persona, per ‘scoraggiare’ la domanda di sostanze stupefacenti e psicotrope, anche attraverso la promozione delle forme più impensate di agio sociale. Lo sfondo sociale, però, è rimasto immutato. Sdoganamento del narcisismo, epoca delle passioni tristi, nomadismo intellettuale, tribalismo giovanile sono stati invocati per dare un nome al disagio della civiltà di oggi. Schematizzando molto, si potrebbe dire che all’idea freudiana di un principio della realtà che si imponeva sul principio del piacere, inducendo il soggetto a rinviare il soddisfacimento del desiderio, si è sostituito un principio del piacere, che trova nel soddisfacimento immediato di tutti i desideri un indebolimento del soggetto stesso, che stenta ad incontrare il suo limite, impegnato com’è a scansare ogni forma di privazione e di dolore. Sacrificio e rinuncia sembrano i termini di una ‘regola’ del vivere quotidiano che non trova mai la propria misura.

Può, allora, ‘funzionare’ ancora una pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, aiutando le autorità parentali e scolastiche a segnare il limite che solo consente di crescere, giacché assegna mete credibili all’azione e fonda i processi di individuazione personali  su un senso di sé che non si risolva nella dissipazione infinita del consumo e basta?

La riconsiderazione della frustrazione nel quadro da cui ‘proviene’ e le sue relazioni con privazione e castrazione soltanto ci consentiranno di inscrivere le forme della mancanza sotto i registri del simbolico, del reale, dell’immaginario. Solo per questa via l’amore troverà la sua giusta collocazione, se sapremo oscillare tra presenza e assenza, senza perdere mai di vista il potere di chi ha da dispensare il dono, che può sempre revocare il patto, rifiutandosi di rispondere alla domanda d’amore.
Ritrovarsi di fronte a questo rifiuto non significa soltanto sperimentare l’abbandono reale e la perdita reale dell’oggetto d’amore. Il ‘soggetto del rifiuto’ è inizialmente la madre, in seguito la donna, che ci metterà di fronte alla sua mancanza costitutiva, facendoci misurare nella maniera più esatta il ‘destino’ del desiderio.

Imparare a vivere, in questo quadro, significherà imparare a comprendere che non ci troviamo più di fronte all’onnipotenza delle madri, che non rinunceranno mai a donare l’amore incondizionato di cui i piccoli hanno bisogno, ma saranno costrette sempre più consapevolmente a rifiutarsi di dire sì a ciò che non possono dare, perché ne sono prive, e per l’insaziabilità del desiderio: soddisfare esso ‘incondizionatamente’, ammesso che sia possibile, non basterebbe a ‘colmare’ la mancanza costitutiva di ogni essere umano, che è destinata a rimanere tale, in tutte le epoche della vita.

A questa coscienza alta della nostra condizione deve corrispondere una capacità di visione della realtà dell’anima altrettanto alta: ‘psiche’ non basta più, con i vecchi schemi del Novecento.
L’esercizio che ci attende è abitare la distanza, come etica del linguaggio che pensa l’invisibile dell’esperienza propria e quella altrui, senza impazienze e senza soverchie illusioni. La distanza che separa dagli altri è da ricondurre sempre alla nozione definitiva di mancanza, che istituisce ogni altra nozione e tutte le categorie di cui ci serviamo per ordinare l’esperienza nei suoi confini.

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«Vi ho pregato di rivedere l’uso che si fa oggigiorno in analisi del termine frustrazione. Volevo così incitarvi a ritrovare ciò che vuol dire nel testo di Freud, dove quel termine non viene mai utilizzato, il termine originale di Versagung, nella misura in cui ha un accento che va ben al di là e più a fondo di ogni frustrazione concepibile». (Jacques Lacan, Il Seminario, Libro VIII, p. 330 dell’edizione in lingua francese) 

Per tornare a Versagung e alla portata di questo concetto per noi, sarà utile fare riferimento a un’occasione linguistica denunciata da Moreno Manghi, autore del saggio Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan su cui poggia questa nostra riflessione: tutta la psicoanalisi del Novecento ha contribuito a costruire una ‘pedagogia della frustrazione’ sulla base di un termine che non compare mai nell’opera di Freud! (Anche noi, in verità, abbiamo creduto fino a poco fa che il tossicomane sia persona che non tollera il peso della frustrazione! E’ dato poco rilevante che si dia pure il fatto dell’irritazione conseguente a tutte le esperienze di assenza e all’incapacità di agire indotta dalle sostanze: il disturbo prodotto dalle condotte d’abuso ha la sua ragione in un più generale ‘blocco’ della capacità di accettare le rinunce che accompagnano i nostri atti liberi. In assenza di questi ultimi – se anche noi ci ritroviamo nella condizione di non poter agire liberamente, saremo irascibili, irritabili, ‘frustrati’… -, cercheremo altrove la spiegazione del nostro disagio).
La nozione di frustrazione andrà ricondotta dentro più nitidi confini, se opportunamente distinta da privazione e castrazione e articolata rispetto alla mancanza dell’oggetto secondo le categorie dell’oggetto simbolico, reale, immaginario:

Mancanza Reale: Privazione Immaginaria: Frustrazione
Simbolica: Castrazione
Oggetto simbolico reale immaginario

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Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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I nostri Esercizi

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Martedì 25 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (2)
Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Il quadro dei moderni Esercizi spirituali è destinato a crescere. Già Goethe aveva da proporne di suoi. Sarà utile aggiornare la nostra mappa del territorio, includendovi le pratiche a cui ricorriamo e che si configurano sempre più come veri e propri Esercizi.

La mia Rubrica Camminarsi dentro costituisce per me dal settembre 2006, dal giorno della morte di mia madre, un’occasione permanente per mettere alla prova la capacità di verbalizzare l’esperienza. Dare voce all’inespresso, ‘sfidando’ l’Ombra e la forza del Pudore, è compito. L’una si annida nei meandri dell’Anima, per assumere nella vita quotidiana le più diverse maschere; l’altro si erge a custode dell’Inconfessabile, per proteggere l’Anima stessa dagli assalti dell’immortale volgarità umana. Questo Esercizio è per me Scrittura più che conoscenza di me stesso: non il mero ‘contenuto’ del pensiero ma la forma dell’Anima, la piega delle cose, il ritmo dell’esistenza mi interessa restituire.
Qualcuno mi ha preso in giro per i modi della mia scrittura, ma non me ne sono curato, perché mi è parso non accettazione di ciò che sono: a questo la Scrittura non può porre rimedio in alcun modo. «Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno, bensì superare il confine tra realtà e immaginario». (M.Foucault)
Diremo, allora, Imparare a scrivere, per significare il nostro divinare dal fondo enigmatico e buio da cui proveniamo.
Per quanto riguarda la fedeltà a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio, diremo soltanto che non è in questione la verità: tutte le volte che è stato possibile riferire ‘fedelmente’ i dati della nostra esperienza lo abbiamo fatto, e ci impegneremo a farlo ancora! Altrimenti, abbiamo praticato la dissimulazione onesta, per proteggere la nostra fragilità e quella delle persone a cui sarebbe stato utile accennare. «La scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos» (M.Foucault). La speranza che ci muove è sempre la stessa: fare della scrittura un mezzo di testimonianza, per indicare ad altri un modo di consistere presso di sè e nel mondo.

Accanto alla Scrittura non esiteremo a situare il ‘parlato-parlato’, cioè quella forma di espressione orale ‘faccia a faccia’ che trova nella Voce «il vettore dell’esperienza più prossimo all’inconscio» (J.Lacan), che restituirà una verità non soltanto supposta tale: occorreranno occhi di seconda vista per riuscire a sentire le voci di dentro – quelle che risuonano dentro di noi come quelle che risuonano dentro gli altri – e a dare senso ad esse.
A tutti gli ‘increduli’, cioè a coloro che non riescono mai a venire a capo della verità, giacché pretendono soltanto di scolpire nella pietra la ‘verità’ di quello che è accaduto ieri pomeriggio alle cinque, di cui sono indubitabilmente certi, non basterà l’autorità della Voce, ancor più potente della Scrittura, per accedere alla realtà dell’esperienza dell’altro, per coglierne gli invisibilia. Essi non hanno ancora scoperto il «quasi-niente» (Jankélévitch) che stringono tra le mani!
Chi non è guidato dalla saggezza dell’amore non saprà dare valore a Voce, Volto, Scrittura dell’altro: continuerà a chiedere e a pretendere una verità che gli sfuggirà sempre, pur ‘possedendo’ tutte le tracce che conducono ad essa. Queste tracce sono sotto i nostri occhi, ben nascoste alla superficie. La natura ama nascondersi. L’anima personale non è da meno. Pur non essendo riducibile all’essere che si eclissa, i modi del suo darsi finiscono per risolversi nei modi del suo nascondersi. Solo aprendosi a nuove evidenze arriveremo ad attingerne il senso.

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[ L’esigenza ricorrente di aggiornare nel tempo il quadro dei nostri Esercizi, anche integrandolo con tipologie a cui non aderiamo ma che sono espressione di Pratiche filosofiche proprie del nostro tempo, richiederà aggiornamenti ulteriori di questo articolo, magari un suo trasferimento tra le Pagine, dove sono ospitali i Testi esemplari e i Testi definitivi. ]

 

Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Strategie di apparizione

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Domenica 25 novembre 2012

IMPARARE A VIVERE (1)
Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

[Testo della canzone]

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Degli Esercizi spirituali tipici della cultura pagana, scoperti da Pierre Hadot, Imparare a vivere sembra il più scontato, ma anche il più complesso da ‘costruire’. Per lungo tempo, ho ricondotto la meditatio mortis foscoliana – la meditazione sulla morte del carme Dei Sepolcri – a meditatio vitae (meditazione sulla vita), forte dell’insegnamento di tanta critica letteraria e delle fonti rappresentate dalla sapienza greca e romana. ‘Imparare a morire’ per ‘imparare a vivere’. Eppure, a quest’ultimo Esercizio andrà riservato un suo spazio specifico. Lo stesso Hadot lo fa quando scrive Ricordati di vivere, dedicato agli Esercizi spirituali cari a Goethe: la presenza, vedere le cose dall’alto, la speranza.

Dalla mia esperienza più che trentennale di insegnante ho ricavato il compito dell’educazione dei sentimenti a cui mi sono sempre dedicato con l’aiuto della Letteratura e della Filosofia. Al centro della mia attenzione avevo messo la malinconia d’amore, perché convinto della necessità di far conoscere ai ragazzi, all’altezza del terzo anno di Liceo, con Petrarca, l’importanza di quel sentimento. Già allora proponevo lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita come termini chiave di un discorso da costruire con anni di studio, di riflessione, di meditazione sulla vita della propria coscienza. Ero convinto del fatto che «la realtà si comprende a partire dai suoi estremi» (S.Kracauer), dunque l’esperienza del dolore ci avrebbe consentito di realizzare il governo dei nostri sentimenti (M.Foucault). Tra purificazione dell’anima dalle emozioni e purificazione delle emozioni, ho sempre ritenuto che si dovesse seguire la seconda via, come poi hanno confermato gli studi che hanno messo in discussione l’errore di Cartesio (A.Damasio), cioè la separazione della ragione dal senso, e tutte le filosofie che oggi non separano il sentire dal pensare. Di qui, la necessità di una conversio, di una conversione dello sguardo verso la propria interiorità, là dove avremmo trovato la verità.

Il primo compito grande che ci attende è imparare a vivere, imparando a dare senso alle cose, perché non ne hanno uno o tendono a precipitare nel non senso, nell’insensatezza, nell’inumano, se lasciamo che prevalgano le ragioni delle cose sulle ragioni dell’umano che è in noi.
Nel Trattato di semiotica generale (1975), Umberto Eco in apertura definisce i caratteri della cultura, distinguendo tra processi di significazione e processi di comunicazione. In quegli anni, avevo acquisito l’idea che l’uomo, oltre la sua natura di animale politico, cioè sociale (Aristotele), oltre la sua natura di animale razionale (Cartesio), può essere meglio definito come animal symbolicum, animale simbolico, cioè capace di produrre linguaggi. Dunque, la Sinngebung – l’attribuzione di senso – prima di tutto. Si potrebbe dire che questa sia la nostra attività più importante.
Se sperimentiamo lo smarrimento, lo spaesamento, il disagio e ‘subito dopo’ corriamo a cercare il senso, a restituire senso a ciò che non ne ha più; se l’esperienza del vuoto, conseguente al nichilismo tipico del nostro tempo, ci porta a ritenere che essa debba essere ‘curata’ aiutando i ragazzi che ne cadono preda insegnando loro a ‘riempire il vuoto’, cioè a restituire senso alla loro esistenza, è perché sappiamo bene come la mancanza sia costitutiva del nostro essere, dunque dobbiamo imparare a consistere a partire da essa, senza immaginare scorciatoie o facili ‘sublimazioni’ e idealizzazioni della nostra condizione naturale e storica.

Imparare a vivere è possibile, innanzitutto, riconoscendo come l’esperienza dell’assenza dell’altro costituisca l’entrata inaugurale della morte nella vita. Fin da bambini, di questo facciamo subito esperienza. Il nostro pianto è conseguente a tutti i rimproveri, le separazioni, le assenze, gli ‘abbandoni’.
Il primo documento scientifico  di questa esperienza precoce è in una pagina di Freud nota come il gioco del rocchetto.

Sul gioco del rocchetto, riferito da Freud, è stato detto a sufficienza. Recentemente, i lacaniani sono tornati a scrivere, sottolineando, tra le altre cose, l’importanza della seconda parte del ‘gioco’: le strategie adottate dal bambino per esorcizzare l’assenza della madre, con il ricorso alla produzione di adeguati fantasmi della mente.
D’altra parte, non è la strada che dobbiamo percorrere tutti infinite volte nel corso della nostra vita, quando ci ritroviamo a sperimentare lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita? Tra lutto e malinconia non si gioca una parte grande della nostra vita? Dal semplice fatto che una persona a noi cara si allontani per un po’ fino alla sua morte, noi passiamo attraverso infiniti gradi di ‘abbandono’, che sono vissuti tutti da noi allo stesso modo, se non sappiamo come esorcizzare la lontananza, perché ogni volta vorremmo rimproverare l’altro della mancanza che ci viene ‘imposta’. Ciò che è comune a tutti e ricorrente ci risulta esclusivo – accade solo a noi – e definitivo – temiamo di essere stati abbandonati. Quell’assenza ci fa sentire veramente soli, privi di un bene essenziale. Solo noi sappiamo quanto grande sia la pena in cui precipitiamo, che potrà sembrare anche piccola ad altri, ma per noi è ferita che sanguina. È stata chiamata “la ferita dei non amati”. È un giacere sconfitti nell’attesa.
Il mistero di questa condizione comune è nel fatto che ci ritroviamo a vivere come se non ricordassimo il bene che abbiamo ricevuto. Dunque, non speriamo. Ci convinciamo per un po’ del fatto che la persona amata non tornerà: è come se l’avessimo perduta, anche se è uscita solo per andare a fare la spesa! Noi ‘sappiamo’ che tornerà, ma ci comportiamo come se non dovesse tornare, ‘come se non sapessimo’!
La risoluzione del mistero è tutta nel ‘gioco’ stesso: il nostro errore è nel fatto che ci limitiamo ad elaborare il Fort, trascurando il Da: il bambino di cui ci parla Freud non si limita a lanciare il rocchetto sotto un mobile, per simulare la sua sparizione! Egli non si limita a constatare che la madre si sia allontanata. Fa di più: immagina che possa tornare. La fa tornare. Tira il filo del rocchetto e la fa apparire di nuovo. Giustamente, è stato osservato che la parte più importante del gioco è quest’ultima. La nostra attenzione, allora, per iniziare a definire l’esercizio dell’imparare a vivere, dovrà concentrarsi sulle strategie di apparizione, cioè su tutto ciò che mettiamo in opera per fronteggiare la mancanza, che costituisce la nostra condizione generale, immaginando tutto ciò che si richiede per sopperire ad essa.
Dai modi della risposta alla mancanza e dal loro successo dipende il corso che imprimeremo alla nostra esistenza, la qualità della nostra vita, l’esito del processo di costruzione del nostro carattere, il grado di ‘compiutezza’ della nostra crescita, la possibilità di vivere in armonia con noi stessi oppure no.
Tutti gli ‘aggiustamenti’ che interverranno a correggere il corso delle cose – anche attraverso processi riparativi e ricostruttivi – hanno di mira la marca della mancanza, il significante per eccellenza: il segno della nostra incompiutezza e della nostra finitudine, della nostra infondatezza e del vuoto da cui proveniamo.
Tutte le cure materne, assieme a quelle che interverranno successivamente per farci sentire amati, contribuiranno a colmare il senso della mancanza che non ci abbandonerà mai.

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Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

IL GIOCO DEL ROCCHETTO: «… ho sfruttato un’occasione che mi si è offerta per chiarire il significato del primo giuoco che un bambino di un anno e mezzo si è inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di una fuggevole osservazione, perché sono vissuto per alcune settimane sotto lo stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli ripeteva continuamente. Lo sviluppo intellettuale del bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era elogiato per il suo “buon” carattere. Non disturbava i genitori di notte, ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto un filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o-“; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a se stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto1. L’interpretazione del giuoco divenne dunque ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparir e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere. È ovvio che per dare una valutazione del significato affettivo di questo giuoco non ha importanza sapere se il bambino lo aveva inventato da sé o se esso gli era stato suggerito da altri. Il nostro interesse è diretto ad un altro punto. È impossibile che l’andar via della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino. Come può dunque accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di giuoco di questa penosa esperienza? Forse si risponderà che l’andarsene doveva essere necessariamente rappresentato, come condizione che prelude alla piacevole ricomparsa, e che in quest’ultima risiedeva il vero scopo del giuoco. Ma questa interpretazione sarebbe contraddetta dall’osservazione che il primo atto, l’andarsene, era inscenato come giuoco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente più spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale. L’analisi di un caso singolo come questo non permette di formulare un giudizio sicuro e definitivo; se si considera la cosa in modo imparziale, si ha l’impressione che il bambino avesse trasformato questa esperienza in un giuoco per un altro motivo. All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva la parte attiva. Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia piacevole o meno. Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: “Benissimo,vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via”. (Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere vol.9, Boringhieri, Torino, p. 200-202).

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Si può fare, si può fare
si può prendere o lasciare
si può fare, si può fare
puoi correre e volare.
Puoi cantare e puoi gridare
puoi vendere e comprare
puoi rubare e regalare
puoi piangere e ballare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
puoi volere e puoi lottare
fermarti e rinunciare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
si può crescere e cambiare
continuare a navigare.
Si può fare, si può fare
si può prendere o lasciare
si può fare, si può fare
partire e ritornare.
Puoi tradire e conquistare
puoi dire e poi negare
puoi giocare e lavorare
odiare e poi amare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
puoi volere, puoi lottare
fermarti e rinunciare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
si può crescere e cambiare
continuare a navigare
si può fare, si può fare
si può prendere o lasciare
si può fare, si può fare
mangiare e digiunare.
Puoi dormire e puoi soffrire
puoi ridere e sognare
puoi cadere e puoi sbagliare
e poi ricominciare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
puoi volere, puoi lottare
fermarti e rinunciare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
si può crescere e cambiare
continuare a navigare
si può fare si può fare
puoi vendere e comprare
puoi partire e ritornare
E poi ricominciare.
si può fare, si può fare
puoi correre e volare.
si può piangere e ballare,
continuare a navigare.
Si può fare, si può fare
si può prendere o lasciare
si può fare, si può fare
puoi chiedere e trovare.
Insegnare e raccontare
puoi fingere e mentire,
poi distruggere e incendiare
e ancora riprovare.
si può fare, si può fare
si può fare, si può fare
si può fare, si può fare
si può fare, si può fare
si può fare, si può fare

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AI CONFINI DELLO SGUARDO (4): Per una Comunità di destino

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Martedì 20 novembre 2012

L’età raggiunta – i miei sessantaquattro anni – e la collocazione geografica – la provincia del Centro-Italia – costituiscono senz’altro una ‘condizione’ che non favorisce scelte come quelle incontro alle quali va un giovane che voglia abbracciare le pratiche filosofiche come stile di vita e habitus professionale: bisognerebbe raggiungere una delle sedi in cui i gruppi interessati si costituiscono in comunità, dentro le Scuole di formazione.
Comunque si voglia chiamare il gruppo, la comunità, la realtà vivente alla quale appartenere, non può essere virtuale, cioè fondata sulla distanza fisica e sull’assenza. Occorre guardarsi negli occhi e condividere passioni per poter ‘fare comunità’.
Non resterebbe, allora, che l’esercizio personale, la pratica privata, la scelta di un modo di vivere che si apparenti alla ‘formula’ degli Esercizi spirituali. Non resta che patire l’impossibilità di far parte di una comunità reale di persone impegnate a coltivare la loro anima con una spiritualità laica. D’altra parte, questa limitazione vale per la maggioranza di coloro che pure condivideranno uno degli indirizzi che si affermano in Italia e nel mondo e che sono riconducibili alla consulenza filosofica e alle pratiche filosofiche.

Mi chiedo, nello stesso tempo, se abbia senso e quale portata il legame ‘a distanza’ con persone che condividano le pratiche filosofiche. Nel tempo delle reti virtuali, sembrerebbe di sì, che ha senso sentirsi parte di una comunità ideale di spiriti interessati allo scambio di risorse che ogni relazione umana significativa rende possibile. Se il contatto epistolare e gli incontri occasionali servono a creare un legame di simpatia ( e ) e il piacere del dono delle conoscenze acquisite nel tempo; se interviene una preoccupazione per il destino dell’altro, per la salute della sua anima, per il suo benessere spirituale, è lecito parlare di Comunità di destino, alla maniera in cui ne parla Eugenio Borgna ()? Ancor più interessante chiedersi se la nozione di ‘comunità di destino’ possa estendersi alla trama dei legami esistenti dentro il Centro di ascolto. 

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AI CONFINI DELLO SGUARDO (3): La cura di sé attraverso gli Esercizi spirituali

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Domenica 18 novembre 2012

Dal vecchio Ai confini dello sguardo. Percorsi del riconoscimento, tra lotta e dono al nuovo Ai confini dello sguardo. Solo il vero sapere ha potenza sul dolore il ‘titolo’ del sito è cambiato.
La riflessione personale sul da farsi, su come dobbiamo condurre la nostra vita, si concentra sempre di più sugli Esercizi spirituali, che mi piace chiamare semplicemente con la categoria degli Esercizi (Ασκήσεις): il contesto provvede bene a qualificare ulteriormente la pratica della cura di sé in cui siamo impegnati. E’ l’educabilità degli Educatori che ci qualifica per intero, anche se il movimento verso se stessi – Camminarsi dentro – occupa uno spazio grande nel sito.
Di questo ormai si tratta: il cammino dell’autoeducazione, del miglioramento di sé, è coltivazione dell’anima (Zoja).
Il ‘vero sapere’ di cui parla Eschilo è il sapere dell’anima, il movimento incessante verso il fondo enigmatico e buio da cui proveniamo.
Della luce sappiamo ‘tutto’: noi siamo nella luce, consistiamo nella luce. Siamo addirittura convinti che la luce prevalga su tutto: nella Bellezza, nell’Amore, nell’Ethos… Come se il Valore dovesse risplendere solo nel movimento della vita verso l’alto! In realtà, ciò che prevale è sempre la ‘guerra’ degli opposti, il coesistere dei contrari: la presenza irriducibile dell’uno all’altro. Dappertutto, predomina la differenza.
E’ l’Ombra, la tenebra in noi, che ci sfugge. La stessa conoscenza dell’altro – dell’altro che è in noi, come dell’altro che è fuori di noi – è movimento verso l’invisibile dell’esperienza personale, ma soprattutto esercizio di comunicazione (e di quotidiana ‘contrattazione’ dei significati) con la parte oscura, in ombra, misteriosa, enigmatica che parla, che agisce spesso in modi che ci stupiscono: avvertiamo che non siamo ‘noi’ a parlare, ad agire.
Il movimento verso la terra incognita rappresentata dall’altro che è fuori di noi è sempre segnato da uno sguardo ‘discreto’ – ché mira a spezzare il continuum della coscienza inquieta -, che aspira a ‘dialogare’ con quell’altro che è nell’altro e che sembra spesso prevalere su di noi, generando smarrimento, spaesamento, autentico disagio. ‘Tenere a bada’ la propria Ombra è diventato un imperativo morale. Le persone poco consapevoli e affette da analfabetismo emotivo e sentimentale sono oggi quelle che agiscono spinte da impulsi incontrollabili, perché prive della spazio interiore in cui elaborare mancanze e assenze, lontananza e perdita.
La stessa scrittura, che ci rivela ciò che ci abita, è quotidiano esercizio di produzione di sé. E’ il far parlare l’altro che è in noi.
La lettura, poi, cos’è oggi per tutti noi, se non interpretazione di testi (scritti), discorsi (orali), esistenze (persone)?

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Aprèslude

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Domenica 11 novembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (438): Un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, ora giù a fondo,
ora sommerso, ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuol fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile – 
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèlude.

GOTTFRIED BENN

L’insostenibile leggerezza dei nostri amori si scontra ad ogni piè sospinto con la pesantezza delle cose. Noi vorremmo non tanto un idillio senza fine, quanto un respiro, più spazio, un’udienza maggiore, risposte pronte, disponibilità di tempo, ma ci scontriamo con la ‘pienezza’ della realtà: la realtà dell’altro è piena, perché si svolge nel tempo; è scandita da interessi, impegni, obblighi di ogni genere. E questo non ci piace. Sembra una congiura che l’altro trama ai nostri danni, per farci soffrire.
Non siamo capricciosi. Non pretendiamo che non vada a lavorare, ma ci farebbe piacere che almeno una volta lo facesse. E solo per noi. Per stare accanto alla nostra malinconia. Per farla diradare.
Insomma, non vorremmo urtare contro i nostri muri: sappiamo che sono solo i nostri muri quelli che si ergono davanti a noi, ma concedeteci che alcuni muri siano riguardati come muri, altrimenti tutta la realtà si risolverebbe in favola e nulla sarebbe più certo!
Lo abbiamo ammesso per primi: la leggerezza dei nostri amori è insostenibile! Da una parte sembra che ci sia una libertà senza limiti, cioè una disponibilità assoluta; dall’altra, una rigida acquiescenza a tutte le richieste del reale, senza concessione alcuna al libero gioco del desiderio! Di quest’ultimo abbia seguito nel tempo i numerosi slittamenti, tanto che ci convince la sentenza di Hofmannsthal che abbiamo vagheggiato da lontano: 

Maturità è distinguere sempre più nettamente e legare sempre più profondamente.

Non ci spaventa più la distanza che il tempo mette in mezzo, provvedendo a far risaltare di ognuno l’identità compiuta, con la forza del carattere. Non solo file di continuità intervengono a garantire la solidità della relazione sentimentale. La maturità degli affetti ci consente di osservare l’altro che si allontana senza provare più quel senso di abbandono che provavamo un tempo. Oggi sappiamo bene che tornerà. Abbiamo imparato a ricordare il bene ricevuto, per questo non smettiamo mai di sperare che l’altro torni sempre a procurare il nostro bene.

Un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio.

Come non considerare ancora la condizione di chi non scelse la propria solitudine e non smise mai di chiedere, di aspettare, di illudersi ancora? I giorni dell’obbrobrio sono tutti di chi è solo e non potrà certo ricavare motivo di gioia dall’esser solo. L’esercizio più duro è condensato nella prescrizione del poeta, che non esita a raccomandare di concedersi, di oscurarsi, di riconoscere che è giunto il tempo residuale di un’ora che non è più ‘ora’, perché non c’è più l’incanto della luce di una volta. Eppure, ci sono ancora i giorni che sono gioia e i giorni che sono solo obbrobrio, tetra nostalgia e barbara malinconia.
Tra la solitudine a cui tutti siamo votati, che accompagna ogni processo di maturazione personale, e la solitudine di chi patisce l’angustia della mente dell’altro, l’apatia dei sensi, non disgiunta da aridità di cuore, è facile comprendere quanto quest’ultima forma di solitudine renda più arduo l’aprèslude.
C’è pomeriggio e pomeriggio. Ci spaventa il crepuscolo della sera tutte le volte che ci ricorda la felicità perduta. A che vale la nostalgia della bellezza, se non ci è più concesso di tendere la mano a stringere ancora la mano di chi aveva promesso lungo amore e oggi tace, dimentico di sé e delle più dolci promesse di un tempo? E’ sera.

Boris Blacher: Aprèslude op.57 (1958): quattro lieder per voce e pianoforte su testi di Gottfried Benn

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Il premio più grande

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Giovedì 8 novembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (437): Il premio più grande

 

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La dissimulazione onesta

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Martedì 6 novembre 2012

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Meditando sul conformismo e sull’ipocrisia della società del suo tempo, l’autore si interroga su quale possa essere la risposta e la reazione dell’uomo onesto. Torquato Accetto vuole dimostrare che la dissimulazione, quando si identifica con la prudenza e non giunge alla volgare menzogna, diventa nelle mani del saggio un’arma per difendersi dall’oppressione dei potenti. (dalla Voce Dissimulazione onesta di Wikipedia)

La dimensione privata del silenzio si arricchisce di una modalità personale di risposta agli insulti del tempo quando si renda necessario tacere di fronte a un torto grave subito. Prepararsi a un incontro sgradevole, con persona a cui si vuole bene, nonostante tutto, non è facile proprio perché ci spinge a parlare il sentimento che si prova ancora. (Non parlo, qui, del sentimento che ci lega a un partner dell’altro sesso). Il valore di una persona, da cui sempre il sentimento trae la sua ragion d’essere, costituisce per noi un dato ineliminabile, un ‘ostacolo’ da superare. Andare oltre ciò che pure ci fa soffrire e ostentare serenità non è facile, quando non si è sereni, ma è l’esercizio necessario da compiere, e va fatto ‘all’istante’, al cospetto della persona interessata. E’ un genere di esercizio che non può esser fatto se non ‘in presenza’. Per questo, l’incontro che mi aspetta sarà sgradevole.

La sua sgradevolezza dipende dal fatto che non è stato possibile perdonare il torto subito, a causa dello stile di vita dell’altro, improntato a superbia e noncuranza. Parlo di quel genere di Educatore che non risponde al telefono e alle lettere personali, perché impegnato in cose troppo grandi perché si dedichi, anche solo per pochi minuti, a noi. Nel contesto di appartenenza che ci è comune, una ‘guerra’ aperta non è mai raccomandata. Non è sufficiente ‘avere ragione’. Le grandi organizzazioni hanno un’etica non scritta che prevede un accordo incondizionato con le ragioni del Fondatore o del Capo. Di fronte alla nobiltà e all’altezza della spinta ideale, le nostre ragioni, tutte le ragioni private, sono elise, cancellate con quel silenzio che noi odiamo di più, perché mortifica le persone oneste e perpetua le ingiustizie. Le distorsioni provocate dalla rigidità di un carattere che mal si addice a un Educatore sono, così, nascoste. La situazione ci vede oggettivamente in difficoltà. Siamo nella condizione morale di non poter parlare. Proprio perché non ci è consentito combattere una battaglia di giustizia, dobbiamo tacere.

Io credo, allora, che questo tacere sarà una chiara forma di dissimulazione onesta. Metteremo tra parentesi la verità a fin di bene. La nostra non sarà ipocrisia – non abbiamo da trarne alcun vantaggio, anzi si accrescerà il danno! – né menzogna: non affronteremo le ragioni del dissidio. Non diremo le vere cause delle assenze recenti a importanti incontri collettivi. Eviteremo ogni contatto diretto con le persone che hanno ‘partecipato’ all’azione ignobile. Altro non ci è concesso dalle circostanze.
La pratica della chiarezza, che ci spinge nell’organizzazione a dirci le cose, a perdonare i torti subiti, a non conservare rancore non riguarda noi, che siamo in condizione di cattività. Non possiamo agire. Questa è una gigantesca contraddizione delle organizzazioni tutte, anche di quelle che mettono al primo posto della scala dei loro valori l’onestà.

Nel corso della mia vita, ho praticato sempre la strada difficile dell’abbandono, delle dimissioni. Il valore dell’esperienza in corso è tale che non può essere messa in discussione da un piccolo gruppo di farisei. Si tratta di limitare il danno, praticando una forma di silenzio che occorre comprendere. Essa sarà costosa. Non è detto che sarà possibile praticarla fino in fondo. L’esercizio potrebbe anche fallire.

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TORQUATO ACCETTO, La dissimulazione onesta, EINAUDI

Testo integrale dell’opera, da LiberLiber

 

 

 

 

 

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

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Roberta De Monticelli recensisce per SWIF l’Introduzione alla filosofia di Edith Stein in un testo significativamente intitolato Cosa significa essere una persona.

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Raccontare il dolore

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Lunedì 5 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (3): Raccontare il dolore

Una duplice difficoltà accompagna da sempre il bisogno di raccontare l’esperienza del dolore che vivo nel Centro di ascolto: la disciplina severa della riservatezza, che impone di non favorire l’individuazione delle persone che lo frequentano; la natura dei discorsi che si fanno nei colloqui di motivazione e negli incontri di gruppo.
Se è facile comprendere la prima difficoltà, più arduo è render conto della seconda. Nel Colloquio di motivazione, ciò che si fa colloquio è sempre una materia non riconducibile semplicemente al contenuto tematico, alle cose dette. Di queste è relativamente facile render conto: basterebbe annotare volta per volta le questioni affrontate. Le stesse cose, tuttavia, cessano di essere facile oggetto di discorso quando se ne consideri la valenza che assumono ogni volta che vengono affrontate dalle persone con il loro linguaggio, con le connotazioni che le parole assumono nelle situazioni proprie della vita della persona.
Restituire il contenuto di un colloquio è operazione che richiederebbe un resoconto fedele di ogni ‘passaggio’, di ogni ‘battuta’, ma la fedeltà invocata sarebbe tale solo se il dialogato fosse registrato per intero e trascritto parola per parola. Anche questo, però, non basterebbe. Un ascoltatore curioso pretenderebbe un supplemento di informazione. Vorrebbe sapere tutto del nostro interlocutore, dalla foggia dei vestiti al modo di gesticolare, alle espressioni del viso. Alla fine, non si accontenterebbe nemmeno delle nostre risposte, perché noi cadremmo ad ogni piè sospinto in interpretazioni infinite, per spiegare al meglio ciò che appare sempre carico di senso. L’ultimo ‘ostacolo’, quello che li riassume tutti, è questo: come restituire l’atmosfera sospesa, l’indecisione, l’esitazione, le pause dell’anima sugli indecidibili, la nostra stessa perplessità su quello che sta effettivamente accadendo? Quale peso dare ogni volta all’ansia che accompagna noi, all’avvio di ogni colloquio, ché temiamo, magari, di non riuscire a portare il nostro interlocutore da nessuna parte e che, per questo, trasmettiamo forse all’altro la nostra ansia, che si tradurrà in impazienza e fretta, in anticipazioni non autorizzate, in conclusioni affrettate…? Come rendere conto di quel genere di colloquio che parte sempre con una nostra difficoltà, perché convinti di non godere delle simpatie di quel ragazzo che proprio oggi è stato affidato a noi? Saremo testimoni attendibili, considerato che ogni più piccolo ‘risultato’ ci apparirà significativo, alla luce della nostra difficoltà di partenza? D’altra parte, tutte le volte che ci sembrerà di stare al sicuro, di poter condurre i colloqui agevolmente, siamo certi che non ci sfuggirà qualcosa di essenziale, proprio perché guideremo la conversazione verso mete sicure? E’ certo che dall’altra parte non ci saranno momenti in cui, magari, si tenderà a darci qualche certezza non ben fondata, per farci contenti?
Finiamo, così, per dare valore al dettaglio, alla sfumatura, alla piega imprevista che prendono le cose. Seguiremo il significante, gli slittamenti del senso, per essere certi che sia l’altro con i suoi moti spontanei a ‘guidarci’.

Abbiamo sempre preferito non prendere appunti durante i colloqui, per non interferire con la sua natura di ‘parlato-parlato’. I linguisti chiamano così il parlare ‘faccia a faccia’ senza un tema prestabilito, per distinguerlo da altre forme di parlato, come il ‘parlato-scritto’, che contraddistingue la lettura televisiva o un discorso che sia accompagnato dalla consultazione di appunti… Il nostro interlocutore, poi, potrebbe essere indotto a prendere altre strade, se distratto da una comunicazione asimmetrica, ché tale rischia di apparirgli un modo di interloquire non sostenuto dalla stessa spontaneità che ci mette lui. Del ricco ‘materiale’ di cui facciamo esperienza e di cui non veniamo mai veramente in possesso tutto va perduto, o quasi. Dobbiamo fondare sulla nostra memoria viva, per proseguire con efficacia il lavoro avviato con una persona e con la sua famiglia.

Un esempio forte può esser dato da un incontro drammatico avvenuto tempo fa tra un ragazzo e la sua fidanzata. Uscito dalla Comunità il giorno prima, è stato invitato a colloquio con la madre e la fidanzata. Quest’ultima era accompagnata da un’amica, tra l’altro, sorella di uno dei nostri ragazzi, residente in Comunità da più di un anno. L’ideale sarebbe stato fare a meno della presenza della madre del ragazzo, sempre disordinata e scomposta nei suoi interventi, a causa della sua ansia invincibile, e della presenza dell’amica della fidanzata del ragazzo, che sembrava dovesse fungere da sostegno a una persona che piangeva ad ogni passo del colloquio. Queste due presenze, tuttavia,  interferirono positivamente sull’andamento del colloquio: la prima, perché seguì la mia conduzione del colloquio, paga dei risultati che ottenevo ad ogni mossa della ragione; la seconda, perché non fece avvertire in nessun momento la sua presenza, rimase immobile e inespressiva, prese la parola solo alla fine, per dare testimonianza delle difficoltà che suo fratello incontrava a far ripartire la sua vita dopo tanti sacrifici. Il fidanzato della sua amica cosa poteva sperare di aver ottenuto dopo un mese di Comunità?
Nel corso di un’ora o poco più, la fidanzata ha confessato la sua ingenuità, perché molte persone intorno a lei l’avevano messa in guardia sui comportamenti di lui. Lei aveva sempre confermato la sua fiducia a lui: non voleva conoscere il suo passato! credeva alle sue parole di oggi! l’avrebbe aiuto a risollevarsi, bastava che si affidasse a lei, senza mentirle mai! A testimonianza della sua buona fede, lei ricordava come avesse fatto di tutto perché lui non uscisse dalla Comunità: era difficile per lei aspettare, tanto che non aveva fatto altro che piangere; adesso cosa avrebbe dovuto fare con lui? la situazione era anche peggiore.
Il colloquio a più voci aveva toccato le questioni della sincerità nei rapporti di coppia, la mancanza in lui di risorse da portare ‘in dote’ nella relazione sentimentale, il tempo lungo che si richiedeva perché egli tornasse a una vita normale, il dubbio legittimo che fosse difficile per lui farcela da solo, lontano da un programma residenziale…
Gli argomenti da me portati ‘a difesa’ della ragazza, perché non sembrasse che eravamo preoccupati di tutelare solo lui, venivano accolti di buon grado da lui, che si faceva sempre più arrendevole, più ‘sottomesso’ a lei.
Mentre lei parlava e piangeva, lui non faceva che annuire, ammetteva errori, colpe, responsabilità…
Insomma, in base alla nostra esperienza, era la prima volta che una ragazza si mostrasse subito consapevole dell’errore commesso, nonostante dichiarasse, nello stesso tempo, di essere perdutamente innamorata di lui. Questo sembrava ‘semplificare’ le cose, perché non restava che prendere atto delle parole di lei, che indicava a lui la sola via di un rientro in Comunità,
 mentre dichiarava piangendo che non avrebbe mai potuto aspettarlo per tanti anni – 2, 3, 4 anni?
Eppure, la rapidità con cui si era lasciato convincere dai miei argomenti e da quelli di lei ci aveva lasciato un dubbio e un sospetto sulle sue reali intenzioni: si diceva pronto a rientrare in Comunità, ma ripartiva con la ‘contrattazione’ sulla sede da raggiungere…
Nel tempo di quel colloquio, molte cose furono dette sulle quali sarebbe lungo riferire ora. La ‘trasformazione’ subita dal ragazzo che era venuto ostinato e bellicoso, assieme alla decisione di lei di interrompere il rapporto con lui, ci sembrarono troppo rapide e convinte. E se avessero acconsentito a un ‘orientamento’ delle cose in una direzione che non lasciava a nessuno dei due altra scelta, per uscire da un imbarazzo che era palpabile in entrambi? Evidentemente, si vergognavano entrambi, per opposte ragioni, delle scelte fatte! Ma cosa sarebbe accaduto nei giorni successivi? Si sarebbero incontrati ancora, nonostante la fermezza delle decisioni prese dall’uno e dall’altra? Il SER.T. avrebbe accettato una nuova partenza di lui? Sarebbe riuscito a convincere gli Operatori del SER.T. della bontà delle sue intenzioni? Il Giudice gli avrebbe concesso un’altra possibilità, pur in presenza di una violazione delle prescrizioni?

Queste e altre domande ancora ci accompagnarono durante un colloquio teso ma lucido. Eravamo arrivati a quel punto di chiarezza dopo tante bugie e sotterfugi, ma sarebbe stata vera chiarezza? Da parte di lui ci sarebbe stata autentica resipiscenza? Il colloquio era stato veramente efficace? A me sembrava di sì.
Restituire il senso di tutto quello che accadde quel giorno potrebbe essere utile qui, al di fuori di un resoconto degli anni trascorsi con il ragazzo e con la sua famiglia? I quattro tentativi precedenti di fuoriuscita dalla dipendenza non richiederebbero di essere riferiti? Le lunghe vicissitudini familiari e personali del ragazzo possono essere omesse, per render conto di un solo colloquio? E quand’anche ci dedicassimo alla ricostruzione di questa storia, dovremmo poi procedere allo stesso modo con tutte le altre storie? E tutto ciò che costituisce residuo di non detto – le discussioni tra Operatori, per decidere l’orientamento più giusto, per fissare la condotta da seguire caso per caso, le reazioni delle famiglie, le ripercussioni negli incontri di gruppo… – dovrebbe entrare in una ‘storia’ degna di questo nome? Fin dove è lecito riferire, pur in presenza di un anonimato garantito dall’assenza di chiari riferimenti alle persone e ai tempi dell’intervento? E cosa dire dell’esito dei singoli casi? Quale giudizio dare della ‘conclusione’ dei singoli programmi? In assenza di follow-up, cosa dire dei tanti ragazzi che sono andati via, avendo concluso il programma residenziale, e dei tanti che non lo hanno concluso e pure ‘stanno bene’?

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UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (0): Sempre in ascolto

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (1): Accanto al dolore

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (2): Una Casa che sia anche Comunità di destino

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Una Casa

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Domenica 4 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (2): Una ‘casa’ che sia anche comunità di destino

La realtà educativa di Exodus si sostanzia oggi di un modo nuovo di intendere i luoghi della sua azione educativa: don Antonio Mazzi, il Fondatore di Exodus, pretende da noi che chiamiamo Case e non Comunità le sedi territoriali.
‘Comunità’ conserva il vizio di origine di un termine che viene ricondotto comunque alla Comunità terapeutica, anche se quest’ultima è realtà diversa per ragioni giuridiche e tecniche – si richiede un ‘accreditamento’ della sede da parte della Regione competente, perché l’Ente si definisca ufficialmente come Comunità terapeutica: la presenza ‘in organico’ di personale specialistico soltanto consente di definirsi tale, dopo l’accreditamento.
Don Antonio ama ripetere da qualche anno che le nostre sedi non sono Comunità terapeutiche – anche se alcune di esse si sono avviate a chiedere il riconoscimento della Regione come Comunità terapeutiche -, ma non vuole nemmeno sentir dire più che sono Comunità: le stesse sedi riconosciute come Comunità terapeutiche debbono essere Case per i ragazzi. Un intero Capitolo – quello del 2011 – è stato dedicato al tema della Casa. Non starò qui a dire cosa sia Casa.
Mi preme, piuttosto, dire che Libera Mente, il Centro di ascolto in cui lavoro per Exodus, potrebbe essere considerato una Casa, anche a partire dall’idea di comunità di destino. Questa espressione non si sostituisce a quella di Casa. Non serve per chiarirla, per illustrarla, per comprenderla meglio. Diciamo pure che è una via diversa, percorsa da altri, che conduce allo stesso valore. Una comunità di destino, però, non è necessariamente una Casa: può essere anche soltanto un gruppo provvisorio che sia impegnato nel lavoro di aiuto. Perciò, Comunità di destino e Casa non sono la stessa cosa.
L’attitudine quotidiana di una Casa che ospiti i ragazzi in permanenza è complessa, giacché comprende: i principi, i valori, le idee, il linguaggio comune a tutte le Case di Exodus; ‘programmi’ personali da seguire; orientamenti per il reinserimento sociale e lavorativo ‘costruiti’ con la persona; un sistema di ‘regole’ che scandiscono il tempo della giornata.
Il Centro di ascolto, attraverso i suoi Educatori,  può ‘trattenere’ un ragazzo per due ore alla settimana, in due colloqui settimanali; può prolungare quel tempo, se le esigenze della situazione portano naturalmente a superare il tempo stabilito; può incontrare, eccezionalmente, il ragazzo fuori della sede, per interventi finalizzati all’aiuto; costruisce con la famiglia un’alleanza destinata a durare a lungo nel tempo, perché una visione sistemica della famiglia stessa favorisce la ‘ricostruzione del paesaggio affettivo’ da parte del ragazzo; finisce per coinvolgere gli stessi Educatori in una vita di relazione che interessa la loro esistenza personale: è impossibile non uscire dall’indifferenza, ammesso che mai un Educatore possa essere indifferente alle vicissitudini della coscienza dell’altro!

Preferire ‘Casa’ a ‘Centro di ascolto’ sarà un’attitudine da promuovere nei rapporti tra adulti, cioè tra i genitori e gli Educatori, per interessare successivamente i ragazzi stessi a questa idea.

Ritenere, come io penso, che ‘comunità di destino’ sia espressione più forte e pregnante non vuol dire che riceverà una buona accoglienza. Probabilmente, questa idea non sarà nemmeno compresa. Sarà sicuramente respinta da chi giudica sufficiente il concetto di Casa.
Accogliere una persona in una comunità di destino significa proporle un ‘luogo’ in cui il criterio della medesimezza umana guida tutti i gesti e i discorsi: gli Educatori sono essi stessi comuni mortali che portano nella relazione educativa la loro biografia, la loro fragilità, i limiti della loro esistenza. Per un ragazzo che ami smontare i motori delle automobili come relazionarsi con chi, come me, predilige la letteratura e la filosofia? Questo è un mio limite. Io andrò all’incontro con quella esistenza consapevole del fatto che difficilmente riuscirò ad essere alla sua altezza.

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UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (1): Accanto al dolore 

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Accanto al dolore

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Domenica 4 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (1): Accanto al dolore

Ecco cosa noi siamo: una comunità di cura e di destino. L’idea mi è venuta in questi giorni dalla lettura dell’ultima opera di Eugenio Borgna – Di armonia risuona e di follia – e dal video di presentazione apparso sul canale di Feltrinelli.

Potrebbe sembrare inappropriato definire un Centro di ascolto ‘comunità di cura’, ma solo se ci fermiamo al significato medico-sanitario della cura. La ‘terapia’ delle tossicodipendenze, infatti, non è solo terapia farmacologica. Trattandosi di una sindrome bio-psico-sociale, solo un approccio multimodale e a rete garantisce il successo della ‘terapia’: è indispensabile, accanto allo sguardo clinico dei Medici e degli Psicoterapeuti, la presenza e il raccordo sistematico con gli interventi degli Assistenti sociali e degli Educatori. La rete attivata, come comunità di cura, comprende gli Educatori: noi siamo parte di una comunità di cura. 

Le reti solidali, le reti tematiche, le reti sociali che si costruiscono di volta in volta intorno alla persona che chiede aiuto non lasciano irrelate le diverse professionalità, giacché esse non si ritrovano ad agire in ‘assoluta’ autonomia, cioè sciolte da ogni legame con le altre professionalità. Correttamente collocata la persona dell’utente al centro dell’azione congiunta, ciò che vive non è forse una piccola comunità di cura appositamente creata per quella persona? Dunque, noi Educatori, se sollecitiamo ogni volta di nuovo la creazione della rete sociale, saremo parte essenziale di una comunità di cura.

La collaborazione ventennale con il SER.T. della mia città mi permette di dire che ad ogni nuovo utente inviato dalla struttura pubblica rispondiamo attivando, dopo i primi contatti, la rete necessaria. Il lavoro di raccordo e il successivo orientamento verso le scelte ulteriori viene curato da una parte e dall’altra, con fiducia reciproca. Dalla parte del Centro di ascolto, nel colloquio di motivazione, in quanto Educatori, miriamo a costruire relazioni stabili con la persona che chiede aiuto, mostrando interesse per l’esistenza personale, a partire da tutte le vicissitudini della coscienza. La relazione d’aiuto ci vede implicati come figure di riferimento – perché nel tempo tali diventiamo per i ragazzi –  impegnate a ‘restituire’ ai genitori del ragazzo la naturale funzione di figure di riferimento per lui.
La ‘ricostruzione del paesaggio affettivo’ nella coscienza del ragazzo richiede anni di lavoro, che si svolge nella maggior parte dei casi altrove, in Comunità educative con le quali noi collaboriamo.
L’orientamento costante verso mete che trascendono la condizione attuale del ragazzo è possibile solo se il lavoro di motivazione al cambiamento vede coinvolti i genitori 
in un lavoro parallelo, che li veda impegnati a comprendere le ‘ragioni’ del figlio: solo un cammino di crescita personale li renderà di nuovo credibili agli occhi del figlio. La trasformazione dei genitori incoraggia il figlio a cambiare, a chiedersi cosa egli debba fare per cambiare.
Gli Educatori non sono solo ‘tecnici’ o neutri testimoni del cambiamento. E’ importante che si senta una presenza che, a sua volta, sia espressione di cambiamento. Pur nella distanza necessaria che contraddistingue il rapporto con tutti gli utenti e con le loro famiglie, l’Educatore non adotterà mai atteggiamenti impersonali; non curerà un distacco che raggelerebbe la relazione; non sarà mai indifferente ai vissuti e agli accadimenti di cui sarà testimone attivo. Essere ‘accanto al dolore’ dell’altro è il ‘contrario’ del distacco, dell’impersonalità, dell’indifferenza.
Il gruppo di auto-aiuto delle famiglie, che vive negli incontri del mercoledì per tutto l’anno, è parte della comunità di cura che noi siamo.

Ci trasformiamo tutti in ‘comunità di destino’, se assumiamo la nostra comune condizione di mortali per farne la ragione di ciò che ci unisce, per un tempo anche lungo della nostra vita, in cui ognuno di noi avvertirà la presenza dell’altro nella propria coscienza e si sentirà modificato da quella presenza.

Eugenio Borgna, riferendosi alla sua esperienza terapeutica, si esprime così:

La comunità di destino non si forma se non nella misura in cui si entra in sintonia con la frequenza d’onda del cuore di chi sta male: un cuore pascaliano, un cuore della intuizione, il mio cuore e il cuore dell’altro, un cuore che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri, un cuore che riapre, e incrina, la solitudine creata dal dolore. Un cuore sensibile a un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, o ad una lacrima che cambia la nostra anima. […]
Solo costruendo inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino, ci è possibile avanzare nella conoscenza dell’anima, dell’anima che grida nel silenzio, e creare associazioni, e legami invisibili, fra il mio cuore e il cuore dell’altro: di chi è lacerato dal dolore, e dall’agonia della speranza.
Ma non nasce comunità di destino se, nel cuore di chi ne partecipa, non ci sia la presaga intuizione delle grandi speranze che ci sono nel cuore degli uomini.
Ci sono infiniti modi di creare comunità di destino ma anche infiniti modi di inaridirle, e di spegnerle, se non c’è in noi la agostiniana passione dell’interiorità: come, e non solo in psichiatria, avveniva, e crudelmente continua ad avvenire.
Ma ogni comunità è sospesa fra abisso e destino, fra salvezza e pericolo, fra speranza e disperazione, fra comunione e solitudine, ed è immensamente fragile: esposta ai venti dell’indifferenza e della noncuranza, dell’impazienza e della leopardiana follia della ragione.
Ogni comunità di cura è alla ricerca del destino che le dia una dimensione ancora più profonda, ancora più aperta alle intermittenze del cuore, e che conduca le anime ferite dal dolore alla soglia dell’attesa e della speranza.

In ogni comunità di cura, ma ancora di più in ogni comunità di destino, rinascono improvvisi orizzonti conoscitivi che, immersi nelle ragioni profonde del cuore, ci avvicinano alla ricerca di senso nel dolore e nella malattia: nella follia.
Ma ogni comunità di destino è influenzata, e ferita, da dolori, cadute, silenzi, speranze infrante, tristezze, delusioni, e si incrina allora il legame invisibile e indicibile che le sta a fondamento.
Certo, una comunità di destino nasce dall’incontro di due soggettività, di due interiorità, di comuni storie personali, che si intrecciano l’una all’altra: senza confondersi.

Il destino originario dell’essere umano è quello di vivere insieme agli altri. Noi siamo gettati nel mondo, e solo se nasce un’alleanza, una comunicazione, uno scambio di esperienze, fra noi e gli altri da noi, riscopriamo quello che noi siamo, e quello che sono gli altri, nella nostra e nella loro dimensione interiore. Questo mettere le cose in comune ci trasforma. Certo, se non insistiamo nel lavoro che, ogni giorno, dovremmo fare su noi stessi, mettendo in discussione ogni nostra pretesa certezza, nulla conosceremmo non solo di noi, ma nemmeno degli altri: nulla di ciò che ci distingue, e nulla di ciò che ci accomuna.
Non si entra in una comunità di destino, o almeno non si accoglie un altro in una comunità di destino, se non si ha pazienza, se non si ha desiderio, se non si ha speranza, e se non si ha la forza di sfuggire al richiamo istantaneo dei nostri sensi, dei nostri occhi, della nostra volontà”.

Si tratta di verificare ora fino a che punto sia possibile ‘utilizzare’ la nozione di comunità di destino nel lavoro educativo. L’analogia che io tendo a istituire tra un lavoro e l’altro può essere rintracciata nell’espressione ‘accanto al dolore’, che apparenta, in una certa misura, il nostro lavoro a quello psichiatrico di Borgna.

Leggere anche UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (0): Sempre in ascolto

 

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Comunità di destino

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Sabato 3 novembre 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (436): Una comunità di destino

Giorno d’autunno

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi le ombre sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.

Fa che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.

Chi non ha casa adesso non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.

Rainer Maria Rilke, Il libro delle immagini 

Dall’ultimo capitolo dell’opera: La comunità di destino, pp.195-200

«Il goethiano filo rosso, che visibile e invisibile scorre lungo queste pagine, è quello della comunità di destino: una immagine, una metafora, che vorrei ora dilatare nei suoi possibili significati. Nel cominciare a lavorare, giungendo dalla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano nell’Ospedale psichiatrico di Novara, nei suoi reparti femminili, mi sono incontrato con pazienti, giovani e anziane, nelle quali si nascondevano segrete inclinazioni ad essere ascoltate, e a chiedere aiuto, nel silenzio delle parole divorate dal dolore. Nel dolore lampeggiava un’aurora muta di speranza, che si è aperta alla speranza solo quando si è delineata una comunità inespressa di volti, e di destini, che ha creato fragili ponti fra chi curava e chi era curata; facendo di monadi dalle porte chiuse monadi dalle porte spalancate: di mondi chiusi nel dolore, e negati alla speranza, mondi dai quali sgorgava la stella filante della speranza. […]

[…] La comunità di destino non si forma se non nella misura in cui si entra in sintonia con la frequenza d’onda del cuore di chi sta male: un cuore pascaliano, un cuore della intuizione, il mio cuore e il cuore dell’altro, un cuore che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri, un cuore che riapre, e incrina, la solitudine creata dal dolore. Un cuore sensibile a un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, o ad una lacrima che cambia la nostra anima. […]
Solo costruendo inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino, ci è possibile avanzare nella conoscenza dell’anima, dell’anima che grida nel silenzio, e creare associazioni, e legami invisibili, fra il mio cuore e il cuore dell’altro: di chi è lacerato dal dolore, e dall’agonia della speranza.
Ma non nasce comunità di destino se, nel cuore di chi ne partecipa, non ci sia la presaga intuizione delle grandi speranze che ci sono nel cuore degli uomini.
Ci sono infiniti modi di creare comunità di destino ma anche infiniti modi di inaridirle, e di spegnerle, se non c’è in noi la agostiniana passione dell’interiorità: come, e non solo in psichiatria, avveniva, e crudelmente continua ad avvenire.
Ma ogni comunità è sospesa fra abisso e destino, fra salvezza e pericolo, fra speranza e disperazione, fra comunione e solitudine, ed è immensamente fragile: esposta ai venti dell’indifferenza e della noncuranza, dell’impazienza e della leopardiana follia della ragione.
Ogni comunità di cura è alla ricerca del destino che le dia una dimensione ancora più profonda, ancora più aperta alle intermittenze del cuore, e che conduca le anime ferite dal dolore alla soglia dell’attesa e della speranza.

In ogni comunità di cura, ma ancora di più in ogni comunità di destino, rinascono improvvisi orizzonti conoscitivi che, immersi nelle ragioni profonde del cuore, ci avvicinano alla ricerca di senso nel dolore e nella malattia: nella follia.
Ma ogni comunità di destino è influenzata, e ferita, da dolori, cadute, silenzi, speranze infrante, tristezze, delusioni, e si incrina allora il legame invisibile e indicibile che le sta a fondamento.
Certo, una comunità di destino nasce dall’incontro di due soggettività, di due interiorità, di comuni storie personali, che si intrecciano l’una all’altra: senza confondersi.

Il destino originario dell’essere umano è quello di vivere insieme agli altri. Noi siamo gettati nel mondo, e solo se nasce un’alleanza, una comunicazione, uno scambio di esperienze, fra noi e gli altri da noi, riscopriamo quello che noi siamo, e quello che sono gli altri, nella nostra e nella loro dimensione interiore. Questo mettere le cose in comune ci trasforma. Certo, se non insistiamo nel lavoro che, ogni giorno, dovremmo fare su noi stessi, mettendo in discussione ogni nostra pretesa certezza, nulla conosceremmo non solo di noi, ma nemmeno degli altri: nulla di ciò che ci distingue, e nulla di ciò che ci accomuna.
Non si entra in una comunità di destino, o almeno non si accoglie un altro in una comunità di destino, se non si ha pazienza, se non si ha desiderio, se non si ha speranza, e se non si ha la forza di sfuggire al richiamo istantaneo dei nostri sensi, dei nostri occhi, della nostra volontà.
[…]”. 

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