Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (326): Credere alla parola dell’altro è la prima mossa della ragione

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Credere alla parola dell'altro è il primo gesto
Intervista di Francisco Mele a Paul Ricoeur

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6 gennaio 2012

Nella lunga esperienza di Educatore impegnato nei colloqui di motivazione, all'interno del Centro di ascolto, c'è una 'premessa teorica', da me posta alla base del lavoro di ascolto, che non ho mai dichiarato: mi dispongo all'ascolto della persona che per la prima volta accede alla sede prestando fede a tutto ciò che mi dirà. 
Non si tratta certo di una scelta ingenua: non penso che tutto ciò che viene detto sia vero senza ombra di dubbio. Non mi guida la convinzione che chi parla non mente mai! Anzi, nel caso del tossicomane ci è stato insegnato dai Fondatori di Comunità che essi «mentono sempre, anche quando dicono la verità»!, a significare che quello che sembra vero oggi probabilmente non sarà più vero domani per loro. Sono instabili nei loro propositi.
Eppure, c'è nel loro atteggiamento generale nei confronti di chi li accoglie una 'disponibilità' e un'apertura di cui bisogna 'approfittare': chi varca la soglia di un Servizio pubblico o privato ha un proprio sistema di attese che è importante conoscere e su cui fare leva. Entrare per la prima volta in un SER.T. o in un Centro di ascolto per tossicodipendenti equivale ad ammettere di essere invischiati in una situazione diventata insostenibile per la persona. 
A dispetto del 'sistema delle resistenze' che pure viene messo in opera al primo accenno al cambiamento, io non avanzo mai in direzione della proposta di cambiamento. Addirittura, non parlo mai di un'offerta di aiuto o delle 'ragioni' di chi accoglie il nuovo venuto.

Piuttosto, mostro interesse per la persona, per la sua salute fisica, per il suo benessere morale. Mi domando perché sia venuta da me. Mi muovo nello spazio ristretto in cui solitamente ci si muove quando qualcuno viene a trovarci e non sappiamo ancora bene cosa abbia da dirci. Siamo un po' eccitati e curiosi. Chiediamo come abbia avuto notizia di noi. Solo dopo, invito la persona a parlare di sé.
E' questo il momento in cui l'altro non può fare a meno di aprirsi: è stato toccato in una zona sensibile, in un momento in cui non era avvertito e vigile; non ha compreso quello che è già accaduto, ché è stato interpellato con nonchalance a fare la cosa a cui si resiste di più, cioè raccontare la propria vita.
Il varco cercato si mostra 'finalmente' a noi: siamo nell'Aperto, nello 'spazio' dell'esperienza dell'altro, nell'invisibile della sua esperienza, in cui ci immette lui stesso, come se quello che ci mostra fosse impersonale esteriorità! Le sue emozioni gli dicono che non è così, ma si sforzerà comunque di narrare fatti, convinto che non passeranno contestualmente altre informazioni, schegge di vissuto, spie di quell'Inconfessabile che ognuno di noi custodisce gelosamente, mettendolo al riparo dagli sguardi indiscreti.
Mostrare interesse senza sottolineare l'importanza del dono ricevuto è un modo per favorire il 'flusso di coscienza', che sarà doveroso non interrompere con giudizi – mai giudizi! – o con la manifestazione di emozioni che potrebbero contrastare con quelle di chi si sta aprendo a noi.

La consapevolezza del fatto che questo accade, che accade sempre, se solo si tratti come persona chi entra nella nostra casa, è ciò che mi fa dire quanto sia importante prestare fede alle parole dell'altro. Solo così potremo sceverare tra ciò che è caduco e ciò che ha un 'fondamento' di verità nella realtà dell'altro, nella sua condizione oggettiva, nella situazione che contraddistingue la sua esistenza, non importa se si tratti di un'esistenza spezzata, come preferisco dire io della condizione tossicomanica.

Chi è stato accolto e 'ascoltato' tornerà, se avremo chiuso il colloquio lasciando qualcosa in sospeso, ogni volta una questione aperta, che lascerà l'altro in uno stato di sospensione punteggiato da un'ansia per cui dovrà cercare una risposta nel tempo. Senza pretendere mai che il tempo di un colloquio serva a 'chiudere' alcunché si contribuisce a generare l'attesa di un 'seguito' del 'racconto'. L'offerta più grande non è da ricercare solo nell'orientamento verso programmi esterni: già l'accoglienza nel Centro di ascolto serve a far saggiare il valore della costruzione di una relazione umana che va a soddisfare bisogni di riconoscimento inespressi. La sensazione viva di 'essere sempre in cammino' indurrà l'altro a non spezzare il filo che incomincia a legarlo a noi.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (325): Il non detto che ci accompagna e ci sfugge

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La risposta che ci aspettiamo ad ogni nostra domanda diretta è (quasi) sempre al di sotto delle richieste pure insistenti e ripetute in cui ci avviluppiamo per ‘sapere’. 
Kafka ha sentenziato con uno dei suoi aforismi più forti: «Prima non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potevo credere di poter chiedere. Ma non credevo affatto, chiedevo soltanto.» E potrebbe andar bene questo argomentare, se ci sta a cuore un più profondo sentire a cui ricorrere e da ‘mettere in campo’, soprattutto nelle relazioni sentimentali.
Nella comunicazione ‘faccia a faccia’, tuttavia, quando non siano in gioco questioni vitali o bisogni di riconoscimento radicali, vorremmo che una compiuta espressione di sé prevalesse su ogni altra ‘tecnica’ comunicativa o artificio retorico.
Eppure, niente di tutto questo interviene ad impedire una manifestazione chiara di sé non solo all’altro ma anche a noi stessi.
C’è un non detto che contraddistinguerà sempre le nostre emozioni, la nostra sessualità, alcune condotte particolari, come quella tossicomanica: non impliciti o presupposti, né ineffabili e inconfessabili moti dell’anima restano ‘chiusi’ nei meandri della psiche, ma un grumo di affezioni che non troveranno mai le parole per esprimersi. E’ così per l’orgasmo sessuale, ad esempio, per lo ‘sballo’ prodotto dalle droghe, ma nondimeno per le nostre più ‘semplici’ emozioni a cui non riusciamo proprio a dare un nome.
Si tratta di una vera e propria zona d’ombra dell’esperienza, che non arriva mai a farsi paradosso – se così fosse, troveremmo subito modo di verbalizzarlo – né ‘spirito di litote’, come ha chiamato Jankélévitch l’atteggiamento di chi si ritrae davanti all’emozione.

Lo spirito di litote è quello dell’uomo non più segreto ma discreto il quale, reprimendo in se stesso la furia espressiva dell’Appassionato e del Disperato, si ritrae costantemente davanti all’emozione. La litote è una figura retorica: il dizionario ci insegna che è una formulazione attenuata, ottenuta mediante la negazione del contrario, come quando alla domanda «come stai?» rispondiamo «Non male, grazie». Per Jankélévitch, il pudore sta in questa attenuazione, in questo «meno» che si contrappone alla cifra della nostra cultura, il «troppo»: troppe parole per dire una cosa, troppa filosofia per esprimere un pensiero.

Non è sottaciuto né ‘rifiutato’ il contenuto che non si fa mai parola. Non è enigma né mistero: anche per essi troviamo sempre la via che conduce a una qualche espressione della realtà ‘nascosta’ allo sguardo.
Riusciamo forse a dare un nome alla nostra sessualità? ad esprimere compiutamente quel vissuto esperienziale che pure è vivo e concreto in noi? Quando dobbiamo difendere una nostra inclinazione anche innocente, ci riusciamo?
Procediamo sempre per approssimazioni, per metafore, descrivendo una situazione o uno stato d’animo e di corpo, con la sensazione netta di non aver detto tutto. Forse, proprio l’essenziale resta, appunto, non detto.
E’ opinione diffusa ormai che la sessualità non è più un tabù. Come se sapessimo tutto! In realtà, è cosa di cui non abbiamo più paura come un tempo o sulla quale non pesano più distruttive censure etico-sociali. Quello che di essa conserva, in realtà, per noi un fascino e un incanto è il piacere – non il mero godimento -, che ci appartiene in modo particolare ed esclusivo. Non siamo disposti a credere che si tratti di ‘meccanismi’ biologici uguali per tutti. Interviene il ‘corpo vivente linguistico’ a ‘vivere’ un’esperienza unica, anche se ripetuta infinite volte in modo quasi uguale. L’istanza del desiderio vuole la sua parte. E il desiderio ‘prende forma’ attraverso gesti, sguardi, suoni della voce che precedono la parola vera e propria.

Una parte importante di noi è lì, nella zona d’ombra sulla quale non cade mai la luce o che la luce illumina di una luce troppo intensa perché ne emerga il disegno di una figura utile per noi, che ci aiuti a dire compiutamente perché siamo qui e ora e non in un intemporale e un immemoriale nunc che sfugge al nostro sguardo.

Sapere che i silenzi dell’altro – quello che è in noi come quello che è fuori di noi – sono fatti di una pasta che non ci ‘appartiene’, anche se proviene da noi, può aiutarci a vivere meno drammaticamente gli istanti eterni che pure ci sono concessi e che siamo condannati a veder passare inesorabilmente come tutte le cose belle che riceviamo in dono.

[Leggere CLAUDE OLIEVENSTEIN, Il non detto delle emozioni, FELTRINELLI]

 


CLAUDE OLIEVENSTEIN, Tossicodipendenza e angoscia di morte – L’Indice 1993, n.8

“Tu non toccherai il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male…” Adamo ed Eva furono così cacciati dal paradiso. La prima droga era nata e, con essa, la nudità e la consapevolezza da parte dell’uomo di essere mortale.
Tutte le tossicomanie si rispecchiano in questa parabola della Genesi. Non si parla forse di paradisi artificiali? La nudità rimanda al sesso così come la conoscenza del Bene e del Male. Soprattutto però l’uomo, cacciato dal paradiso a causa, o grazie, alla droga, si scopre mortale, e qui si colloca la frattura tra la parola e la realtà: Dio aveva promesso di punire Adamo ed Eva con la morte immediata. Ma l’esito fu l’apprendimento, nel dolore e nel sangue, di quell’intervallo che si potrebbe definire vi-ta, tra l’opzione assoluta della morte e la morte stessa.
Ciò che il bambino non sa e che scopre a poco a poco quando, cacciato dal paradiso uterino, viene costretto a nutrirsi al seno, è la percezione di questa frattura tra il bisogno e la soddisfazione. Basta ascoltare il pianto di un neonato per capire che la questione è seria e che, al di là della fame, si sta confrontando con ben altra cosa. Si può dire che quest’altra cosa, ancora oggi così misteriosa ai nostri occhi, è la paura di morire, la fine del paradiso nella morte e che forse, un giorno non sarà più possibile ritrovare né la mela né il seno.
Il futuro tossicomane è l’esito di un rapporto complesso in cui giocano l’intensità, la velocità e l’atmosfera; egli giungerà a temere di non poter più essere riempito e sempre reclamerà la sua mela, qualunque essa sia.
Questo vissuto della mancanza-ripetizione e della ripetizione della mancanza, che è proprio del tossicomane, è in sé banale ma, per ragioni che qui cercheremo di chiarire, acquisisce una valenza diversa a seconda dell’intensità, della velocità e dell’atmosfera in cui si svolgono quei piccoli drammi che si fanno enormi a misura delle carenze identificatorie e dell’immaginario.
Precoci carenze d’identificazione e dell’immaginario nascono in quello che abbiamo chiamato lo ‘stadio dello specchio infranto’. Vale la pena ricordare che per noi il futuro tossicomane si colloca tra lo psicotico, che rimane ad uno stadio fusionale e mai raggiungerà lo stadio dello specchio, e i nevrotici, o normali, che realizzeranno lo stadio dello specchio, nel quale si ritroveranno “io”, soggetto. In questa posizione intermedia il futuro tossicomane smarrisce la sua identità nell’attimo in cui la percepisce. Questo choc, reale o simbolico, è unico per natura e intensità. Perdendo un’identità che non ha mai avuto, ma che ha intravisto, egli si avvicina vertiginosamente e a velocità immensa alla morte. È “mezzo morto”. È e non è, come chi sta aggrappato al bordo di un baratro. È una posizione letteralmente insostenibile e, infatti, non sarà possibile mantenerla. Tutta la sua vita sarà tesa all’annullamento di questa mancanza originaria attraverso una ricerca spasmodica di supporti i-dentificatori che si riveleranno, uno dopo l’altro, frustranti.
Diversamente da tutti gli altri, egli è il solo uomo che dall’inizio era riuscito a scorgere la distruzione dell’identità, ciò che c’è di più prossimo alla morte. Si capirà evidentemente più tardi che è della mancanza della mancanza che il futuro tossicomane avrà paura, anche quando l’oggetto droga non gli darà più piacere, perché quando non è più nella mancanza oggettivata rischia di ritrovarsi in questa incredibile frattura. Poiché il bambino non è solo, quest’angoscia si trasforma in un’immensa richiesta dai genitori. Essi non comprendono o non sopportano una simile e smisurata richiesta e la rifiuteranno con un bacio anodino. Il bambino a sua volta reagirà a queste frustrazioni, tanto più insopporta-bili in quanto incomprensibili, con una spirale ascendente. Questa incomprensione, questi riferimenti impossibili, rimandano alla nozione di un debito originario che andrà a sommarsi al dramma già vissuto, rinviando il soggetto ad un’assenza mortifera.
Se riprendiamo ciò che abbiamo scritto altrove sull’infanzia del tossicomane, a partire da questo stadio iniziale, avremo modo di vedere un po’ più chiaramente il rapporto accelerato con l’angoscia di morte, rapporto la cui intensità è così importante che, attivato dal suo continuo lavorio rivolto alla riscoperta dell’identità, fa sì che il bambino non possa giungere a un immaginario positivo in grado di confermare, almeno in parte, la vacuità dell’esserci.
Nella sua infanzia, dopo lo stadio dello specchio infranto, il bambino vivrà quello della dismisura. La dismisura comincia come diniego; essa è indispensabile alla negazione: meno agisce e più il bambino si troverà in una spirale ascendente in cui, con ogni mezzo, andrà alla ricerca della non-morte. E’ il principio della scalata che ritroveremo nel rapporto con l’oggetto-droga. Il vissuto del bambino è, linguisticamente, banale; banale anche in termini di causalità. Si tratta di un fenomeno riscon-trabile in molti bambini e adolescenti ad alto rischio, ma ciò che è analogamente banale in termini di causalità è, ripetiamolo, l’intensità, la cinetica, l’atmosfera.
Il bambino è costretto in una coazione ludica. Vi è costretto perché per evitare il caos arcaico, deve allucinare il reale. Ricordiamo che il reale è il reale, non il vero. Il bambino, futuro tossicomane, lo sa in quanto lo vive. Egli vive la negazione di sé che si è autoattribuito. Allucinare il reale nella coazione ludica gli consente di differire il confronto con l’esperire, confronto che emerge nelle angosce notturne, abbozzo di ciò che vivrà in età adulta: le insonnie. Le angosce notturne sono un sintomo banale, il loro prolungamento – gli incubi che vive – appartiene allo stadio della dismisura.
Le carenze d’identificazione e immaginarie lasciano spazio alla vittimizzazione del bambino; è questa vittimizzazione che, attraverso il gioco della provocazione-repressione, lo trasforma in capro espiatorio, in ciò che ho definito “l’idiota di famiglia”. Possiamo dire che in questo stadio si colloca il primo tentativo di suicidio: “sto così male; i miei genitori non mi amano o mi amano troppo, in ogni caso non sono nel giusto, non merita di vivere”. La morte è al tempo stesso sollecitata e temuta. In alcuni si verificherà una vera progressione nella relazione fascinante con il suicidio che, più tardi, ritroveremo nel tossicomane. La ripetizione dei tentativi di suicidio è un modo per addomesticare l’angoscia di morte. Dopo il suicidio non è possibile andare oltre, non ci sarà più angoscia di morte.
Nella spirale ascendente verso la tossicomania il soggetto incontra il piacere. Il piacere è importante, essenziale, in quanto permette, nel godimento, di annullare ogni mancanza e pertanto la più importante: quella nata dalla rottura. La masturbazione (che in sé è banale) assume qui tutto il suo valore. Essa è strumento di verifica, fosse anche solo momentanea, di una possibile identità. Si ripete e si prolunga al di là dei rapporti con un/una partner. Il ricordo del godimento provato s’inscrive nella memoria del soggetto in quanto certezza di un futuro possibile, ma è insufficiente per permettere al bambino di affrontare il reale, per quelli che non sono in grado di individuare dei supporti identificatori compensativi. Significherà ricercare il piacere nell’androginia.
L’androginia non è omosessualità; è ricerca, nella bifaccialità, di una completezza che il soggetto non possiede. Che non ritroverà né nei partner del suo sesso né in quelli dell’altro. La mancanza è in lui, una mancanza terribile: è negazione dell’identità, dell’immaginarlo, un vuoto dunque, vertigine profonda che, nella spirale di cui abbiamo parlato, lo trascina irresistibilmente verso la morte.
Questa spirale non è specifica del tossicomane, la si ritrova in altri soggetti ad alto rischio e specialmente nei suicidiari o nei perversi. Questi ultimi troveranno nel passaggio all’atto ripetuto una modalità di esistenza che consente loro di sfuggire all’angoscia di morte, ma la coazione a ripetere del perverso non è feconda. Questa non fertilità non è sufficiente, non agisce per il futuro tossicomane.
E’ l’oggetto droga che, una volta incontrato, diventa operativo e fecondo. C’è una precisa specificità nell’incontro del soggetto con l’oggetto droga che definiremo ‘fatto tossicomanico’ in quanto si tratta di un evento piuttosto che di una personalità o di una struttura specifica. Il fatto tossicomanico si realizza negli effetti del prodotto e nella loro assenza. E’ il rapporto duale a diventare supporto identificatorio, non questa o quell’altra immagine parentale o sociale. Il rapporto duale creato dall’immaginario. E’ fondamentale che questo immaginario della droga sia poco o per nulla culturalizzato e non proceda come discorso strutturato o costruzione fantastica organizzata; è quasi impressionismo, magma parcellizzato sospeso in un’atmosfera unica fatta di calore, ingenuità e arcaismo.
All’inizio questo incontro è soddisfacente a due livelli, quello del piacere e quello dell’identità ricostruita. E’ evidente che quanto sto dicendo rappresenta una condizione idilliaca ed esterna, ma ogni tossicomane, in base alla profondità del trauma originario, vive questa fase che si definisce ‘luna di miele’, capace di allontanare/annullare l’angoscia di morte.
Ma non è cosi per sempre: la sostanza svolge il suo ruolo in modo sempre meno soddisfacente e lo statuto ontologico del soggetto rimane immodificato; il fatto tossicomanico, per essere operativo, ha bisogno di modificarsi. Si entra nel ciclo della dipendenza e della mancanza. Diversamente dall’animale, la mancanza e la dipendenza dell’uomo sono fenomeni psichici attivi ricercati dal soggetto in quanto organizzazione spazio-temporale che gli consente di non ritrovarsi in una condizione di mancanza della mancanza.
In effetti, ciò che è insopportabile, malgrado questa esperienza inconfessabile, sarà il ritrovarsi del soggetto al punto di partenza. Il tempo vissuto diventerà tanto più insopportabile quanto più nella sua peripezia egli sarà arrivato in prossimità dell’estasi e di una certa immortalità. Nella mancanza della mancanza egli non è altro che il bambino il cui specchio si frantuma, non può essere che sofferenza e angoscia di morte. Egli organizza allora la sua esistenza per evitare tutto questo e dunque utilizza la mancanza del prodotto come un’arma che gli consente di conoscere i limiti di un tempo vissuto in modo tossicomanico. Tutto ciò è motivo di dolore che, però, in questo stadio di verifica, gli consente di vivere.
Tuttavia il prezzo da pagare diventa troppo alto. Per ragioni sociali, libidinali, familiari il tossicomane cercherà di fermarsi. Entrerà in una nuova fase che potremmo definire la sofferenza del soggetto disintossicato.
In questo stadio il soggetto vive una morte differita. Non può più utilizzare il costante bisogno di ripetizione, né la reiterazione del bisogno di cui conosce gli esiti. Il tempo vissuto si dilata incredibilmente, l’umore diventa depresso, melanconico. Ed è la notte che si fa interminabile in una smisuratezza assoluta. Se non utilizza altri ammortizzatori chimici o istituzionali il soggetto è confrontato continuamente con la morte. Certo, l’angoscia di morte può essere manipolata e rovesciata in un “A che serve vivere? A cosa serve tutto questo? Soffro troppo per sopportarlo”. In realtà ciò che si disvela è l’impossibilità di essere, subito e ora. Il terzo rapporto duale si stabilisce tra l’uomo e la sofferenza. Una coppia che è parte intrinseca al fatto tossicomanico. Non è il prodotto o, meglio, è solo parzialmente il prodotto di uno di questi fattori di rischio che costellano la sua infanzia e la sua adolescenza. È l’ultimo anello di una catena che unisce la frattura iniziale a quella finale, grazie al prodotto e per mezzo di esso.
In quest’ultima fase il soggetto ha tre possibili opzioni: la ricaduta nel tentativo di non ritrovarsi nella mancanza della mancanza, il compro-messo ortopedico che lo costringe ad accettare, anche se menomato, il reale come compagno oppure la morte.
Non lo si ripeterà mai abbastanza: è il tossicomane guarito che si suicida. Egli si trova di fatto a dover gestire questa difficile contraddizione della morte che si è sostituita a quel buon oggetto transizionale che è la droga (la morte diventa così oggetto buono), e l’angoscia di morte, che paradossalmente è sorgente di vita, prova che malgrado tutto lui ha un’identità, che ha qualcosa da proteggere, sicuramente molto fragile, compensazione precaria data da un immaginario positivo arcaico ma che gli consente di esistere così come la mancanza glielo ha permesso.
Il problema che si pone al terapeuta è quello di trasformare la morte-oggetto buono in morte-oggetto cattivo. Tutto però gli è contrario: la stessa storia familiare, dove non è raro che il bambino sostituisca un fratello morto, o sia nato indesiderato, o che il suo sesso non sia stato quello desiderato; più tardi l’insuccesso o l’inadattamento scolastico e, ancora, una sessualità che gli lascia il gusto amaro di qualcosa che può essere raggiunto ma che non è mai; infine l’incontro con la droga in cui ha potuto essere vicinissimo all’immortalità, folgorazione effimera che gli sfugge in una spirale discendente in cui il piacere cede il posto alla mancanza e la mancanza stessa si rivela inadeguata. È quando la dipendenza non è più per il soggetto una modalità di essere al mondo che lo proteggeva dalle sue angosce più profonde che si apre la breccia per l’angoscia di morte. Essa può definirsi angoscia di essere al mondo con l’apertura originaria ma all’oscuro del prezzo da pagare per un tale debito.
Non esiste angoscia di morte senza un profondo senso di colpa. Nel tossicomane questo senso di colpa è al tempo stesso arcaico, come in tutti gli esseri umani, e attuale, in quanto il tossicomane ha visto dileguarsi tutti i modelli identificatori che aveva ricercato. Dobbiamo ricordare che per farsi aveva violato la legge nelle sue dimensioni reali, simboliche e immaginarie e che pertanto, come Adamo ed Eva, era stato cacciato dal paradiso.
Nel quadro molto peculiare della cinetica dei fenomeni psichici che il tossicomane vive e interiorizza, si verifica dunque una successione accelerata di investimenti identificatori e immaginari, e quindi la delusione di fronte alla loro insufficienza, che riporta tutto al punto di partenza. 
Il problema è che nella logica della dismisura ogni disinvestimento si connota come catastrofe; diventa enorme e vertiginoso, da un lato è il tutto, subito e ora, dall’altro è il nulla e la morte, subito e ora. Non esistono compromessi o mezze misure in quanto tutti i riferimenti che hanno potuto agire in questo o quel momento sono impossibili. Al posto dello specchio infranto ora c’è l’immagine della morte, quella che precede tutto il percepito nel momento dell’incrinatura e quella che chiama quando niente è più possibile. L’uomo qualunque si rassicura dicendo che gli restano venti, trenta o cinque anni da vivere. Al tossicomane non è consentito neppure guardare ai suoi limiti, avendo voluto tutto, subito e ora. Certo quest’angoscia di morte è comune ad altri (e anche, a volte, le protezioni spirituali che si utilizzano), ma in lui essa si materializza in un’immediatezza totalizzante che tutto invade fino al raptus suicida.
Il più delle volte l’overdose non è che l’espressione di questa immediatezza dove tutto è giocato nell’attimo: morire per non ritrovare nulla, vi-vere per scoprire che si esiste.
Così l’angoscia di morte, come tutto ciò che riguarda il tossicomane, è insieme ordinaria e smisurata. Essa è costante e iperinvestita, nell’attimo sembra disprezzata e accantonata dagli aspetti positivi della droga, ma alla fine è lei ad essere vittoriosa, alla distanza e ad ogni caduta del-la sostanza. Al di là del concetto di piacere che il soggetto ha memorizzato, l’oggetto droga ha una funzione anestetica. Quando cessa, ciclicamente o definitivamente, l’effetto narcotico, il tossicomane si ritrova nudo di fronte a ciò che Bataille definisce l”esperienza interiore’ nella quale tutto è nudo e miserabile e l’uomo è ridotto a insetto senza alcun potere sul proprio destino e ciò tanto più crudelmente in quanto egli ha potuto credersi Dio nell’attimo estremo dell’esperienza della droga.
Paradossalmente, più di ogni altro essere al mondo, il tossicomane annulla il tempo vissuto per non morire, ma poiché tutto ciò è artificio, ancora una volta, al di là del piacere, il tossicomane, più di qualunque altro essere al mondo, è sovrainvestito dall’angoscia di morte.
Nel momento in cui si penetra il tossicomane annulla il tutto e nello stesso tempo rende mostruoso il ritorno di questo tutto. La droga permette ogni cosa salvo che di non morire. La trasgressione che il tossicomane si concede si colloca in un tempo che sembra infinitesimale, ma che per lui è enorme. In quel momento la pulsione di morte sembra annullarsi, ma è lì lo scacco del tossicomane in quanto si introducono la mancanza, la mancanza della mancanza e, dunque, la nudità che altro non è se non la morte. Forse Pasolini lo aveva capito, lui che aveva accettato l’inaccettabile, ma guai a chi troppo sfida Eros e Thanatos. Nella sterilità della siringa questa sfida si annulla, con la punizione e nella punizione, perché il soggetto disintossicato, come all’inferno, soffre fino alla fine dei suoi giorni.
Dirlo può apparire scandaloso, ma il tossicomane guarito è un uomo in attesa, in attesa di se stesso, attesa banale, ma attesa la cui intensità e la cui disperazione sono così intense che parlare dell’indicibile piacere dell’angoscia non è più possibile. Questo piacere esiste. E’ temuto e desiderato al tempo stesso perché, come abbiamo detto, si esiste nell’angoscia e attraverso essa, anche se si tratta di uno spazio chiuso, quasi mai nominato, in cui il soggetto è solo con se stesso e che può essere dischiuso solo con il passaggio all’atto.
C’è un piacere, un piacere-angoscia, nel suicidio, nell’aumentare la dose che porta alla morte volontaria, nel misurare la quantità di paura che si esercita sugli altri, l’altro che teme e desidera questo suicidio. Possiamo essere così pessimisti. Così come c’è una spirale ascendente nell’evento tossicomanico è possibile sviluppare una spirale discendente. E’ quando il tossicomane pensa di poter accettare di essere mortale e dunque di non avere tutto, subito e ora, che lentamente potrà, con l’aiuto dei suoi terapeuti e di differenti supporti identificatori, cambiare, essere capace di contenere l’angoscia.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (324): Menzogna, veridicità, sincerità, autenticità; la dissimulazione onesta

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Un buon inizio potrebbe essere l’affermazione contenuta in apertura del Trattato di semiotica generale (1975) di Umberto Eco: «Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può nemmeno essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla. La definizione di ‘teoria della menzogna’ potrebbe rappresentare un programma soddisfacente per una semiotica generale» (pag.17).
E’ solo così che restituiamo dignità alle bugie dette a fin di bene, ai silenzi studiati, alle virtuose omissioni, alla letteratura come menzogna. C’è bisogno di riabilitare tutto ciò che non appare immediatamente come ‘verità’. D’altra parte, farsi guidare da un’etica della verità è rischioso, se quest’ultima non è sempre correttamente ricondotta alla realtà e al suo multiforme e cangiante apparire.
C’è una leggerezza e una pesantezza della ‘lingua’. Se è vero che «le parole non sono pietre», e per questo non presteremo fede ad esse come se fossero sempre specchio di verità, non potremo nondimeno negare che una ‘voce’ maliziosa fatta circolare ad arte su di noi contribuirà a diffondere una diversa immagine di noi, danneggiandoci presso le persone che crederanno alle parole.
Dire dell’uomo che è animal symbolicum (Cassirer), cioè produttore di linguaggi, significa anche fare i conti quotidianamente con ‘produzioni’ linguistiche – testi (scritti) e discorsi (orali) – che richiedono ‘traduzione’ e interpretazione costanti.
Noi non facciamo altro che ‘tradurre’ nel nostro linguaggio tutto ciò di cui facciamo esperienza. Il fatto che si tratti di traduzione ‘simultanea’ rischia di far passare inosservata un’attività fondamentale della mente. Ogni accordo con gli altri è il risultato di contrattazioni vere e proprie sul significato da dare alle cose (e alle stesse parole!).
Ogni considerazione manichea e ingenua del valore delle nostre parole si scontra con la realtà della ‘cosa’. Se «la natura ama nascondersi» (Eraclito), per cui è stato necessario fondare la scienza delle cose stesse con la ‘matematizzazione’ della natura, allo stesso modo occorrerà ‘raggiungere’ la ‘cosa’ – quando si tratti di persone -, tenendo conto sempre del suo modo di darsi: mentre, infatti, la cosa si dà, si mostra a noi, nello stesso tempo si ritrae, si nasconde. Uno sguardo attento all’evidenza delle cose, alla loro apparenza, non trascurerà di seguire la traccia che ci conduce dall’apparenza all’essenza, dal visibile all’invisibile…
Allora, ‘parole’, gesti, sguardi, espressioni del volto e della voce costituiranno per noi la galassia dei segni da cui partire per raggiungere il cuore della cosa stessa, guidati dalla speranza che quello che ‘toccheremo’ sia una ‘verità’ e non ancora soltanto una manifestazione occasionale e poco autentica della realtà dell’altro…

ANDREA TAGLIAPIETRA, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, BRUNO MONDADORI 2001 – [dalla quarta di copertina]: La menzogna si confronta, per definizione, con il concetto di verità e con quello di libertà, con i campi del sapere e con quelli del potere. Tuttavia, il problema della bugia non è riducibile alle questioni della moralità, a un valore regolativo della politica o alle complesse casistiche del diritto. Il paradosso della menzogna consiste nella sua implicita domanda di verità e, insieme, nella sua capacità di farci tornare, ogni volta, all’imbarazzante dualità dell’inizio, a quel dialogo originario che precede ogni monologo. Ma la filosofia della bugia e la storia della sincerità, che qui appaiono intimamente intrecciate, non ci raccontano solo di quella menzogna che riguarda il mondo delle cose, ma anche e soprattutto di quella bugia che ha per oggetto noi stessi, nelle forme della doppiezza, del mascheramento e dell’autoinganno. Allora, che senso ha essere sinceri? Che cosa significa essere veraci? Che differenza c’è fra il bugiardo e l’impostore, fra il falsario e il plagiario?

INDICE
Introduzione. Quella meravigliosa capacità di opporsi
1. Il bugiardo e il cacciatore. Per una preistoria della menzogna
2. Il palazzo di Circe. Immedesimazione e animalità
3. Prometeo della caverna. Tecnica, metafora e bugia
4. L’uomo odisseico e l’antropologia omerica della menzogna
5. A Ulisse piace mentire: La bugia come forma del “voler avere di più”
6. In principio fu la menzogna. La bugia nella Bibbia
7. Il filosofo e la bugia. Veridicità e volontà di mentire nel pensiero antico
8. Amicizia e verità. Mentire all’altro nella filosofia greca e romana
9. Fra peccato e confessione. La menzogna nel Medioevo
10. La dissimulazione del soggetto. Scenari della bugia nell’età moderna
11. Sincerità e autenticità. La verità dell’individuo
12. Il bugiardo e gli assasini. Storia di un eccezione
Il canone della bugia

ANDREA TAGLIAPIETRA, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, EINAUDI 2003 – [dalla quarta di copertina]: «Ti dirò tutta la verità, senza nasconderti nulla» è, spesso, nell’infinito gioco delle conversazioni umane, la frase che introduce i discorsi più crudeli. Ma anche l’esortazione incalzante a «dire la verità», che l’inquisitore ingiunge all’inquisito, sembra affondare, affilata come la lama di un bisturi, nel corpo dell’interrogato, per mettere a nudo tutto ciò che vi si nasconde. La sincerità, nella storia della nostra cultura, dalla filosofia al teatro, dalle arti figurative, alla poesia e al romanzo, fino agli infiniti intrecci della quotidianità, è una virtù ambigua, perché la verità, che essa afferma di servire, non sempre pare accordarsi con l’amore, con il bene, con il rispetto per gli altri e con il valore stesso della vita. Ma, inrealtà, che cosa significa essere sinceri? Per un’antica e duratura tradizione di pensiero la sincerità appare come la virtù morale che prescrive il rapporto dell’uomo con la verità nelle parole e nelle azioni. Tuttavia, nella storia delle idee, la sincerità acquista rilievo soprattutto con lo sviluppo moderno della soggettività e con l’accentuazione del ruolo dell’individuo in relazione al mondo e alla società. Essa, allora, è qualcosa di più che una semplice virtù morale. La sincerità è, infatti, il modo di essere dell’individuo, la via sentimentale e sociale con cui egli afferma la sua singolarità, la sua unicità, la sua autenticità.

UMBERTO GALIMBERTI, Se essere sinceri è una virtù crudele, la Repubblica 3 gennaio 2004

UMBERTO GALIMBERTI, Michel Foucault a lezione di greco, la Repubblica 16 febbraio 1996

UMBERTO GALIMBERTI, Elogio della menzogna come gioco dell’intelligenza. Solo chi sa mentire è capace di sopravvivere, la Repubblica 27 maggio 2001

ILVO DIAMANTI, Manuale di conversazione, la Repubblica 14 agosto 2005

TORQUATO ACCETTO, Della dissimulazione onesta, EDIZIONI COSTA & NOLAN 1983, EINAUDI 1997 – [dalla quarta di copertina]: Il tema di questo trattato, pubblicato nel 1641, è il cauto vivere, è la dissimulazione come dominio dei propri sentimenti. Ma l’importanza di questo breve scritto sta tutto nello stile, limpido e quasi laconico, e nella straordinaria acutezza e capacità di penetrazione nel mondo degli affetti e delle passioni, tanto da offrire l’esempio di un vero saggio di psicologia morale.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto Leggere STEFANO BARTEZZAGHI, Imponderabile. Istruzioni per l’uso

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Ecco come difendersi dall’azzardo,
dal caso, dal “non calcolabile”
STEFANO BARTEZZAGHI, Imponderabile. Istruzioni per l’uso,
la Repubblica 31 dicembre 2011

CONTRO I CAPRICCI DEL DESTINO
FATE UN CORSO DI SCACCHI

Lettura riportata sul sito RITIRI FILOSOFICI

 



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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (322): Per amore di precisione

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[…] Antonio [vissuto tra il 251 e il 355 circa, è considerato il fondatore del monachesimo] raccomandava ai suoi discepoli di annotare per iscritto le azioni e i moti della loro anima. E’ probabile che la pratica dell’esame di coscienza scritto esistesse già nella tradizione filosofica. Era utile, se non necessaria, per rendere l’indagine più precisa. Ma in Antonio si tratta, questa volta, in certo qual modo, di un valore terapeutico della scrittura. «Che ciascuno annoti per iscritto le azioni e i moti della sua anima, come se li dovesse fare conoscere agli altri», consiglia Antonio. Infatti – continua – non oseremmo commettere colpe in pubblico, davanti agli altri. «Che la scrittura stia dunque al posto dell’occhio altrui». Il fatto di scrivere dà l’impressione di essere in pubblico, secondo Antonio, di essere sulla scena. Questo valore terapeutico della scrittura sembra comparire parimenti nel testo in cui Doroteo di Gaza riferisce che sentiva «conforto e beneficio» per il semplice fatto di avere scritto al suo direttore spirituale. – PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica (2002), EINAUDI 2005, pag.80

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Raccontare l’assenza

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Mercoledì 4 gennaio 2012

CAMMINARSI DENTRO (321): Raccontare l’assenza

Di tutte le cose che ci diciamo per rimediare a incomprensioni e fraintendimenti, dei tentativi che facciamo per rendere la comunicazione fluida e gratificante, addirittura degli sforzi, a volte ‘disperati’, in cui ci produciamo incessantemente per raggiungere le mete ambite nella relazione amorosa ci sfugge ciò che di più essenziale ci riguarda e merita attenzione: la ‘necessità’ di restituire l’assenza.

E’ quest’ultima che genera la malinconia d’amore, non importa se si tratti di generica privazione, causata dalle quotidiane vicissitudini della vita, o di silenzi imposti dalle circostanze, ovvero di astensione prudente da ogni eccessiva manifestazione di sé: sempre di una mancanza si tratta.
C’è qualcosa che ci manca, che ci fa sentire spaesati, proiettati nell’impermanenza delle cose, come se tutto fosse destinato a durare poco, a precipitare nell’insignificanza. 
Noi stessi ci scopriamo destituiti di senso: non sappiamo più bene se ci ritroviamo ancora ad occupare il posto che ci era stato ‘assegnato’ nel cuore della persona amata. Non siamo (più) sicuri di noi. Sembra quasi che ci sia stata tolta la faccia, o meglio il volto, quell’anima del corpo che dovrebbe bastare sempre a far dire sì a chi ci ama, al nostro semplice apparire o all’ascolto rinnovato della nostra voce.
Quante volte siamo caduti nell’errore di interpretare in modo abnorme fatti che ci sono apparsi poco chiari, sicuramente fonte di ansia: non abbiamo pensato ogni volta che era in questione la stessa sussistenza dell’amore, come se fosse minacciato nei suoi fondamenti?
E’ stato detto autorevolmente che «un’altissima quantità di incontri umani viene distrutta da una scarsa tolleranza agli equivoci».
Provate a pensare, allora, a quegli equivoci che risulta quasi impossibile ‘spiegare’, perché tutto si è svolto fuori della sfera della nostra azione, a volte in seguito al concatenarsi fortuito di eventi che finiscono per farci apparire in una luce nuova, inattesa, a tratti sgradevole agli occhi degli altri!
Non bisogna concludere in quei casi che siamo nelle mani dell’altro, che tutto dipende dalla capacità che dimostrerà di ‘interpretare’ nella maniera a noi più favorevole ciò che pure si presenta con i caratteri inequivocabili della certezza, dell’evidenza? Possiamo escludere che almeno una volta nella vita possiamo ritrovarci ad essere vittime di un equivoco? E se questo ci sembra plausibile, non improbabile, perché non ammettere che possa accadere più di una volta? E se l’altro utilizzerà ‘la prima volta’ come termine di riferimento per ‘concludere’ ad ogni nuovo equivoco che fatti ripetuti stanno lì a dimostrare da soli la nostra ‘colpevolezza’, chi ci salverà dalla caduta in disgrazia, dal rifiuto, dalla chiusura, quando non addirittura dalla rottura definitiva di un rapporto per altri versi felice?

Quanti accorgimenti dovremo adottare perché file di continuità intervengano a diradare presto ogni dubbio, perché tutto si mostra all’altro, essendo trasparente l’intera nostra esistenza?
Solo se riempiremo tutti gli interstizi, generando la piacevole illusione che ‘tutto è sotto controllo’, avremo fornito all’altro la sensazione viva di essere presente nella nostra vita, di ricevere ininterrottamente senso: tutto ciò che ci riguarda deve essere parte della vita della coscienza dell’altro, deve essere accolto, ospitato, diventare agente di cambiamento, oltre che fattore di stabilità. Si potrebbe dire dell’amore, di ogni forma d’amore, che non è altro se non raccontare l’assenza.

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CAMMINARSI DENTRO (320): Messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica

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Il testo integrale del messaggio in formato video e in formato PDF

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CAMMINARSI DENTRO (319): Missione Sora-Uganda 2012

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Parte la seconda missione sanitaria alla volta della cittadina di Luweero, nel nord dell’Uganda, presso l’Ospedale Diocesano “Asili Caesar Bishop”. Ormai il gruppo dei sanitari sorani si è consolidato e con l’aiuto della ONG “Family of Africa” di Kampala e l’aiuto delle locali Associazioni Amici degli scout, A.D.O. (Associazione dipendenti ospedalieri dell’ospedale di Sora) e Slow Food Sora iniziano le attività sul territorio per la preparazione di questa missione in terra ugandese. I progetti sono ambiziosi ma si sta lavorando per la loro riuscita.

Al principale scopo, che resta la formazione e l’educazione sanitaria del personale locale, si sono affiancati due nuovi progetti altrettanto importanti:

a) supporto alla prevenzione e cura della malaria, ancora principale causa di morte per tali popolazioni, attraverso la donazione gratuita di BAD NET (ZANZARIERE MEDICALIZZATE) a tutte le donne gravide che vengono in ospedale per partorire e cessione sempre gratuita di un ciclo di terapia per un attacco di malaria;

b) creazione di un orto nell’interno dell’ospedale, in collaborazione con Slow Food Sora, per garantire uno stabile approvvigionamento di alimenti sani prodotti in loco.

Come potete notare, i progetti sono ambiziosi ma con l’intervento anche minimo di persone disponibili possono essere realizzati.

Il gruppo di contatto sanitario sarà composto da 5 medici: due chirurghi  – il dott. Roberto Abbruzzese e la dott.ssa Antonietta Bellone -; l’anestesista, dott. Augusto Vinciguerra; il cardiologo, Dott. Renato Del Vecchio; il pediatra, dott. Ivo Tanzi, con la collaborazione dell’infermiera Lina Mollicone.

Anche la forma di Raccolta fondi è stata incentrata su un appuntamento enogastronomico consistente in una Cena presso un noto locale sorano, da tenersi nella prima decade di febbaio.

Basterà chiamare, entro il 31 gennaio, uno dei seguenti numeri telefonici per la prenotazione: 389/9922513 o 320/4381556
mail: ruma48@liberi.it e agoscout1@virgilio.it

Saluti carissimi,
Augusto Vinciguerra

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Contributi a una cultura dell’Ascolto Nello scrittore il pensiero non guida il linguaggio dal di fuori […] Le mie parole sorprendono me stesso e mi consegnano al pensiero. – JACQUES DERRIDA

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La portata di questa idea è tutta da indagare:

  • Intanto, quello che vale per gli scrittori vale anche per noi, a proposito di scrittura.

  • Non realizziamo il controllo totale della scrittura, come se fosse attività esclusiva del pensiero.

  • I ‘prodotti’ della scrittura – non del pensiero o del linguaggio – vanno considerati per quello che sono, come espressione di un coacervo di forze e di facoltà che vi sono implicate e che a vario titolo intervengono nel processo della scrittura stessa.

  • Insegnare a scrivere, allora, è possibile, a condizione che la didattica della composizione (il corso di scrittura creativa…) non si riduca all’insegnamento della lingua e delle sue leggi, alla linguistica testuale e alle ‘regole’ di composizione dei diversi tipi di testo… Il mondo della vita di chi scrive non è meno importante di tutti gli attrezzi che pure servono allo scopo.
     
  • Si potrebbe dire che “c’è qualcuno che scrive”, ma chiedere che lo faccia e alle nostre condizioni non è sempre facile: la garanzia di successo non è assicurata.
     
  • Imparare a leggere – come esercizio spirituale -, allora, è una pratica da apprendere, un ‘vivere con’ (R.Barthes) chi scrive, al di là della mera testualità.
     
  • Se tutti potessimo attingere alla sorgente da cui ‘proveniamo’ senza fatica, riusciremmo forse a dire ogni cosa compiutamente, ma non nei modi conosciuti e previsti dal pensiero razionale. Siamo al di qua della scienza e della filosofia, nel campo magmatico della coscienza, dove luce e ombra non sono distinte e non sono ‘distribuite’ gerarchicamente come noi vorremmo.
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    Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (318): Leggere FRANCO CASSANO, L’umiltà del male, LATERZA 2011

     

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    [Dalla quarta di co- pertina] Nella partita contro il bene, il male parte sempre in van- taggio grazie all’antica confidenza con la fra- gilità dell’uomo. Chi vuole annullare quel vantaggio deve ricono- scersi in quella debo- lezza, invece di pre- sidiare cattedre morali sempre più inascol- tate.

    Senza un’élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica. Come dimostra la figura del Grande Inquisitore, il male è un lucido conoscitore degli uomini e fonda il suo regno sulla capacità di coltivarne le de- bolezze. E sa adattarsi ai tempi, perché ha imparato a cambiare spalla alle sue armi: una volta esaltava la sottomissione, oggi offre con successo e su tutti i canali dosi crescenti di volgarità ed esibizionismo. Se vogliono far crollare questo potere, i migliori devono smettere di specchiarsi nella loro perfezione. Da sempre i Grandi Inquisitori usano questo sentimento di superiorità per isolarli da tutti gli altri, per ridicolizzarne l’esempio e ren- derli innocui. Chi spera negli uomini deve inoltrarsi nella zona grigia dove abita la grande maggioranza di essi, e combattere lì, in questo territorio incerto, le strategie del male.

    INDICE
    Prologo
    Capitolo primo – La debolezza e il potere
    La verità dell’Inquisitore
    I pericoli dell’aristocratico etico
    Avvelenare i pozzi
    Capitolo secondo – La zona grigia
    Il laboratorio del Male
    La corruzione delle vittime
    La fragilità, il giudizio e il perdono
    Capire non vuol dire perdonare
    Capitolo terzo – I nuovi interpreti della “Leggenda del grande Inquisitore”
    Vecchi e nuovi Inquisitori
    Sconfitta e redenzione
    Il difficile statuto della soggettività
    Le avventure dell’emancipazione
    Epilogo


    Quello che Cassano dice, e che viene ripreso nella quarta di copertina, è fin troppo eloquente per noi. Si tratta, ancora, però, di tornare all’origine del Male, per conoscerlo meglio e per avere armi adeguate per combatterlo oggi.

    Alla base dell’opera, Il grande inquisitore di Dostoevskij e La zona grigia di Levi.
    Ho ritrovato il primo testo alla pagina 358 de I fratelli Karamazov, edizione Sansoni del 1966, che conservo ancora. Sul frontespizio avevo scritto la data 6 settembre 1967. Da quel giorno avevo avviato la lettura, che andò avanti fino all’inizio delle lezioni universitarie a Roma.
    La zona grigia compare a pagina 674 – e si estende per 30 pagine – del primo volume delle Opere, edite da Einaudi nel 1987.
    Cassano fa riferimento esplicito ai due testi per indicare il soggetto della manipolazione delle coscienze e il territorio in cui occorre avventurarsi, per non lasciare al Male il suo vantaggio.

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    Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (304): Leggere DUCCIO DEMETRIO, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, RAFFAELLO CORTINA EDITORE

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    Una serie di articoli raccoglierà la lunga esperienza di studio dell’ultima opera di Duccio Demetrio. Procederò con scadenza settimanale alla trattazione del contenuto, concentrandomi su capitoli e paragrafi. Avevo segnalato la sua uscita in novembre. Lo stesso articolo viene rimaneggiato oggi e porta perciò la data dell’aggiornamento. Sarà arricchito con la riflessione che condurrò sulle parti di cui si compone, capitolo per capitolo. Più che recensione, sarà una mia personale valorizzazione di tutta la ricchezza del testo: restituire in un breve saggio le suggestioni innumerevoli del testo stesso non è compito facile. Demetrio, infatti, ha una scrittura densa, sintetica, in cui confluiscono esperienze pluridecennali: a volte, un passaggio innocente racchiude in sé spunti di riflessione che da soli meriteranno interi articoli. Si tratterà, in parte, di fare il lavoro inverso. Se la sua opera è lavoro di sintesi di una vasta materia di studio, bisognerà risalire analiticamente a ciò da cui proviene, basandosi sulla pura testualità, ma anche su tutte e sette le condizioni della testualità. Ad esempio, un raccordo con gli altri testi da lui dedicati alla scrittura o che contengono capitoli in cui la scrittura gioca un ruolo importante (intertestualità).


    Di scrittura Duccio Demetrio aveva già parlato abbondantemente nella sua opera precedente. Non solo, come è naturale, in Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé (1995) e nell’impegnativo La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (2008). Colpisce piacevolmente il fatto che essa compaia tra i ‘talenti’ di chi conduce una vita schiva (La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza, 2007): la quarta sezione del volume, intitolata Talenti, è suddivisa in tre capitoli, come quelle precedenti: 

    1. Con ingenua grazia – La virtù dell’innocenza
    2. Una scrittura interminabile – La virtù introspettiva
    3. Uscire di scena – La virtù del congedo
    Il secondo capitolo propone la scrittura come Il riscatto dell’introverso.
    Dopo un’immagine in bianco e nero, alla pagina 235, la citazione da EMIL CIORAN:

    Scrivere, per poco che sia, mi ha aiutato a passare da un anno all’altro, dato che le ossessioni espresse si sono affievolite e, per metà, le ho superate.

    Nella pagina successiva, i seguenti versi di MARIANGELA GUALTIERI:

    Gli altri sono troppi, per me.
    Ho un cuore eremita.
    Sono
    impastata di silenzio e di vento.
    Sono antica.
    Mi pento ogni volta che vado
    lontano dal mio stare lento
    nella velocità della sera…

    e poi il suo

    A voce spenta

    Se la timidezza è destino, non vi è altro modo per addomesticarla che scriverne: sottraendola ai suoi cunicoli, facendone il proprio pubblico manifesto. Il sentire schivo trova in questi istanti un più intenso raccoglimento. La scrittura è preghiera rivolta agli dei del silenzio. Riattraversa le età, firmando la loro indelebile traccia; si ricorre all’inchiostro per estinguere torti e vergogne. E’ nelle righe in cammino che per la prima volta la penna restituisce in altro linguaggio quel che appariva maleficio. Poi, oltre quel sentire che ancora può bruciare, la scrittura non ne trascura nessuno e la timidezza si rende chiave per aprire ogni terra d’uomini o cose.

    Il capitolo si apre con il titolo grande: La virtù introspettiva. Si estende da pagina 237 a pagina 245. Al suo interno, i titoletti: Fare di sé un taciturno tema vitale e Una solitudine abitata.
    L’introverso troverà occasioni di riscatto nella solitudine cercata: sarà essa a liberare risorse capaci di assicurare rivincite e successi. L’abitudine inveterata ad interrogarsi, l’attitudine alla riflessività e all’introspezione consentono di «conoscere le gioie talvolta assolute della contemplazione in propria unica presenza. Questo umore prezioso si incontra appena può con la possibilità di scrivere di sé». In questa scoperta, che alimenta il diritto a una vita schiva stando in mezzo agli altri, si afferma il potere della scrittura, che, se rivela, al contempo cela.

    demetrio

    Si scrive spesso per necessità e per dovere. A volte lo si fa invece per puro piacere, per l’impulso di addentrarsi nella felicità o nel male di vivere, per fissare ricordi o perché si scopre che scrivere di sé allevia il dolore, rinsalda l’amicizia e dà forza. Le ragioni profonde e poco indagate per cui amiamo scrivere è il tema di questo libro. L’autore passa in rassegna le differenti facce che assume la passione di scrivere quando diventa un’ossessione, quando si impugna una penna o si batte su una tastiera senza altra ambizione che non sia l’incontro con le parti ancora in ombra di noi stessi. [dalla quarta di copertina]

    [Ricevuto direttamente da Duccio Demetrio il 12 dicembre]

    Intervista di MARIA GIOVANNA FARINA a DUCCIO DEMETRIO

    Recensione di FLORA MOLCHO

    Recensione di GIORGIO MACARIO

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    INDICE

    Ante litteram
    AGLI SCRITTORI PER DILETTO

    I. LODE ALLA SCRITTURA
    Il riscatto della Musa dimenticata

    II. SCRIVERE PRIMO AMORE
    Eros e Psiche: accogliere al buio

    III. ASCOLTARE IL MITO
    Ermes: il messaggero alato

    IV. FILOSOFI PER DESTINO
    Circe: in alambicchi imprevisti

    V. NARRATI DA ANTICHE STORIE
    Pandora: sfuggiti all’estremo sconforto

    VI. MITI GENERATIVI
    Flora e Persefone: come semi nell’aria

    1. Mnemosine e Lete: maternità complici e rivali
    Scrivere è memoria e oblio

    2. Apollo: due paternità in un sol dio
    Scrivere è luce e ombra

    3. Poro e Penia: Eros, il figlio inaffidabile
    Scrivere è ricchezza e povertà

    VII. METAMORFOSI
    Arianna: per sempre amanti

    1. Orfeo e Euridice
    Scrivere è impazienza e lentezza

    2. Piramo e Tisbe
    Scrivere è equivoco e sincerità

    3. Filemone e Bauci
    Scrivere è ingratitudine e riconoscenza

    VIII. MITI DI SOLITUDINE
    Didone: in silenzio si adempie il fato

    1. Narciso
    Scrivere non è annullamento

    2. Sisifo
    Scrivere non è ripetizione infinita

    3. Atteone
    Scrivere non è innocenza

    IX. MITI DI CURA
    Aracne: la tela invisibile

    1. Asclepio
    Scrivere è un balsamo sospetto

    2. Chirone
    Scrivere è una ferita inguaribile

    3. Ila
    Scrivere è un commiato

    X. IL CASTIGO INELUTTABILE
    Danaidi: inutile affanno è una vita senza scrittura

    Post scriptum
    CARI AGLI DEI
    Passeggiando per Elisia

    Bibliografia, pag.225


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    Contributi a una cultura dell’Ascolto Sintesi

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    L’esercizio di scrittura deve mirare, tra l’altro, alla produzione di testi sintetici. Brevità e concisione, essenzialità e chiarezza, esaustività e ricchezza di collegamenti sono alcuni degli aspetti, delle caratteristiche di un testo sintetico.

    La sintesi è il risultato della riorganizzazione delle conoscenze, la loro utilizzazione in contesti nuovi, con il ricorso sempre diverso a categorie unificanti.

    La sintesi presuppone l’analisi, la classificazione e la gerarchizzazione delle conoscenze. Si avvale delle tecniche di scrittura che prediligono l’ipotassi (subordinazione sintattica) e il ricorso a un lessico specialistico (terminologia settoriale, cluster), il riassunto e l’argomentazione, diagrammi, schemi e mappe concettuali.

    I metodi propri dell’apprendimento cooperativo (brainstorming, scrittura collaborativa, ipertestualità, ipermedia) sviluppano le abilità di sintesi.

    Sintesi è uno degli elementi della tassonomia degli obiettivi cognitivi di Bloom.

    APPROFONDIMENTI TEORICI: La sintesi è un obiettivo di trasfert, cioè si riferisce a un universo non circoscritto che non può essere del tutto noto. La sintesi tende a trasferire i comportamenti appresi da un contesto all’altro estraendo gli elementi delle esperienze anteriori (analisi) per ricombinarli (sintesi) nella nuova situazione.

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    Contributi a una cultura dell’Ascolto – Le sette condizioni della testualità

    Da ROBERT-ALAIN de BEAUGRANDE e WOLFGANG ULRICH DRESSLER, Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, Bologna 1984: pp.17-29

    Definiamo il TESTO come una OCCORRENZA COMUNICATIVA che soddisfa sette condizioni di TESTUALITA’. Quando una di queste condizioni non è soddisfatta, il testo non ha più valore comunicativo. Tratteremo pertanto i testi non-comunicativi come non-testo.

    Chiameremo il primo criterio COESIONE. Esso concerne il modo in cui le componenti del TESTO DI SUPERFICIE, ossia le parole che effettivamente udiamo o vediamo, sono collegate fra di loro. E dal momento che le componenti di superficie vengono a dipendere l’una dall’altra in base a forme e convenzioni grammaticali, la coesione si fonda su DIPENDENZE GRAMMATICALI.

    Chiameremo COERENZA il secondo criterio. Essa riguarda le funzioni in base alle quali le componenti del MONDO TESTUALE, ossia la configurazione di CONCETTI e RELAZIONI soggiacenti al testo di superficie, sono reciprocamente accessibili e rilevanti.
    Si può definire un concetto come una configurazione di sapere (contenuto cognitivo) che può essere richiamato alla mente o attivato con una unità e consistenza più o meno forte.
    Le relazioni sono gli ANELLI DI CONGIUNZIONE fra i concetti che si presentano assieme nel mondo testuale.
    La coerenza non è solamente una caratteristica dei testi, ma piuttosto il risultato dei processi cognitivi degli utenti dei testi stessi.
    Quando si aggiunge il proprio sapere al fine di ricostruire un mondo testuale, si parla di INFERENZIAZIONE.

    La coerenza e la coesione sono concetti incentrati sul testo le cui operazioni concernono direttamente il materiale testuale.
    Ci occorrono poi anche delle nozioni incentrate sugli utenti del testo riguardanti l’attività della comunicazione testuale in relazione tanto a chi produce il testo che a chi lo riceve. 
    Il terzo criterio della testualità potrebbe quindi essere chiamato INTENZIONALITÀ. Questa si riferisce all’atteggiamento del producente testuale che vuole formare un testo coeso e coerente capace di soddisfare le sue intenzioni, ossia di divulgare conoscenze o di raggiungere il FINE specifico di un PROGETTO.

    Il quarto criterio della testualità è l’ACCETTABILITÀ. Essa concerne l’atteggiamento del ricevente ad attendersi un testo coeso e coerente che sia utile o rilevante per acquisire conoscenze o per avviare la cooperazione a un progetto.

    Con il quinto criterio della testualità, che chiamiamo INFORMATIVITÀ, intendiamo la misura in cui gli elementi testuali proposti sono attesi o inattesi oppure noti o ignoti/incerti.

    Possiamo chiamare SITUAZIONALITÀ il sesto criterio della testualità. Questa condizione riguarda quei fattori che rendono un testo RILEVANTE per una SITUAZIONE comunicativa.

    Il settimo criterio della testualità è l’INTERTESTUALITÀ. Essa concerne quei fattori che fanno dipendere l’utilizzazione di un testo dalla conoscenza di uno o più testi già accettati in precedenza.

     

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    CAMMINARSI DENTRO (317): Natale


    aa

    Sia grazia essere qui,
    grazia anche l’implorare a mani giunte,
    stare a labbra serrate, ad occhi bassi
    come chi aspetta la sentenza.
    Sia grazia essere qui,
    nel giusto della vita,
    nell’opera del mondo. Sia così.
     
    MARIO LUZI, Augurio

    aa

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    CAMMINARSI DENTRO (316): Scarti e resti che fanno storia

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    Domenica 18 dicembre 2011

    Aver parlato tanto – dal 2 settembre 2007 a oggi – dell’esperienza personale, di vita ed educativa, in tutti i suoi aspetti, non è sufficiente, per quanto riguarda il resoconto del lavoro di volontariato. Mi sembra di non aver detto ancora nulla, se penso alle storie personali, al ‘contenuto’ dei singoli colloqui, all’esemplarità di spezzoni di dialogo che restano nella memoria come momenti che andrebbero fatti conoscere a tutti. Ho anche scritto un centinaio di pagine con una decina di storie personali, ma non le ho mai ‘pubblicate’ perché penso sempre che il dolore delle persone non debba essere ‘divulgato’, anche se mascherato con la scelta dell’anonimato.

    Ho la sensazione qui, a ripensare agli oltre trecento articoli (WordPress chiama così i post) pubblicati, che il cuore dell’esistenza spezzata non è stato nemmeno sfiorato. Bisognerebbe riferire colloquio per colloquio le differenze rilevate nell’uso della parola, il venir meno delle rigidità dei muscoli del viso, l’abbandono di questo o quello schema di ragionamento… Bisognerebbe spiegare con quale linguaggio è stato ottenuto il risultato parziale che apre la strada a più sostanziose forme di collaborazione. Sulle descrizioni iniziali si tratta di ricostruire poi le interpretazioni intervenute a imprimere la direzione di marcia al lavoro di aiuto. Ho scritto sull’improvvisazione, finalmente. Dopo tanti anni di esperienza, si richiedeva quel chiarimento, che non è poi nemmeno compiuta espressione di tutto quello che accade quando ci avventuriamo nella terra di nessuno che ci separa dagli altri.

    Nei trentacinque anni trascorsi a scuola, come insegnante di lingua e letteratura italiana, nonché di lingua e letteratura latina, sono stato sempre convinto di dover preparare la lezione del giorno dopo senza trascurare alcunché. Dovevo sapere bene, punto per punto, di che cosa avrei parlato: senza lasciare nulla all’improvvisazione! Ma il fatto più interessante è proprio questo: negli ultimi anni di insegnamento, forse perché convinto che prevalesse la stanchezza ad impedirmi di preparare le lezioni a casa, ho smesso del tutto di farlo. Sono entrato in classe provando autentica paura, perché temevo di restare in silenzio, senza sapere cos’altro dire, magari dopo un avvio pure interessante! Non è mai accaduto, invece, che io rimanessi senza argomenti. Mi sono convinto, addirittura, con il passare del tempo, che le ultime erano le mie lezioni più belle. La ricchezza dei riferimenti testuali e critici, il materiale esibito, gli schemi e le mappe proposti alla lavagna erano la riprova del fatto che avevo da dire non poco su tutti i temi prescelti.

    Se nei primi anni di esperienza ero portato a condannare quasi ogni più piccola forma di improvvisazione è perché facevo coincidere improvvisazione con spontaneità ingenua, con espressione di sé non controllata e dunque aleatoria, cioè esposta ai capricci del caso e affidata al rischio dell’errore.

    In realtà, improvvisare significa lasciare che il discorso prenda la sua piega; significa dargli una piega che comprenda in sé le suggestioni, i concetti, la trama delle idee che un buon inizio porta sempre con sé. E’ come lavorare su un tema musicale. D’altra parte, non partiamo sempre con il fissare un tema, girando intorno ad esso, descrivendo l’oggetto, passando alla classificazione dell’oggetto stesso attraverso il suo inserimento nella classe di oggetti di cui fa parte a buon diritto, operando successive categorizzazioni e gerarchizzazioni, per passare poi alla contestualizzazione e alla ‘storicizzazione’ del frammento di senso rinvenuto?

    Se pensiamo alle anticipazioni degli incontri a cui la mente si abbandona sempre, nel corso della vita, quasi a voler tutto prevedere, tutto comprendere, prima ancora di aver fatto esperienza di ciò che l’altro ha da dirci, non si verifica poi puntualmente che nulla di ciò che avevamo ‘previsto’ si avveri? e non ci ritroviamo smarriti e inizialmente confusi, ma poi sempre più in linea, in sintonia con le cose che provengono dall’altro, giacché ci sforziamo di corrispondere a quanto proviene da quell’altra esistenza? e il nostro corrispondere, se non è per niente o solo in parte quanto pure avevamo ‘previsto’, ‘da dove proviene’? non è forse improvvisazione e basta?

    Ma noi non smettiamo mai di stupirci di quello che esce dalla nostra bocca. Quante volte abbiamo concluso: è veramente interessante tutto quello che ho detto? non mi aspettavo di essere in grado di fare quello che ho fatto? A ben guardare, noi non facciamo altro che improvvisare.

    Ma a questo punto si richiede una più solida ‘fondazione’ di questo dire apparentemente infondato.
    Interviene la voce. Interviene il volto. Interviene l’esperienza tutta. Interviene la nostra conoscenza del labirinto. Interviene il rigore logico di cui siamo capaci. Interviene la conoscenza enciclopedica del mondo che possediamo. Interviene il cuore, con il suo ‘ordine’. Interviene la nostra moralità.
    Di questo e di altro ancora abbiamo già parlato. Parlarne ancora, per far emergere il carattere comune e quotidiano di tutto ciò che precede, serve a dare ai passanti il senso di un fare che non discende solo da competenze e capacità personali: siamo tutti ‘interpellati’, chiamati dal mondo ad esprimere ciò che abbiamo da dire. E non accade mai che ci fermiamo a studiare i passi che faremo. Procediamo senz’altro nella terra incognita che è data dall’esperienza dell’altro, sicuri solo di questa volontà di agire. Senza di essa ci ritroveremmo costretti a sostare sterilmente sotto il nostro albero, a contemplare la vita che incalza le esistenze tutte, non concedendo a nessuno tregua.
    La vita di relazione, di cui si sostanzia tutta la nostra vita, ci induce al mattino ad abbandonare le nostre tiepide case, per affrontare il mondo con il suo carico di sì e di no. La foresta dei simboli in cui tutti ci moviamo è anche il labirinto nel quale a volte ci perdiamo. A nessuno è concesso uno ‘sconto’. Quanto più intricato è il territorio in cui ci avventuriamo, tanto più dobbiamo confidare nelle nostre mappe. Sono esse che ci consentono di avanzare improvvisando la vita.

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