Dona subito al 45504

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Mercoledì 18 aprile 2012

AL VIA LA CAMPAGNA CON SMS SOLIDALE DI EXODUS

La Fondazione Exodus Onlus promuove, dal 14 al 29 aprile, una campagna di raccolta fondi tramite SMS solidale al 45504 per sostenere il progetto di ristrutturazione iniziato lo scorso anno de “La casa dei ragazzi”, Comunità Educativa con sede a Cassino (FR).
L’intervento prevede l’ampliamento della struttura esistente e la costruzione di nuovi spazi per accogliere adolescenti e pre-adolescenti con problemi di dipendenza o disagio psichico provenienti da tutta Italia. La nuova sfida di Exodus, da oltre 25 anni impegnata nel campodell’educazione e del recupero dei giovani con problemi di dipendenza, è quella di sostenere i giovani più fragili e “arrivare prima” che la loro vita si spezzi.
Da qualche anno infatti la soglia d’età in cui i ragazzi iniziano ad assumere “sostanze” si è notevolmente abbassata, mentre il sistema dei servizi che nel nostro Paese si occupa di adolescenti in difficoltà è insufficiente e inadeguato. L’obiettivo – spiega Don Mazzi, fondatore di Exodus – “è quello di favorire l’attivazione di adeguate “reti sinergiche” che siano in grado di consentire il ripristino del benessere e dell’autonomia del ragazzo all’interno del proprio nucleo famigliare di origine”.
Dal 14 al 29 aprile 2012 sarà possibile inviare un SMS del valore di 2 euro al 45504 da tutti i cellulari personali TIM, Vodafone, WIND, 3, PosteMobile, CoopVoce, Tiscali e Noverca. Chiamando lo stesso numero si possono donare 2 euro da rete fissa TeleTu, oppure 2 o 5 euro per ciascuna chiamata da rete fissa Telecom Italia, Infostrada, Fastweb e Tiscali.

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Obbedienza e libertà

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Lunedì 16 aprile 2012

 


Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (378): Leggere VITO MANCUSO, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, FAZI EDITORE


 

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Toccare l’anima

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Lunedì 16 aprile 2012

CAMMINARSI DENTRO (377): Toccare l’anima

Se l’espressione ‘toccare l’anima’ dell’altro non risultasse immediatamente tattile, riferimento diretto a una manipolazione che plasma, che dà una (diversa) forma alla cosa, potrebbe anche andar bene per noi. Ma se la depuriamo di questo suo senso fisico, dell’idea di una pressione, di un abbraccio quasi, e dell’effetto plastico su ciò che sta oltre la superficie, direi che è perfetta, perché il tocco appena accennato, quasi uno sfiorare la superficie e basta, a cui alludo, si risolve in una vibrazione intensa che assomiglia ad una voce.
Accostarsi a un’anima e avvicinarsi soltanto, avvicinandosi indefinitamente, come se lo spazio da percorrere fosse una spaziatura sonora interminabile, al pari di un’onda che si propaga da noi verso l’altro per ritornare contemporaneamente verso di noi, (ri)sospinta dall’altro, è atto più che gesto. Non un semplice passo – un passo semplice in direzione di – ma il frastuono di un’onda, il fragore di acque sommosse che si propagano con il rumore che le accompagna e che aspira a farsi onda, riverbero dei moti del cuore.
Con la voce soltanto, al di qua del comprendere di un abbraccio, arrivare lì, dove si incontra un’esultanza trattenuta e si coglie il respiro, il sospiro, l’affanno, l’impercettibile ansito breve che sale dalle vertiginose profondità del cuore, nel buio tremante palpito di un’emozione.
Ai confini dello sguardo incontriamo esattamente questo ondeggiare, che assomiglia al mal di mare in terraferma. Non è un malessere compiuto, dispiegato. Piuttosto, è l’esitazione che precede e accompagna l’accenno a un moto lento e misurato, che distilla e trattiene l’impulso a raggiungere la meta desiderata.
Il ritrarsi del corpo, che quasi si torce, per mimare la volontà di un indugio perplesso, attende risposta, l’assenso ulteriore ad un moto che aspira a farsi passo di danza, voluta di fumo al cospetto di chi non può essere (ancora) toccato veramente.
Nella misura di un’onda trattenuta è chiuso il senso di un procedere che non è vero avanzare nello spazio fisico che separa (ancora).
Continuare a separare lo spazio fisico in infinite particelle da attraversare è un centellinare il gusto dell’onda dell’altro che allo stesso modo procede verso di noi, riconoscendo un’onda familiare, non più perturbante per noi.
Il puro contatto delle voci e il corrispondersi affannato del respiro e il moto agitato e casuale delle braccia e delle gambe, quasi a voler cercare posizioni più sensibili a quanto sta per accadere, si placa in un sorriso, breve assenso soddisfatto, quasi un placato porre termine a una lunga contesa per la verità.
Il consenso che giunge fino a noi non è il termine della beatitudine e nemmeno il rasserenato stupore di chi sia stato raggiunto contro la propria volontà senza opporre resistenza.
Non ci fu contrastato diniego né altero disdegno in un inespressivo restare. Piuttosto, una bocca appena spalancata che non riusciva a dire ancora l’effetto di quel tocco che era stato uno sfiorare appena.
Il moto accennato della superficie dell’anima imprime il suo ritmo al sorriso e al respiro che accompagna il rapido affanno, il trattenuto sospiro.
Come onda che corrisponda all’onda dei ricordi, l’altro avverte l’onda che sale, l’onda del ricordo evocato dalla nostra voce accorata. Riconosce l’effetto del nostro tocco prudente e si abbandona a fiducioso e confidente sorriso.

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Tra un’apparenza e l’altra

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Domenica 15 aprile 2012

CAMMINARSI DENTRO (376): Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine

Il potere grande dell’illusione è tutto qui, nella sua capacità di far durare nel tempo, anche per anni, addirittura per decenni, il sentimento di qualcosa che accadrà, che accadrà a breve, che senz’altro accadrà. Almeno, così ci è stato detto e promesso. Magari con vaghe allusioni, sicuramente con rinvii e pretesti credibili, per impegni verosimili, impedimenti reali, ma crescenti.
Il difetto grande della fonte dell’illusione risiede nel fatto che deve essere quasi totale, avvolgere e riempire tutto il tempo, mantenerci in uno stato di sospensione che non si traduce mai in una parola chiara, una sentenza definitiva. Noi vorremmo anche un giudizio di condanna senza appello, i sensi di una decisione irrevocabile che aiutasse a mettere il cuore in pace, distogliendo magari lo sguardo altrove, per concentrarsi meglio sulle proprie umidità gastriche, da sempre aborrite, quasi fossero trasgressione morale o tradimento. Dovevamo essere interamente proiettati sulla chimera, presi dal sogno ad occhi aperti, dalla favola di ciò che sarebbe accaduto. Ma che puntualmente non si è verificato.

La distruttività di questa emozione sta esattamente nel fatto che ci accade di chiedere, di ostinarci nella ricostruzione di momenti e di cose dette, per carpire un segreto, per far rilevare la crepa che dovrebbe immettere in una nuova verità, concedendoci finalmente lo squarcio di luce sulla nostra condizione, che è poi tutto ciò che chiediamo. La pericolosità dell’insistenza è nella povertà da cui parla. E’ la mancanza il peccato di origine.
Ci era stato promesso ciò che immancabilmente è presente in ogni relazione sentimentale che si rispetti. La promessa non risiede in un giuramento o in un patto sottoscritto con un rito non scritto. E’ sufficiente imboccare la strada del sentire condiviso perché poi si finisca giustamente per accampare diritti che non sono riconosciuti.

Ci scaraventa nel paese senza tempo delle chimere la convinzione di stare in un patto, di averlo sottoscritto con qualcuno che ha detto sì assieme a noi, che avrebbe nel tempo rispettato l’accordo, come noi abbiamo fatto fedelmente ogni giorno per mesi e per anni, ingenuamente convinti del fatto che passare dal riconoscimento quotidiano e dalle corrispondenze amorose ai silenzi studiati e ai dinieghi faccia ancora parte del patto.

Siamo ciechi. Diventiamo ciechi. L’evidenza dell’amore che sola conta non c’è più. Ora altre evidenze si impongono alla vista che non vede, perché presa da altre evidenze, dai vuoti riempiti da noi, che prestiamo le parole e ci diciamo quello che nessuno ci sta dicendo, che continuiamo a credere a ciò che non c’è lì davanti a noi, luminosa presenza di sempre.

Siamo nella mancanza, eppure riscaldiamo il nostro cuore di una fede che proviene senz’altro dal bene ricevuto, che ci acconciamo a credere che sia ancora lì, a due passi da noi, dunque ancora per noi.
Questa nostra fede non merita la smentita crudele che non verrà, che non viene. Noi crediamo di non meritare una smentita, per aver lungamente prestato fede all’amore. Questo ci sembra di poter dire a noi stessi, per affrontare i giorni sempre uguali, trafitti solo dal dolore della mente, che si affanna a cercare un varco che non si apre più.

Il nuovo in cui ci ritroviamo quando arriviamo a decidere di non credere più – e questo è ciò che prevalentemente non facciamo – è dato dal puro vuoto della mancanza, dalla perdita di senso di qualcosa di cui non ci siamo ‘sbarazzati’ ancora. Siamo lucidamente infelici, perché comprendiamo bene che la felicità è a portata di mano, ma non riusciamo ad afferrarla. Questa è l’infelicità più grande.
L’indugio e l’ostinazione nascono da qui, da questa sensazione di possibile che sconfina in una libertà infinita. E’ tutto nelle nostre mani. Sembra quasi che il nostro destino sia nelle nostre mani. Ma si tratta solo del fatto che siamo a due  passi dalla decisione di riprenderci la nostra vita, per ritrarci al di qua dell’amore in cui avevamo creduto.

Noi possiamo oscillare indefinitamente tra apparenza e realtà, tra la falsa apparenza dell’amore che non c’è più e la bella apparenza di un tempo, che rinviava alla evidenza prorompente dell’amore.
Il destino dell’infelicità è tutto qui, in questo credere inutile nell’evidente apparenza che non è (più) tale, perché il nostro cuore, impegnato a far esistere e a far durare nel tempo l’oggetto d’amore, continua a generare la luce e il calore che riscalda l’altro furtivamente, che non si lascia più toccare dalle piccole mani che aprono e chiudono delicatamente, come fa accortamente la primavera con i suoi primi boccioli.

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Se ti abbraccio non aver paura

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Sabato 14 aprile 2012

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Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (375): Leggere FULVIO ERVAS, Se ti abbraccio non aver paura, MARCOS Y MARCOS EDITORE (Pagina dell’Editore) (Scheda del libro)

 

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 Il padre di Andrea ha dato vita alla Fondazione I bambini delle fate

La fondazione, senza scopo di lucro, ha finalità sociali e umanitarie rivolte alle disabilità infantili. L’impostazione commerciale della Fondazione permetterà un migliore e più efficace connubio tra le aziende italiane ed i progetti di sostegno ai bambini disabili oltre che il finanziamento della ricerca scientifica su diversi disturbi infantili, ed in particolare sulla sindrome autistica. 


 

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Il diapason dell’ascolto

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Giovedì 12 aprile 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (374): Il perimetro dell’esperienza di ascolto

Anche se restano da esplorare ‘fino in fondo’ vaste regioni dell’esperienza, l’intera esperienza dell’ascolto può essere riassunta facilmente, quando si siano chiariti alcuni dei ‘termini’, cioè i confini dell’esperienza stessa.
Se di relazione d’aiuto si tratta, è possibile ascolto dentro il colloquio di motivazione. Qualcuno ‘chiede aiuto’. Noi siamo gli ‘ascoltanti’. Si tratta di rendere possibile il cambiamento, incidendo sulla struttura delle motivazioni dell’altro.
Il Centro di ascolto è l’ambiente che rende possibile un approccio multimodale e a rete: non si tratta solo di una sede; ogni Centro contribuisce a creare interdipendenza positiva nel territorio, promovendo e riconoscendo un attore primario, a seconda della natura del disagio sociale a cui deve dare risposta. Questo attore sarà di volta in volta il SER.T., il Dipartimento di Salute Mentale, il Servizio sociale del Comune, gli Psicoterapeuti, altri Enti del ‘privato sociale’, la Comunità. La collaborazione con i Servizi tutti è pre-condizione necessaria e sufficiente. Nei Servizi si incontrano le diverse personalità impegnate nelle professioni di aiuto e attraverso i Servizi si attivano le reti di aiuto.
Il carattere bio-psico-sociale della sindrome di dipendenza, di cui ci occupiamo, infatti, postula l’intervento attivo delle diverse professionalità – sanitari, psicoterapeuti, operatori sociali -, e questo è ciò che chiamiamo approccio multimodale: nessuno può affrontare da solo una condizione umana caratterizzata da una pluralità di sintomi che occorre far risalire a una pluralità di fattori, quando si consideri l’eziopatogenesi della malattia.
Intorno alla persona che chiede aiuto, poi, si creerà nel tempo una rete sociale che acquisterà i caratteri di una rete solidale, di una rete tematica, di una rete sociale, a seconda dei coinvolgimenti che sarà possibile individuare e attivare. Le reti non esistono già, per il fatto che fuori del Centro di ascolto ci siano famiglia della persona e risposte di aiuto possibili. Ogni volta occorre tentare la strada della cooperazione, ‘assegnando’ ad ognuno il ruolo naturale che deve svolgere nel lavoro di rete.

Il segmento rappresentato dal nostro lavoro di aiuto si traduce nel tempo in alleanza ‘terapeutica’ se riusciamo a stringere una relazione d’aiuto con la persona, che si baserà sulla reciprocità dello scambio di risorse: non si tratta di una relazione asimmetrica, in cui noi siamo il ‘fornitore di servizi’, cioè di risposte, e l’altro solo ‘cliente’, ‘paziente’ e basta. La relazione d’aiuto è relazione sociale.

La dimensione esistenziale della persona è propriamente l’intero  – cioè il risultato – a cui mirare, attraverso i processi riparativi e ricostruttivi dell’esistenza personale che l’intervento congiunto di tutti i Servizi rende possibili.

La particolarità della nostra visione, che è sorretta dall’impostazione fenomenologica di Roberta De Monticelli e dalla sua teoria della persona, è nella considerazione dell’altro nella sua interezza, per quanto la sua sia un’esistenza spezzata.
A dispetto della patologia e della marginalità sociale ‘realizzata’, chi ci sta di fronte è sempre una persona. Se i processi innescati dall’abuso di sostanze non hanno compromesso irreversibilmente il ‘funzionamento’ dell’organismo, c’è da restituire alla pienezza della vita sociale una persona che nasce a nuova vita, una volta sperimentata la morte rituale che è necessaria all’esperienza di rinnovamento, perché si dia crescita personale.

I campi dell’esperienza di ascolto che sono impegnato ad approfondire e a definire nei loro confini sono sostanzialmente dieci:
Ascoltare – La trascendenza personale o l’invisibilità dell’esperienza
Sulla relazione – Ritrovare la prossimità nella distanza 
La dimensione linguistica – Trovare le parole 
La vita affettiva – L’ordine del cuore
La dimensione del tempo – La qualità dell’accordo
Lo statuto della voce, come vettore dell’esperienza prossimo all’inconscio
La profondità del volto – L’anima del corpo
L’esistenza-progetto – Oltre i meri dati di fatto
La costruzione di narrazioni – Lo sguardo che si fa racconto dell’altro
La conoscenza personale – Io so cosa senti

Intorno a queste dieci questioni, che sono altrettanti problemi destinati a rimanere   aperti, sto scrivendo un libro in formato ebook, che pubblicherò nel web gratuitamente quando sarà pronta una prima stesura compiuta.

Parlare di diapason dell’ascolto significa che il diapason siamo noi-i soggetti, giacché siamo perennemente impegnati a rendere possibile all’interno della relazione sociale l’accordo con l’altro, che è la vera ‘materia’ dell’empatia. Più che di risonanza e simpatia e avvertimento del sentire dell’altro, il tempo debito dell’ascolto è dato dalla qualità dell’accordo. Su quest’ultimo riposa ogni possibilità di successo che il tempo e le situazioni ci concederanno. Il metodo non basta. L’arrischio della relazione è tutto qui, nel ‘destino’ della relazione stessa. In essa sono implicati, alla maniera di quelli dell’altro, i termini dell’esperienza: la nostra voce, il nostro volto, il nostro modo di stare in relazione, il nostro linguaggio, le nostre emozioni, il nostro modo di abitare il tempo, la nostra capacità di istituire file di continuità e di raccontare il farsi esistenza della vita dell’altro.

Ascolto, allora, sarà percezione dell’armonia nascosta dell’esistenza dell’altro, nel suo corrispondersi con l’armonia nascosta della nostra esistenza.
Ciò che ci viene restituito nella pratica dell’ascolto non è solo il mosaico di un io frammentato di cui debbano essere trovate le parti mancanti e reintegrate nell’insieme dato.
L’orizzonte della libertà dell’altro è obiettivo e meta, fine e scopo dei singoli gesti e delle azioni, degli atti compiuti dalla persona che noi siamo, che varranno non soltanto ad incidere sulla struttura delle motivazioni dell’altro, ma a fargli sentire che è possibile uscire dalla solitudine non scelta e dal vuoto dell’esistenza per restituire ad essa un posto nel mondo.
L’ordito delle relazioni possibili tra le istanze diverse della persona si incontrerà finalmente con la trama delle relazioni ritrovate e di quelle nuove cercate a lungo.

 


 

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Diffidate delle ricette di creatività troppo semplici

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Mercoledì 11 aprile 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (373): Ricette di creatività

Leggere dal sito NUOVO E UTILE – TEORIE E PRATICHE DELLA CREATIVITA’: Metodo 20 – Ricette di creatività: diffidate di quelle troppo semplici

LINK da visitare:
Ted Disbanded commenta le dieci regole  d’oro per essere creativi del divulgatore Jonah Lehrer (il suo sito, invece, è ricco e accurato), che prende le distanze dal brainstorming con solidi argomenti
 


 

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Un amore difficile

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Domenica 8 aprile 2012

CAMMINARSI DENTRO (372): L’amore (più) difficile

L’amore più difficile non è quello contrastato o infelice. Non è nemmeno l’amore di lontano o l’amore non corrisposto. Non parliamo nemmeno dell’amore inutile di chi si ritrovi con la persona sbagliata in un tempo sbagliato della propria e dell’altrui vita.
Della vasta fenomenologia dell’amore molto è stato raccontato. Ci sembra di saperne tutto. Dopo aver rinunciato per un po’ all’idea dell’idillio, che la storia si debba necessariamente ‘concludere’ con le ‘nozze’, riusciamo finalmente a concepire tutto quello che c’è al di qua dell’ideale e dell’armonia e dell’accordo perfetto. Anche, talvolta, al di fuori della sana normalità. D’altra parte, non potendo disporre di un ‘ufficio reclami’ in caso di insuccesso né di una guida a tempo pieno che ci distolga dalle esperienze che possono risultare nocive alla nostra salute, non ci resta che provare. Non rinunceremo ad amare le persone sbagliate, quelle che ci amano in modo goffo e inadeguato, o capriccioso e imprevedibile. Non smetteremo di inchinarci riconoscenti di fronte a chi non merita per niente il nostro amore e non manca occasione per farci soffrire ancora un po’, magari perché convinto che la vita sia così, niente altro che un ‘economico’ tiro alla fune, in cui bisogna prendere il più possibile e condannare l’altro al ruolo di chi dà soltanto. E che dire del cuore arido di chi non risponde mai alle nostre dichiarazioni d’amore? Vorremo forse lasciare inabissare un’esistenza che di noi ha bisogno per proseguire il gioco perverso del rinvio e basta? Degli amori inutili abbiamo già parlato, e di come siano costati la vita ad alcuni dei nostri ragazzi, ma basta stare un po’ più attenti: riconoscere l’altezza a cui si situa l’oggetto d’amore è vitale, per non dover dire poi di essersi scontrati con una realtà difficile da ‘governare’.
Sicuramente non smetteremo di sognare l’amore che dura e faremo di tutto perché si realizzi. Nel frattempo, ci ritroviamo a vivere amori impuri ed imperfetti, incompleti e incompiuti, addirittura mai nati. Nel paese delle chimere c’è posto per tutti, per i sogni più pazzi e per l’illusione estrema, quella di chi si avventura pericolosamente in territori inesplorati, mai esplorati (da noi).
Uno scrittore si chiedeva qualche decennio fa se ci sono sentimenti che non sono mai stati raccontati, ma faceva riferimento a situazioni note – come la situazione ‘atomica’ – più che ad esperienze personali in cui l’asse della realtà inclinasse dalla parte del grigio, indifferente al primato del bianco e del nero. Voglio dire che una ‘variante’ di un ‘genere’ noto è come un nuovo genere, perché magari cambia la lunghezza dell’attesa, perché la storia si interrompe sul più bello… Si può lasciar morire una bella storia. Si può decidere di non far nascere un amore che sarebbe faticoso far vivere. E via amoreggiando… C’è poi la ricerca inesausta di chi spera di fare cose strane, addirittura astratte, e se ne va convinto che pure quella sia una strada percorribile: basterà trovare un partner disposto a sacrificarsi per asfaltarla con noi!

Ma di tutti gli amori di cui siamo capaci, al di là di tutto ciò che esperienza e prudenza pure suggeriscono, il più difficile è sicuramente l’amore che riserveremo a chi non sappia incarnarsi, mantenendosi a debita distanza, senza rinnegare mai l’amore promesso o addirittura sbandierato sotto le più imprevedibili forme per noi. Magari ci sentiremo dire tutto quello che dobbiamo fare per non deludere le aspettative di decenni, per confermare un impegno preso e per proseguire con la fissazione di mete sempre nuove e più avanzate. Continueremo a guardare altrove, perché ci si dice che il nostro compito è quello, servire il mondo, amando per lo più le persone sbagliate. E se poi nel numero delle persone ‘sbagliate’ ritroveremo anche chi lungamente ha guidato i nostri passi, poco importa, se la stessa persona è già di nuovo in cammino per obiettivi ancor più alti, perché a tutti fu assegnato il destino di chi cerca, non di chi abbia già trovato.

Consistere qui e ora, in mezzo a questa notte piovosa, in attesa di un’altra resurrezione, è dolce e aspro ad un tempo. Il compito più urgente è dare un nome a questo amore, dargli spazio e farlo durare. Soltanto qui ci sembra di consistere veramente in pace, non altrove, magari in una pacificata e inerte quiete mattutina, lontano dai tumulti e dagli affanni, dai giusti rimproveri e dalle inquiete attese di sempre.

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Animale assassino

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Domenica 1° aprile 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (371): Leggere FRANCO PRATTICO, Homo sapiens assassino…, la Repubblica 26 febbraio 1987

La pagina di Cronaca de la Repubblica del 26 febbraio 1987 riportava in una buona sintesi di Franco Prattico i contenuti di una Conferenza tenuta da Rita Levi Montalcini in memoria di Roberto Olivetti nel Centro Studi di Politica Economica a Roma, di cui Olivetti era stato uno dei fondatori.

Neurobiologia e aggressività nella prima conferenza organizzata in memoria di Roberto Olivetti 
FRANCO PRATTICO, Homo sapiens assassino… 
Rita Levi Montalcini spiega le radici della violenza
“Non c’è nulla nel nostro patrimonio genetico che ci spinga a uccidere i nostri simili”, afferma il Premio Nobel. Sono conformismo, passività, sottomissione, emotività e irrazionalità le vere origini del fenomeno 

ROMA Due anni or sono moriva Roberto Olivetti, intellettuale, industriale e «cittadino», una tra le figure più significative della generazione che dal dopoguerra a oggi ha costruito i migliori punti di riferimento culturali e politici del nostro paese. E il Centrostudi di politica economica (Ceep), di cui Olivetti fu uno dei fondatori, ha scelto di ricordarlo dedicandogli una serie di conferenze, una all’anno, tenute da eminenti personalità del mondo della scienza e della cultura.
La prima si è svolta ieri sera, nella Sala della Biblioteca Alessandrina dell’Archivio di Stato di Roma, protagonista il premio Nobel Rita Levi Montalcini. Dopo che Giorgio La Malfa ed Eugenio Scalfari avevano tracciato il ritratto intellettuale e umano di Roberto Olivetti, la «signora della scienza italiana» ha affrontato il tema della serata, un argomento di «alta scienza» ma anche ricco di quelle implicazioni sociali e politiche che avevano guidato l’esistenza di Olivetti: «le basi neurobiologiche del conformismo e dell’aggressività». In altre parole: aggressività, violenza, guerre, genocidi, persecuzioni sono un prodotto «irriducibile» del patrimonio genetico dell’uomo? La risposta della Levi Montalcini è recisa: no, la colpa del fatto che l’uomo è un «animale assassino» non è un «dato» biologico. Non c’è nulla nel nostro patrimonio genetico che ci spinga all’aggressività, a uccidere i nostri simili. «Bisogna evitare l’errore capitale – dice la Montalcini citando l’etologo Thorpe – di sostenere che negli animali superiori e nell’uomo l’aggressività di gruppo sia il risultato necessario e inevitabile della costituzione ereditaria». Nel nostro sistema nervoso centrale i circuiti «emozionali», quelli cioè che sono guidati dal sistema limbico, non si sono molto modificati rispetto al nostro passato biologico, non sono molto diversi da quelli degli animali «inferiori». Questo però non significa una maggiore tendenza alla violenza, tutt’altro: nella maggior parte delle altre specie animali esistono meccanismi automatici inibitori che impediscono l’uccisione dei propri simili, pratica, invece, molto diffusa tra gli uomini. Le radici della ferocia e della distruttività, come quelle del conformismo, vanno cercate lontano dal patrimonio genetico della specie.
Per comprenderle dobbiamo tornare indietro, al processo di «costruzione» dell’uomo, milioni di anni or sono. Ciò infatti che si è enormemente sviluppato fin dai primordi dell’umanità è la neocorteccia, che presiede alle funzioni «superiori»: è aumentato il numero dei neuroni, e di conseguenza quello dei moduli corticali, dei microcircuiti neuronali, quella stupenda rete di connessioni tra le cellule del sistema nervoso centrale, le sinapsi, che non sono rigidamente predeterminate dai geni, come invece lo è l’architettura complessiva del cervello, ma al contrario sono in gran parte modulabili e possono venire modificate dall’esperienza. E’ il possesso di questa grande struttura plastica e le sue enormi possibilità associative che differenzia gli uomini da tutti gli altri animali.
Ci differenzia, però – osserva la Montalcini – nel bene e nel male. Si deve ad esso se l’uomo è in possesso della capacità di intendere e parlare linguaggi simbolici, che sono alla base del processo di civilizzazione umana. Ma che sono anche responsabili della «passività», della suggestionabilità umana. Il lento sviluppo neonatale dell’uomo, la sua lunghissima dipendenza, che giunge fino alla pubertà, rendono l’ ominide (e l’uomo moderno) un soggetto estremamente suggestionabile, fondamentalmente sottomesso, con una notevole tendenza al conformismo, soggetto passivo dei messaggi simbolici. L’ominide, in base a questo processo, diviene un animale gregario: facilmente ipnotizzabile dai richiami all’emotività e all’irrazionalità. «E’ il comportamento “sottomissivo” la maggiore minaccia alla nostra sopravvivenza» ha ricordato la Montalcini, citando Koestler: «Senza linguaggio non vi sarebbe poesia, ma neppure guerra».
Paradossalmente, quindi, è proprio il fatto, che l’uomo sia un «animale culturale» a renderlo portatore di aggressività di violenza: la sua ricettività ai richiami emotivi dei linguaggi simbolici, infatti, scatena ipnosi e isterie di massa, rende possibili le guerre, i genocidi, gli assurdi odii razziali. Nella massa, l’individuo perde la sua individualità, viene «gestito» dai linguaggi. E’ il suo essere sottomesso, condizionato alla passività, che lo rende facile preda dei messaggi che i media gli impongono, rendendolo «massa»: «E la massa è grigia e accetta ordini» commenta Rita Levi Montalcini.
Il rimedio, secondo la grande neurobiologa italiana, non è ovviamente in una impossibile rinuncia alle «capacità superiori», alla ricettività umana ai linguaggi simbolici: ma nella liberazione dai condizionamenti, dalla sottomissione. In altre parole, tocca ad ognuno di noi liberarci dei residui dell’«ominide gregario», e sviluppare le proprie individuali capacità creative, la propria autonomia intellettuale. Solo così l’uomo cesserà di essere un «animale assassino».

Per i miei alunni da allora ho riproposto la pagina in fotocopia arricchita di spunti teorici di riflessione:

lo schema S-R, per spiegare la sequenza stimolo-risposta che è propria degli animali;

lo schema S -> R, per spiegare la stessa sequenza interrotta dall’intervallo temporale nell’uomo, per segnalare la coscienza, il ricorso alla riflessione che è possibile prima di ogni risposta ad uno stimolo;

lo schema Natura -> Cultura, per spiegare la ‘distanza’ tra l’una e l’altra, la possibilità di ‘costruire’ che è propria della cultura nell’uomo…

A margine del foglio, una lista disordinata di termini che rinviano ad altrettanti concetti, che corrispondono a comportamenti, atteggiamenti, attitudini, ‘risposte’ dell’uomo quando egli sia influenzato dai comportamenti di gruppo:

DIPENDENZA
GREGARISMO
CONFORMISMO
PASSIVITA’
SOTTOMISSIONE
EMOTIVITA’
IRRAZIONALITA’
SUGGESTIONABILITA’
FANATISMO
MASSIFICAZIONE
AGGRESSIVITA’
«ETERODIREZIONE»
SPERSONALIZZAZIONE


In margine alla celebrazione della Giornata della memoria

Auschwitz è il culmine della Shoah. La lezione che viene da lì è duplice. Da una parte, essa è l’emblema del trionfo della tecnica; dall’altra, è la prova della furia della libertà che si accanisce contro se stessa. I fatti storici hanno confermato l’ipotesi peggiore sulla natura umana: prevale l’istinto gregario; gli uomini amano obbedire; messi in gruppo diventano ‘branco’ disposto ad uccidere; eterodirezione, passività, suggestionabilità sono i tratti degli umani. Il servo arbitrio che li contraddistingue può farsi libero, ma ognuno di loro ha da scoprire come sia possibile e poi per il resto della vita praticarlo strenuamente, se non altro per non ritrovarsi nella condizione di poter nuocere agli altri ‘senza volerlo’…

Ha ragione Steiner: «Noi veniamo dopo». Se ci interroghiamo su chi noi siamo, oggi possiamo rispondere solo così: Noi veniamo dopo Auschwitz.

«NOI VENIAMO DOPO. ADESSO SAPPIAMO CHE UN UOMO PUO’ LEGGERE GOETHE O RILKE ALLA SERA, PUO’ SUONARE BACH E SCHUBERT E QUINDI, IL MATTINO DOPO, RECARSI AL PROPRIO LAVORO AD AUSCHWITZ. DIRE CHE EGLI HA LETTO QUESTI AUTORI SENZA COMPRENDERLI O CHE IL SUO ORECCHIO E’ ROZZO E’ UN DISCORSO BANALE E IPOCRITA.

IN CHE MODO QUESTA CONOSCENZA PESA SULLA LETTERATURA E SULLA SOCIETA’, SULLA SPERANZA, DIVENUTA QUASI ASSIOMATICA DAI TEMPI DI PLATONE A QUELLI DI MATTHEW ARNOLD, CHE LA CULTURA SIA UNA FORZA UMANIZZATRICE, CHE LE ENERGIE DELLO SPIRITO SIANO TRASFERIBILI A QUELLE DEL COMPORTAMENTO? PER GIUNTA, NON SI TRATTA SOLTANTO DEL FATTO CHE GLI STRUMENTI TRADIZIONALI DELLA CIVILTA’ – LE UNIVERSITA’, LE ARTI, IL MONDO LIBRARIO – NON SONO RIUSCITI A OPPORRE UNA RESISTENZA ADEGUATA ALLA BESTIALITA’ POLITICA: SPESSO ANZI ESSI SI LEVARONO AD ACCOGLIERLA, A CELEBRARLA, A DIFENDERLA. PERCHE’? QUALI SONO I LEGAMI, PER ORA ASSAI POCO COMPRESI, TRA GLI SCHEMI MENTALI E PSICOLOGICI DELLA CULTURA SUPERIORE E LE TENTAZIONI DEL DISUMANO? MATURA FORSE NELLA CIVILTA’ LETTERARIA UN GRAN SENSO DI NOIA E DI SAZIETA’ CHE LA PREDISPONE ALLO SFOGO DELLA BARBARIE?» (da GEORGE STEINER, Linguaggio e silenzio)

Nel suo intervento al Seminario Cultura Scuola Persona, tenutosi a Roma, presso la Biblioteca Nazionale Centrale, il 3 aprile 2007, il Ministro della Pubblica Istruzione, tra le altre cose, ha affermato:

Il preside di un liceo americano sopravvissuto alla Shoah scriveva ogni anno ai suoi insegnanti:

Caro professore,

sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleni da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università.

Diffido, quindi, dell’educazione.

La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.

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Il silenzio degli uomini

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Mercoledì 28 marzo 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (370): Leggere IAIA CAPUTO, Il silenzio degli uomini, FELTRINELLI 2012

Iaia Caputo è nata a Napoli e vive a Milano. Ha pubblicato i saggi Mai devi dire. Indagine sull’incesto (Corbaccio 1996), Di cosa parlano le donne quando parlano d’amore (Corbaccio 2001) e il romanzo Dimmi ancora una parola (Guanda 2006). Per Feltrinelli ha pubblicato Le donne non invecchiano mai (2009).

In breve
I nuovi maschi sono così simili ai vecchi: scambiano l’amore e la libertà con il potere, il denaro, il sesso. Combattono sempre un nemico, reale o immaginario. Comprano donne, le stuprano, le uccidono. Forse è arrivato il tempo di parlare finalmente di una “questione maschile”. Ma per farlo è necessario rompere il “silenzio degli uomini”.

Il libro
Gli uomini non parlano. Mai come in questo momento, gli uomini sembrano non avere le parole per “dire”: la loro paura e il loro smarrimento, la loro fragilità e i loro desideri. Coloro che per millenni sono stati i dominatori del mondo da tempo non lo sono più e oscillano continuamente tra inedite libertà offerte loro dalle donne e la nostalgia degli antichi privilegi.
No, gli uomini non sanno ancora parlare di sé, ed è in questo silenzio che Iaia Caputo coglie una “condizione tragica del maschile”, che nella dismisura di una sessualità incapace di evolvere e nella scorciatoia della violenza ha le sue derive più preoccupanti. Così, l’autrice indaga sui padri che uccidono i figli ma anche sulla nuova paternità che ha scoperto la gioia della cura e della prossimità dei corpi; decodifica i gesti che hanno caratterizzato la politica e la sfera pubblica negli ultimi vent’anni, mettendone a fuoco l’arroganza, la volgarità e l’urgenza di costruire e denunciare un nemico; riflette sulle forme del desiderio maschile attraverso l’esemplarità del caso Marrazzo o dell’affaire Strauss-Kahn – passando, evidentemente, per il “ciarpame senza pudore” dell’era berlusconiana.
Iaia Caputo cita dalla cronaca, intervista, ascolta, analizza e giunge ad affondare questa materia nella prospettiva primitiva in cui tornano, inaspettatamente attuali, i gesti di Medea, e quelli di una senescente classe politica, i Crono del postpatriarcato tanto disinteressati al destino dei propri figli quanto intrinsecamente misogini. Ma vi è in queste pagine anche l’elogio di una delle più grandi ricchezze del maschile, quello dell’epica: una narrazione che ancora oggi permette di rintracciare la possibile bellezza d’essere uomini, le sue contraddizioni e la sua complessità. Forse, il maschile potrebbe avviare una sua tardiva trasformazione solo rinunciando al privilegio di un silenzio che lo protegge ma gli toglie interi pezzi di vita. Perché le cose esistono solo quando impariamo a nominarle.

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Non permettere che si disperdano nel vento!

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Lunedì 26 marzo 2012

CAMMINARSI DENTRO (370): Le parole non si disperdano nel vento!

Immaginare un patto di fedeltà e stipularlo alla maniera antica, magari con un giuramento d’amore, può servire nel tempo. Senza cedere alle derive della propria epoca, che sconsiglierebbero giuramenti e patti e promesse, perché lo scarto tra le parole e le cose sarebbe ormai incolmabile e perché la parola non sarebbe più credibile alle nostre latitudini di pensiero, è urgente procedere alla maniera di Odisseo, che costruì il letto nuziale sul tronco di un albero e condivise il segreto solo con lei, con la donna che avrebbe saputo aspettare oltre ogni ragionevole dubbio.

Magari chiedere a lei di volere la sua vecchiaia può risultare inizialmente facile e vana richiesta, ma se ripeteremo ogni anno, per tutti gli anni, la stessa intenzione d’amore anche in mezzo alle incomprensioni più grandi e ai fraintendimenti più gravi, gioverà ‘alla fine’ a mostrare nella sua semplice purezza l’ingenuo sentire di un cuore animato da un affetto adulto che nulla chiede alle lusinghe dell’ora e alle attrattive della bella apparenza, per mirare a più sostanziali dialoghi d’amore, al confidente abbandono e all’attesa fiduciosa di chi ricorda il bene ricevuto.

Lei si abbandonerà alle schermaglie d’amore con una risposta ‘interlocutoria’: «Purtroppo, dovrò accontentarmi!»
Noi le diremo: «Rispondi con amore!»
Sentirsi dire poi: «Tu sei l’unica persona che vorrò accanto a me» è sufficiente come viatico per il tempo che verrà.
Potersi allontanare sicuri di essere amati e di poter contare sui giorni e i mesi e gli anni che restano aiuta a calmare i tumulti del cuore, che si ostina a chiedere ancora un amore che forse non è mai mancato, ma che avremmo voluto stampare a caratteri di fuoco nel cielo, perché si mostrasse sempre nella sua specifica evidenza a ricordare il tempo che non passa invano, perché l’essere non si risolva nel suo svanire.

Immaginare dialoghi di tal fatta non è peregrino elucubrare notturno, se le angustie della mente si scioglieranno nell’unico bene che costituisca l’unica verità, cioè che l’amore è sempre reciproco.
Nel tempo dell’usa e getta delle cose che non durano o che perdono presto il loro pregio, è indispensabile poter contare sugli affetti che durano.
E’ questa qualità l’unica che conti per un sentire adulto, mai pago di sé, perché le ragioni del cuore non stanno tutte nel cuore. La sua legge vuole che il bene lungamente vagheggiato e sognato e accarezzato sia condiviso con chi forse aspettava proprio noi per pronunciare parole di verità e di saggezza, a proposito dell’età ulteriore e dei suoi delicati istanti eterni e delle file di continuità che siamo impegnati a tessere pazientemente perché le nostre parole non si disperdano nel vento.

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Archivio o motore di ricerca?

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Venerdì 23 marzo 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (369): Leggere PAOLO MAGLIOCCO, Le metafore della memoria. Archivio o motore di ricerca, come funziona la macchina dei ricordi, la Repubblica 23 marzo 2012

Il testo completo del dialogo tra il fotografo Ferdinando Scianna e il neuroscienziato Stefano Cappa è disponibile sulla nuova rivista iS Magazine e su is.pearson.it

La rivista e il sito, con la newsletter iS Espresso, fanno parte del Laboratorio Pearson per l’apprendimento, che consente a insegnanti, genitori, ragazzi di scambiarsi esperienze e conoscenze su quello che avviene in campo educativo.

Pearson Italia (Paravia e Bruno Mondadori) lancia la campagna Pearson imparare sempre per la scuola.

iS Magazine andrà gratis nelle scuole, sarà scaricabile in formato pdf dal sito, diventerà una app.


Un grande fotografo e un importante neuroscienziato discutono di come si formano i ricordi, di come li elaboriamo, di come siamo in grado di richiamarli alla mente. Di che cosa è una foto e di come la fotografia abbia segnato l’inizio di una nuova era per la nostra memoria.

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Ama il prossimo tuo

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Giovedì 22 marzo 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (368): Leggere ENZO BIANCHI e MASSIMO CACCIARI, Ama il prossimo tuo, IL MULINO 2011

Enseña el Cristo: a tu prójmo
amarás como a ti mismo,
mas nunca olvides que es otro.
Insegna il Cristo: amerai il tuo prossimo come te stesso, ma non dimenticare mai che è un altro.
ANTONIO MACHADO.

«Prossimo, infatti, è ciò che differisce «inesorabilmente» da noi. Prossimo è soltanto ciò che possiamo concepire come avente un proprio carattere e un proprio luogo distinti dal nostro carattere e dal luogo che noi occupiamo. L’ansia di eliminare la distanza non produce comunità, ma, all’opposto, ne dissolve la stessa idea. Può produrre comunità, invece, soltanto uno «sguardo» che custodisce l’altro nella sua distinzione, un’attenzione che lo comprenda proprio sulla base del riconoscimento della sua distanza. L’intelligenza del prossimo non consiste nell’afferrarlo, nel catturarlo, nel cercare di «identificarlo» a noi, ma nell’ospitarlo come il perfettamente distinto». L’altro è il prossimo da amare. Ma l’amore come arma, strumento e modalità conoscitiva è più che un sentimento: «amore non vuol dire amare». L’amore del prossimo consiste nel riconoscimento di una situazione critica e nella disponibilità a farsene carico. Il linguaggio non religioso chiama ciò «responsabilità». Tra etica della convinzione ed etica della responsabilità a costituire compito è ormai quest’ultima.

E’ il “comandamento nuovo” che umanizza e dà un significato universale a tutti gli altri che, se assunti nella loro pienezza, convergono verso questo appello unitario. Esso esprime la rottura più importante compiuta da Gesù rispetto al giudaismo: la logica della religione dei Padri si apre a una dimensione “altra”, segnando il passaggio dalla Legge mosaica alla legge dell’Amore, come presenza di Dio nella storia. Ma a chi mi faccio prossimo? E’ possibile oltrepassare la solitudine del singolo per aprirsi all’altro? Un comandamento difficile e quasi sempre smentito: si può non praticarlo, ma non si può negarlo e non riconoscere che ha cambiato alla radice la storia dell’uomo.

Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, ha insegnato Teologia biblica nell’Università San Raffaele di Milano e collabora con “La Stampa”, la “Repubblica”, “Avvenire” e la rivista “Jesus”. Tra i suoi testi, che coniugano spiritualità cristiana e cammini di umanizzazione, ricordiamo i più recenti: “Il pane di ieri” (2008), “Ogni cosa alla sua stagione” (2010), “L’altro siamo noi” (2010), tutti pubblicati con Einaudi e “Una lotta per la vita” (San Paolo, 2011).

Massimo Cacciari insegna Estetica nella Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Tra i libri che ne hanno più segnato la ricerca: “Krisis” (Feltrinelli, 1976), e pubblicati con Adelphi, “Icone della legge” (1985), “Dell’Inizio” (1990), il dittico europeo “Geofilosofia dell’Europa” (1994) e “L’Arcipelago” (1997), infine “Della cosa ultima” (2004) e “Hamletica” (2009). In questa stessa collana ha pubblicato con P. Coda “Io sono il Signore Dio tuo” (2010).

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Leggere anche MASSIMO CACCIARI, LUCIANO CANFORA, GIANFRANCO RAVASI, GUSTAVO ZAGREBELSKY, La legge sovrana. Nomos basileus (a cura di IVANO DIONIGI), RIZZOLI 2006

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Il corpo della voce e la voce del corpo

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Giovedì 22 marzo 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (367): Leggere CARLO SERRA, La voce e lo spazio. Per un’estetica della voce, IL SAGGIATORE

Carlo Serra è autore di una Filosofia della musica (1991), edito da Guerini e Associati, ma reperibile anche in formato digitale.
Il Saggiatore ha dedicato al libro La voce e lo spazio un’area web.
Come la voce racconta il mondo circostante: questo è il tema del libro. Voce come richiamo che attraversa lo spazio e accompagna la caccia dei pigmei, che porta dal «qui», il centro del villaggio, luogo di riconoscimento di una comunità, al «là», spazio ignoto, lontano, dove si muovono le prede. Voce del vento, come nella cultura mongola, che trasfigura l’orografia dei luoghi in un paesaggio simbolico scosso dalla metamorfosi della materia, dove l’acqua può trasformarsi in pietra e il canto in diplofonia. Voce di morte e di godimento, quella delle sirene, che allevia e smarrisce, seduce e uccide il viaggiatore. Suono che accarezza, quello dell’auleta, o voce che scortica, come nel mito di Marsia. La voce e lo spazio: voci disperse nel mondo e voci racchiuse, che proteggono luoghi e corpi, come accade nella cultura eschimese, dove abbraccio e polifonia narrano la nascita del tempo. Il rapporto che stringe la voce allo spazio si esprime in una serie di immagini che raccontano il modo in cui ogni cultura, attraverso il suono, s’appropria del mondo. Ogni forma di vita elabora la propria visione della materia vocale, della sostanza fonetica con cui narra la propria storia, creando tecniche di emissione del suono dove si annida un’interpretazione simbolica della natura. Gli oggetti si trasformano in suono, la loro presenza si espande nello spazio. I canti di gola intrecciano relazioni, la voce racchiusa in una tazza abita il mondo, l’imitazione del mondo animale accompagna oltre la morte. 


 

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Cosa farò da grande

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Domenica 18 marzo 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (366): Leggere GUSTAVO PIETROPOLLI CHARMET, Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli, LATERZA 2012

Gli adolescenti in crisi si preoccupano più del futuro che del loro passato. Non è l’infanzia ma la crescita ciò che li fa più soffrire. Il compito di tutti noi è quello di restituire loro dei futuri possibili.

«Il futuro di cui discuterò in queste pagine non coincide esattamente con il significato che gli attribuiscono psicosociologi, economisti, giornalisti e politici: la dimensione futura che cerco di indagare è di ispirazione psicoanalitica, è l’idea di ciò che auspicabilmente si riuscirà ad essere e fare in un tempo detto futuro. L’autentico desiderio potrà esprimersi ed essere realizzato nella misura in cui si saranno sviluppate le competenze necessarie. Parlerò quindi del progetto di crescita, di cambiamento, di realizzazione di ciò che si avverte come parte più autentica del sé, discuterò della fantasia concernente la propria evoluzione verso la pienezza delle capacità di amare e di farsi amare, di lavorare creativamente ottenendo il legittimo riconoscimento economico come espressione concreta dell’essere riusciti a rendersi socialmente visibili dopo la lunga fase di dipendenza dalla famiglia di origine. Proprio perché il futuro è sinonimo di crescita della parte più autentica di se stessi e promette la prosecuzione verso l’alto del processo di conoscenza delle proprie verità, vederlo appannarsi e sparire nelle nebbie di un contesto sociale, economico e culturale che si schiera contro la sua realizzazione, colpisce al cuore il sistema motivazionale e crea un lutto doloroso: assieme al futuro muore la speranza, l’autenticità, il piacere di vivere per crescere e diventare se stessi».

INDICE
1. Sottrarsi alla tirannia del passato
Soffrire di ricordi
Il fascino del “tempo passato”
La sete di futuro
Bruciare le tappe
Socializzare precocemente
Effetti e difetti della cultura generazionale
La scuola non insegna il “tempo futuro”
2. Il ruolo della famiglia
La madre
Il nuovo padre
Nonni, nonne… e avi
Ancora sul nuovo padre: esempio e testimonianza
Il vecchio padre etico
Fratelli e sorelle
3. La morte del futuro…
Moderne Cassandre e nerissime profezie
Una questione di invidia
Il dolore e le sue strategie
Intrappolati in un eterno presente
4. … e le sue cause
L’odio per il nuovo corpo
L’assenza di nuovi modelli educativi e la sottocultura dei media
Legami simbiotici
Il legame di coppia
5. Ostacoli da superare, fallimenti da evitare
Quando ci si sente inadeguati
Quando ci sono troppi Sé a decidere
Futuro autentico oppure nulla
Alcuni quadri clinici
Conclusioni


La mente adolescente che crea e che distrugge


 

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