Il desiderio

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Mercoledì 25 gennaio 2012

Contributi a una cultura dell’Ascolto
CAMMINARSI DENTRO (339): Il desiderio

Estratto da un’intervista a Michel Foucalt sulla nascita dell’Ermeneutica del soggetto e sul passaggio dal concetto di Piacere nell’Antichità classica a quello di desiderio nel primo periodo cristiano.

In un articolo datato 16 aprile 2008, intitolato Un’etica del desiderio indistruttibile, assumevo il desiderio stesso come primum assoluto, radice di ogni facoltà e volontà, a partire dall’espressione di Lacan «L’unica colpa di un soggetto è di cedere sul suo desiderio»! Come se il punto di intersezione tra desiderio e linguaggio – è quello che pensavo da anni – valesse ad indicare l’origine dell’individuo, la sua ‘nascita’.

Un primo contributo di chiarezza è venuto da Roberta De Monticelli che ne L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire dedica al tema una Digressione sul desiderio

Questa felicità del consentire, nella quale il riconoscimento dell’altro e la riconoscenza nei suoi confronti è immediatamente anche un sì a se stessi, un gioioso sì a una nuova o rinnovata parte di sé, è indubbiamente un enigma, oltre che un dato così noto a ciascuno. Un dato che ha tanto colpito da essere sempre registrato: ma troppo spesso in modo distorto. Cosa felice è l’amore, ma perché è felice, anche se quasi sempre è fonte di sofferenza a causa della minaccia costante cui la vita e la felice realizzazione dell’altro è soggetta? Ed ecco che, per spiegare questo enigma, si è erroneamente identificato l’amore con il desiderio, cioè non con la rivelazione di un maggior essere – ovvero la manifestazione, nel risvegliarsi di strati non ancora o non più desti di sensibilità, di un proprio potenziale di vita, conoscenza e azione che si ignorava di avere. Non dunque con quello che l’amore è. Ma con il suo contrario: con la pervicace, sinuosa, fastidiosa oppure esplosiva assenza d’essere, quale si manifesta nel modo della tendenza, cioè dell’appetito, del desiderio: bisogno, domanda, fame, libido, tensione al soddisfacimento, pulsione. La felicità non sarebbe che la speranza o l’attesa della soddisfazione del desiderio, e in questo modo sarebbe anzi il desiderio stesso che si leva. Eppure questa sembra una negazione dell’evidenza. Il desiderio insoddisfatto, e tutto quello che si porta dietro – inquietudine, preoccupazione, ansietà, affanno, brighe, conflitti – sembra il contrario esatto del felice consentire.
Il desiderio – questa eterna obiezione a consentire veramente all’esistenza altrui e alla propria, quest’obiezione costante alla gratitudine. Questa vera radice degli infiniti negoziati e delle infinite guerre di acquisizione che bisogna attraversare prima di consentire, e il più delle volte infelicemente, obtorto collo, al proprio essere. Questa sola radice di invidia, gelosia – o, al meglio, emulazione e competizione. Questo polo, nella vita affettiva, opposto a quello del sentire, sempre pronto a contendergli energia vitale. Questo vettore di tendenza e azione che può affinarsi e più si affina, più, forse, ci rende infelici, quando esaurite le attrattive dell’avere, si volge all’essere. Il desiderio, anche il desiderio d’essere – quello che non si è, che non si è ancora, che non si è più, o che non si è nel tempo – è perenne dissenso con se stessi e perenne obiezione al sì della gratitudine. Nella quale infine si riassume il felice consentire a sé solo attraverso un altro, quando uno rinuncia a «salvare» la propria vita e «salva», in quel caratteristico modo che ciascuno forse conosce, la riceve dalle mani di un altro. Nella gratitudine è l’essenza della beatitudine.
Il desiderio – bisognerà cominciare a scalzare questo falso iddio dal suo trono, se vorremo fare un po’ più di luce sui fenomeni della vita affettiva, e sulle ragioni della nostra insipienza e ordinaria infelicità. non è impresa da poco, sullo sfondo della nostra tradizione, anche della migliore. Questo trono, infatti, non è solo quello forse modesto della vulgata psicoanalitica, è forse anche quello maestoso e in certo modo terribile di Agostino e del desiderio d’essere, del suo… feroce amore.
Non si intenda quindi questa pagina nel senso di una svalutazione di eros, del suo splendore e del suo valore, anche nel senso più corrente di amore fisico. Il «desiderio» di cui qui parliamo è piuttosto l’elemento tendenziale di tutta l’affettività, che ha modi e forme estremamente vari – e che non noi, ma una tradizione rimasta assai influente dopo Freud ha tentato di ricondurre alla sessualità da un lato, e di erigere a fondamento stesso di tutta l’effettività dall’altro. Agostino, che non condivide certo il primo punto, con la sua concezione dell’amor come pondus o forza gravitazionale della creatura invece condivide in certo modo il secondo.

ROBERTA DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, GARZANTI 2003, pp.176-177

 La scoperta occasionale di alcuni saggi pubblicati da psicoanalisti in rete mi ha riportato da qualche mese ad approfondire il punto di vista analitico in materia di dipendenze.
Tutto è iniziato con i saggi di Fagnani.
Poi ho scoperto Recalcati, che mi ha condotto a un sito lacaniano in cui ho ritrovato il gioco del Fort/Da, rappresentazione emblematica della condizione umana: ciò che c’è di più originario in noi non è il desiderio, come è stato affermato in altra parte del sito lacaniano (nel saggio decisivo di Moreno Manghi, Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan):

l’errore è voler dedurre tutto dal desiderio considerato come un elemento puro dell’individuo – dal desiderio con quel che comporta come contraccolpi, soddisfazioni e delusioni (Lacan, Seminario IV, 106)

Ho evidenziato il testo con carattere corsivo e neretto, per accentuare ed enfatizzare l’importanza di questo giudizio, espresso dallo stesso Lacan. Manghi prosegue così:

«Al contrario della prospettiva educativa, per Freud non c’è all’origine un desiderio “puro” a cui la legge imporrebbe poi delle frustrazioni che ne ridurrebbero le pretese adeguandolo alla misura del possibile: ma il desiderio ha origine proprio dalla Legge che impone la rinuncia, e se il desiderio, die Begierde, in Freud è degno del suo nome, è proprio perché non rinuncia mai, ma anzi permane irriducibilmente proteso alla ricerca dell’impossibile, al di là di ogni possibile frustrazione».

Nella sezione Clinica del sito lacan-con-freud si legge: 

La psicoanalisi, in quanto freudiana, riconosce tre grandi strutture della clinica: LA NEVROSI, LA PSICOSI, LA PERVERSIONE, ciascuna determinata dal modo in cui il soggetto evita di confrontarsi con la castrazione, ossia, rispettivamente: la Verdrängung (“rimo- zione”), la Verwerfung (“preclusione”) la Verleugnung (“rinnegamento”).
Rimane aperta l’esplorazione della struttura clinica della “psicopatologia precoce” (autismo e handicap della prima infanzia), e la questione di veri-ficare se l’anoressia, la “tossicodi- pendenza”, e più generalmente i co-siddetti “nuovi sintomi”, corrispondano effettivamente a delle strutture cliniche a se stanti o non siano delle (tras)for- mazioni sintomatiche comunque ricon- ducibili alla nosografia freudiana “classica”.


Proprio oggi è in uscita l’opera di MASSIMO RE- CALCATI, Ritratti del desi- derio, RAFFAELLO CORTI- NA EDITORE, pagine 190, € 14,00.

INDICE
PARTE PRIMA – GALLERIA DEL DESIDERIO
Ritratti del desiderio
L’esperienza del desiderio
Primo ritratto: il desiderio invidioso
Secondo ritratto: il desiderio dell’Altro
Terzo ritratto: il desiderio e l’angoscia
Quarto ritratto: il desiderio di niente
Quinto ritratto: il desiderio di godere
Sesto ritratto: il desiderio dell’Altrove
Settimo ritratto: il desiderio sessuale
Ottavo ritratto: il desiderio amoroso
Nono ritratto: il desiderio puro o il desiderio di morte
Decimo ritratto: il desiderio dell’analista
PARTE SECONDA – IL MIO LACAN
Breve ritratto di Jacques Lacan
I paradossi del desiderio
– Il mio incontro con Lacan
– Non cedere sul proprio desiderio
– Tacere l’amore
– Leggere Lacan
– Desiderio e godimento

Dall’intervista da lui rilasciata il 18 gennaio, in cui segue il testo integrale dell’intervista rilasciata a Luciana Sica e comparsa su la Repubblica del 17 gennaio, emerge che 

il desiderio non è semplicemente la tensione verso l’oggetto desiderato ma è la forza che “apre” l’universo di senso che ci costituisce. Quell’universo “impossibile” che è l’inconscio Reale. L’inconscio in quanto in-conoscibile che ci “abita” e ci plasma prima di qualsiasi articolazione rappresentativa che contempli l’essere.


 

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Il nostro compito

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Martedì 24 gennaio 2012

CAMMINARSI DENTRO (338): Il nostro compito

Che si trat- tasse di mani capaci di sol- levarci al di sopra dell’im- mortale volga- rità umana non c’era al- cun dubbio.
Che quelle mani, poi, fossero più leggere di ali d’angelo era nei nostri voti.
Che addirittura l’anima, librata in volo, potesse riposare finalmente pacificata nella più eterea e impalpabile regione del cielo ci era stato annunciato da viandanti esperti di quelle regioni.
Resta solo il dubbio che si tratti del crepuscolo della sera o del crepuscolo del mattino. Provvederanno, in ogni caso, le ali fornite da tutti coloro che ci amano a lenire il dolore dei nostri dubbi. Abbiamo imparato a non interrogare più il cielo e a sfidarlo con la nostra incredulità. A quelle mani soltanto occorre dire finalmente sì. L’attesa è finita.

Si potrebbe anche dire che per quanto dolorosa sia l’esperienza dell’abbandono va vissuta con dignità, con un sentimento adulto delle cose: non costituisce soltanto una prova di ciò che chiamo ‘esatto sentire’ – cioè della ‘necessità’ di corrispondere con strumenti adeguati alla sfida della realtà – l’accettazione del mero dato di fatto, senza ulteriori tentativi di rilanciare l’illusione che possa esserci concessa un’altra chance. L’elaborazione della nuova condizione non richiede il lavoro della memoria o la cura dei contenuti di pensiero, per intervenire sulle emozioni e trasformarle in altra cosa da quello che sono. Lo stesso sentimento non può essere manipolato a proprio piacimento, dopo aver sentito, cioè percepito le qualità di valore positive di una persona per qualche decennio. Ciò che ha avuto ai nostri occhi pregio non può essere trasformato nel suo contrario, per non soffrire!

Il bello è proprio questo: se prima abbiamo sofferto per non essere stati a lungo ricambiati, ora bisogna soffrire per vivere con dignità e fierezza l’abbandono! Altro non è dato fare. In mancanza di riconoscimenti, non disponiamo di un interlocutore disposto a sostenere ancora la parvenza di dialogo che non c’è più.
Il conflitto permanente e la litigiosità, infatti, non sono la migliore riprova del fatto che nessuna intesa è più possibile? E se ci troviamo di fronte a una intransitabile utopia, perché immaginare che di altro di tratti?
Il beneficio d’inventare non ha più efficacia sull’altro. Metafora e allegoria non funzionano più. Resta lo spirito di litote a sostenere il compito eroico di trasformare la ferita d’amore in punto di innesto per nuove ali, giacché si tratta proprio qui di sollevarsi al di sopra del quotidiano affanno e del vano sproloquiare insieme su ciò che poteva esser fatto e non è stato più fatto da anni. Al culmine dell’incomprensione, niente corrisponde più a ciò che abbiamo vissuto.
In presenza della rinuncia alla metafora, la dura realtà delle cose – quando siamo stati privati della nostra trascendenza nella percezione che l’altro ha di noi – ci vede cosa tra le cose, non più presenza, vera presenza. Nessuna ek-stasis è più possibile.

Il linguaggio deve attenersi scrupolosamente alle mutate condizioni della comunicazione. Se ancora di più occorre inchinarsi di fronte alla realtà, sarà ora per ringraziare del bene ricevuto e fare del lungo addio da consumare un’occasione per non trasformare la gratitudine e la riconoscenza in vuoto rito esteriore: meglio assentarsi allora, abbandonare la scena frettolosamente, per nascondere sentimenti che siano diversi da quelli che vado descrivendo. Perché il sentimento in noi che resta privo del suo ‘oggetto’ non arrivi a misconoscere la realtà del soggetto che vi corrisponde è importante che ‘non tremi il cuore’, che la voce sia ferma, da nulla appannata.

Il turbamento che pure interviene a segnare il venir meno delle file di continuità che ci hanno resi felici può far ondeggiare la nostra mente.
La sensazione – efficacemente descritta da Kafka – di ‘mal di mare in terra ferma’ è ineliminabile. Durerà fin quando è destino che duri.
L’ordine del cuore è scosso dal declino della luce.
La tonalità fondamentale del nostro umore è orientata ormai verso la tetraggine. E non è più la bella malinconia d’amore dei tempi dell’innamoramento e del tempo lungo dell’amore.
Di epicedio si tratta. Non preludio o interludio, ormai! La presenza residuale sulla scena fa parte di quel tipo di eventi che bisogna correttamente interpretare. Mentre ci inchiniamo, dobbiamo indietreggiare, come fa accortamente l’attore sulla scena, che ripetutamente si affaccia a ringraziare, per guadagnare ogni volta l’uscita di scena all’indietro. Con passi misurati e aggraziati, come si addice a chi lungamente ha occupato la scena stessa.
Resta l’eco degli applausi a frastornare ancora un po’ l’interprete, fino a che anche quell’eco si sarà spenta e le luci gli indicheranno invano la platea ormai vuota.


 

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, ora giù a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuol fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.

GOTTFRIED BENN


 

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Errante radice

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (337): Errante radice

Ho voluto inserire in questa Rubrica i post che precedono perché non li considero contributi alla riflessione e basta. Esprimo in questi giorni sentimenti antichi, che hanno accompagnato tutta la mia vita. Gli ultimi materiali – i video, che ho registrato io, degli incontri con tre sopravvissuti – sono la riprova di un interesse che è vivo in me dagli anni dell’Università. Allora mi convinsi dell’urgenza di verificare la natura del mio nome, perché sapevo di ebrei romani che si chiamano De Ritis: cercavo una radice ebraica in me. Purtroppo, sono riuscito a risalire solo fino al nonno di mio padre, di cui anche mio padre mi aveva parlato: si trattava di un ‘trovatello’, lasciato davanti alla porta della canonica… Restava da chiarire perché il Parroco avesse attribuito al bambino quel cognome. Mi sembrò suggestivo il pensiero che si trattasse di un ebreo, che si chiamava magari in altro modo, ma che indusse il Parroco a dargli un nome che ricordasse le sue ‘origini’.

Quell’esile filo in me non si è mai spezzato. Senza farne mai parola con nessuno, ho coltivato un sentimento di appartenenza che non poteva avere riscontri, e che forse era privo di fondamento nella realtà, ma che mi dava un senso della realtà del tutto speciale. Ripercorrere le ‘tappe’ dell’esplorazione della cultura ebraica, in cerca di luoghi in cui rintracciare semi si sapienza, sarebbe lungo e difficile ora, perché si tratta di un cammino che dura da oltre quarant’anni. Mi basta l’approdo rappresentato di un’immagine trovata in Cacciari: errante radice. E’ un’espressione potente, che riassume un ‘paradosso dell’esperienza’. A parte, la ‘matrice’ ebraica da cui essa proviene, rende con efficacia unica l’idea di un consistere ben saldo – pur sempre di radice parliamo! -, che non trova il suo approdo e il suo compimento in un dove definitivo. Stare qui è bello, ma siamo sempre chiamati altrove. Abbiamo dato un nome alle cose, ma non possiamo smettere di cercare le ragioni che spingono i nostri ‘vicini’ a cercare ancora. In esodo dallo spirito del tempo – nave senza timoniere, ormai! -, vorremmo consistere in un terra senza confini, o con confini labili, privi di filo spinato e di soldati, ormai inutili perché coloro che abitano di qua e di là hanno trovato le ragioni necessarie per rendere omaggio alla terra, senza la capacità di ricordare i torti subiti e preoccupati solo di essere fedeli alla terra.
Se ogni Patria è Patria per qualcuno, è urgente imparare a sentire che viviamo sotto un unico cielo e che, per quanti sforzi faremo, non riusciremo mai a diviverlo, per ritagliarne una fetta solo per noi!


 

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Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah nel Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Sora

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (336): Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah nel Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Sora

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Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah: PIERO TERRACINA (Sora, 10.12.2007)

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Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah: SAMUEL MODIANO (Sora, 15.1.2008)

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Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah: SHLOMO VENEZIA (Sora, 12.2.2008)


 

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Cercavo te nelle stelle

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (335): Cercavo te nelle stelle

Cercavo te nelle stelle / quando le interrogavo bambino. / Ho chiesto te alle montagne, / ma non mi diedero che poche volte / solitudine e breve pace. / Perché mancavi, nelle lunghe sere / meditai la bestemmia insensata / che il mondo era uno sbaglio di Dio, / io uno sbaglio del mondo. / E quando, davanti alla morte, / ho gridato di no da ogni fibra, / che non avevo ancora finito, / che troppo ancora dovevo fare, / era perché mi stavi davanti, / tu con me accanto, come oggi avviene, / un uomo una donna sotto il sole. / Sono tornato perché c’eri tu.

11 febbraio 1946

Questa poesia è dedicata a una donna, Lucia Morpurgo, compagna di tutta la sua vita, che Levi sposerà l’anno dopo.


 

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Ricordare Hannah Arendt

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (334): Ricordare Hannah Arendt

Non ho mai dubi- tato che ci dovesse essere qualcuno co- me Lei, ma ora Lei c’è realmente, e la mia gioia straordi- naria per questo durerà sempre. – Lettera di Ingeborg Bachmann a Han- nah Arendt, 16 ago- sto 1962


 

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A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione.

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (333): A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione

Ricordare Simone Weil


 

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Devi saper sopportare il dolore

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27 gennaio 2012 – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (332): Devi saper sopportare il dolore

Da una lettera di Etty Hillesum ad un’amica i cui figli sono stati uccisi in campo di concentramento

Devi saper sopportare il dolore; anche se il dolore ti schiaccia, sarai capace di rialzarti ancora, perché l’essere umano è così forte, e il tuo dolore deve diventare per così dire parte integrante di te, parte del tuo corpo e della tua anima; non c’è bisogno che tu scappi da lui, portalo in te, ma da adulta. Non trasformare i tuoi sentimenti in odio, non cercare vendetta a spese di tutte le madri tedesche, perché anche loro soffrono per i loro figli trucidati ed uccisi. Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bellla e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio.

Poco più di un anno dopo aver scritto queste parole Etty stessa morirà ad Auschwitz, a 29 anni.


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Il Protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, fu decisa la ‘soluzione finale’.

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (331): Il Protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, fu decisa la ‘soluzione finale’

(dal quotidiano la Repubblica del 5 gennaio 2012)
«BERLINO – Esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista (Nsdap) e dell’ammi- nistrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Per decenni, è stato custodito come documento storico negli archivi dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri tedesco. Il documento fu trovato per caso, dopo la disfatta dell’Asse, da ufficiali delle forze armate americane, e consegnato ai giudici del processo di Norimberga, la grande istruttoria degli Alleati contro i criminali nazisti. Fu più volte fotocopiato e riprodotto in testi storici e scolastici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece eccolo qui: in quelle 15 pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, pubblicate da Welt online (edizione digitale del quotidiano liberalconservatore vicino al governo Merkel) oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che spudoratamente affermano che l’Olocausto sarebbe stato inventato a posteriori dai vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati). Nossignore: tutto vero, confermato ancora una volta dalla lettura di quell’ag- ghiacciante documento.»

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Tutte le voci di un dolore che non è mai passato

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27 gennaio – Giornata della memoria

CAMMINARSI DENTRO (330): Tutte le voci di un dolore che non è mai passato

Dizionario dell’Olocausto A cura di Walter Laqueur, Collana Piccole Grandi Opere EINAUDI, pp. XXXIV – 934 – € 30 – Questo dizionario è il lavoro collettivo di oltre cento autori di undici paesi, con l’aggiunta di saggi specifici dedicati alla peculiare situazione italiana.

 

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CAMMINARSI DENTRO (329): Il volto interno

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Domenica 15 gennaio 2012

L’amore, inteso qui come sentimento rela- zionale elettivo e non solo, è un incon-dizionato consentire all’esistenza di una determinata persona non perché abbia particolari qualità ma perché è quella persona. – MARA DELL’UNTO

Secondo Vladimir Jankélévitch, «si può vivere senza filosofia, senza musica, senza gioia e senza amore. Ma mica tanto bene».
C’è da dire che non si può avere tutto dalla vita! E’ importante, allora, fare in modo che almeno la filosofia e la musica non manchino mai, perché insegnano a vivere, cioè a capire e a comprendere. La prima insegna a conoscere il mondo, la seconda aiuta a sopportare il dolore. Ma il potere più grande sul dolore proviene dalla filosofia stessa. Il bene più grande è la conoscenza.
Anche l’amore è oggetto di conoscenza. C’è chi preferisce ridurlo a bene incondizionato e autentico, come se fosse sempre così! come se bastasse ‘starci dentro’ per poter dire ‘amore’! Chi ragiona così, chi cioè si riduce a subire tutto ciò che viene dal cosiddetto amore, passerà poi il tempo a cercare invano di far funzionare ciò che dovrebbe funzionare e basta. Se l’amore non funziona, non è. E’ altra cosa. Qualunque altra cosa sia ciò che non è possibile chiamare amore non merita considerazione. Solo il Bene è degno di considerazione.
Naturalmente, ci acconciamo tutti a vivere allegramente anche in stato di cattività, ma di cattività si tratta. Possiamo anche amare per decenni una persona che passa il tempo a farci l’analisi del sangue, ma di fronte avremo sempre e soltanto una persona  dedita al controllo al microscopio della presenza di granelli di polvere sulla nostra giacca per accertarne la provenienza.
La stupidità uccide l’amore. Alla fine. Quando, dopo aver lungamente amato la stupidità di una persona e averla perdonata mille volte al giorno, si comprenderà che non ha molto senso continuare ad aspettare che essa, a sua volta, comprenda. Per definizione, gli stupidi non capiscono.
A che vale l’amore ‘cieco’, cioè non ricambiato? Ci affanniamo a spiegare, spiegare, spiegare; giustificare, giustificare, giustificare… Gli errori si pagano, e si pagano con prezzi sempre molto alti. Chi è convinto che non si possa mai dimenticare fa coincidere con l’impossibilità di dimenticare l’impossibilità di perdonare, come se perdonare comportasse di necessità anche dimenticare.
Mai nessuno ha teorizzato l’impossibilità del perdono. La sua possibilità dipende dalla nostra capacità di donare ancora tempo e vita e racconti. E questo non significa, nello stesso tempo, dimenticare.
Se il perdono fosse facile, tutti lo chiederebbero e lo otterrebbero rapidamente, senza fatica. Basterebbe chiedere. E c’è chi lo concede facilmente. C’è chi sopporta tutto senza mai chiedere risarcimenti per il male subito. Ma c’è anche chi è incapace di perdonare. C’è chi si porta dentro il ricordo vivo dei torti subiti negandosi all’amore. E’ forse proprio di fronte a persone del genere che non ha molto senso passare la vita ad aspettarsi un perdono che non arriverà mai, e che magari sarà reso ancor più improbabile dall’accumularsi dei fraintendimenti e delle incomprensioni che la vita ci dispensa ad ogni piè sospinto. 
Può una persona perennemente insoddisfatta e in lite con la vita aprirsi alla nostra mite presenza e riconoscere la serietà delle nostre intenzioni, la stabilità dei nostri propositi, l’autenticità dei nostri affetti? Chi è portato a perdersi sempre nei dettagli e a pretendere che tutto sia sempre sotto controllo e che tutto sia sempre trasparente e corrisponda alla propria pretesa di verità, non andrà mai all’appuntamento dell’amore con il cuore aperto.

Mara Dell’Unto descrive così 

Il volto interno dell’amore

Da quanto detto finora è chiaro che un qualche ordine assiolo- gico si instaura solo quando ci è data una possi-bilità di gioire non solo per le sensazioni piacevoli o lo stato di benessere, ma quando si attiva lo strato dei sentimenti che è ulteriore, più profondo, rispetto a quelli sensoriali o vitali. E questo diventa possibile solo quando diventiamo capaci di sentire il valore assoluto di un’altra esistenza come tale; solo allora si attivano gli strati più profondi dell’affettività, quelli in grado di cogliere le differenze di valore del reale, avviene la maturazione personale che qui facciamo coincidere con la precisione del cuore. Di norma, ciò avviene perché siamo stati per primi oggetto d’amore da parte di qualcuno e quando ciò non è avvenuto, sviluppare la capacità d’amare diventa un esercizio estremamente faticoso, spesso superiore alle nostre forze. L’amore come sentimento che attiva uno strato personale del sentire, matrice di risposte che strutturano un ethos individuale, ci introduce al nesso tra la formazione di noi e l’apertura al valore del reale. Faccio un esempio: se non si sente che il desiderio di maggior benessere economico non vale la morte di un genitore o di un coniuge, sicuramente non è stato possibile attivare alcuna strutturazione assiologia del reale e non basta derubricare questi come casi di follia. Dostoevskij in Delitto e castigo coglie il vero – come sempre, aggiungiamo – quando consegna all’assassino di una vecchia spilorcia, per mano della prostituta Sonia, il brano di Giovanni sulla resurrezione di Lazzaro: ciò che deve risorgere è la possibilità di una vita personale, di una capacità di sentire che passa per l’assunzione delle proprie responsabilità, unica via di scampo da una morte per disseccamento interiore.

 

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CAMMINARSI DENTRO (328): Aprirsi a nuove evidenze

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Domenica 15 gennaio 2012

Non basta avere le cose davanti agli occhi per poter dire di aver visto. Ancor più difficile ammettere di aver compreso (accettato) ciò che si è sentito.
Tra le forme più eroiche di non accettazione della realtà c’è da annoverare senz’altro l’attitudine maschile a trovare in ogni manifestazione della propria donna una spiegazione favorevole, anche in presenza di un rifiuto secco e definitivo. Se poi si tratta di altra donna, le torsioni che si fanno subire alla lingua – e alla logica – per poter dimostrare l’indimostrabile rasentano la comicità.

Ciò che risulta più oscuro nella sua evidenza è ciò che non possiamo accettare, perché talmente inaudito e inverosimile che non se ne accetta il significato palese. L’evidenza perde i suoi caratteri di incontrovertibilità e chiarezza tutte le volte che ci concediamo un’altra possibilità, anche senza fondamento. E’ sufficiente piegare lo sguardo all’indietro, per riandare all’evento che ci convince dell’assurdità di ciò che ci si para davanti agli occhi oggi. E se tra le cose passate ormai ce n’è una di cui siamo assolutamente certi, ci imbarchiamo in dispute imprudenti e insistenti che dovrebbero mirare a far ammettere che le cose sono andate esattamente come fa comodo a noi.

Ormai non ha più senso stare a pesare e misurare il grado di verità che hanno fatti e detti, ma chi vorrà rinunciare a segnare un punto ancora a proprio favore? perché non c’è altro a cui aggrapparsi per dare respiro a ciò che agonizza e langue!

Siamo convinti del fatto che se passerà che abbiamo ragione su un punto, si riapriranno scenari positivi, si disporrà di una base nuova su cui far poggiare nuove certezze, significati condivisi… Ma il fatto è che anche dall’altra parte si combatte la guerra di civiltà che ha di mira solo l’annientamento del nemico! Nessuna concessione può esser fatta proprio perché costituirebbe un varco attraverso il quale passerebbero altre ‘ragioni’ da spendersi al mercato della riconciliazione.

Quella piazza, però, è vuota. E non c’è sportello che possa valere per farci da giudice nelle nostre controversie quotidiane. Se pure da esse dipende il seguito della nostra storia, siamo soli. In realtà, non possiamo appellarci a nessuno. Nessuna tregua invocare.

Di tutte le possibilità di azione che abbiamo di fronte ce n’è una sola che andrebbe percorsa sempre. E’ quella di chi arretra, si astiene, resta in silenzio a contemplare lo spettacolo delle macerie che si mostrano ai suoi piedi, come se la realtà si fosse coalizzata tutta per mostrarci in una sola volta ciò che ci siamo rifiutati di vedere e di ascoltare a lungo.

Apprendere dall’esperienza è la cosa più difficile. Eppure, senza cadere nella tendenza a ripetere gli stessi errori, dobbiamo contemplare lo spettacolo che si mostra nella sua dura realtà e riconoscere che di realtà si tratta.

Tra ‘verità’ e ‘realtà’ ho sempre preferito la seconda. A che vale rivendicare questa o quella verità e lasciarsi sfuggire l’occasione per una più compiuta e vera comprensione della realtà? Se la verità di un fatto non basta più per salvare una relazione sentimentale compromessa, non sarà più saggio attenersi alla realtà, anche alla realtà deformata che si è venuta a determinare e in cui non riusciamo a riconoscerci? Se accettare perfino l’inaccettabile non basterà a sostenere l’illusione che possa ricomporsi l’infranto, almeno aiuterà la conversione dello sguardo verso nuove evidenze.

Dopo ogni perdita si suole dire in modo scontato che la vita continua, ma sta a chi ha subito la perdita trovare nella realtà ragioni soddisfacenti per riprendere a vivere dignitosamente. Chi non avrà coltivato la propria anima sentirà più forte la mancanza. Coltivare la propria anima non è solo un compito morale: è anche un modo per imparare a bastare a se stessi, e non solo per fronteggiare il lutto e la mancanza. Ai miei alunni ho sempre suggerito l’idea che in ogni relazione significativa dovremo portare qualcosa in dote. Quando viene meno la ragione perché la relazione sussista, c’è da spendersi ancora quella ‘dote’: è importante avere in sé la possibilità di continuare a dare senso alla vita. Indipendentemente da chi pure aveva contribuito grandemente a darle senso.


 

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CAMMINARSI DENTRO (327): Der Abschied

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14 gennaio 2012

Un tempo andavo fiero del fatto di sapere che «senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati», perché intimamente convinto del fatto che io possedevo la cultura necessaria per far durare l’amore destinato a durare. 
Anche lo stare a distinguere tra amore che dura e amore che non dura era operazione che facevo discendere dalla capacità personale di alimentare la relazione amorosa e di provvedere alla manutenzione degli affetti con abilità e competenza.
Perfino la convinzione inveterata che «bisogna rendersi degni di essere amati» è stata opportunamente abbandonata da me, a vantaggio di una più produttiva tendenza ad affidarmi al Caso, ai volubili capricci della fortuna: non è forse vero che anche le persone più abiette (per noi) ricevono amore, e talvolta sono quelle più fortunate?

C’è un tempo anche per l’amore, e il suo tempo si misura quando se ne conosce la fine. E’ importante anche fissare la data, se interviene la sanzione che di 13 gennaio si tratta e non di un altro tempo e di un’altra vita.
Naturalmente, c’è lo strascico, che non è il lungo velo della sposa che spazzola la strada che conduce alle prime tappe della felicità. Di un altro strascico si tratta. Il mondo preferisce dire al plurale, perché è umano che si accavallino ragioni su ragioni, per fare luce e rivendicare verità, ma soprattutto per rimettere insieme cocci che non combaciano più.

Gli antropologi raccontano i modi bruschi che prevarrebbero quando interviene una rottura nella relazione più importante della vita delle persone, a segnare un’incapacità  che deriverebbe forse da un’inadeguata educazione sentimentale.

Il ‘rifiuto’ assume la forma che Freud ha riassunto in una parola: Versagung. Non ‘frustrazione’ né ‘privazione’ o ‘castrazione’: più correttamente, io preferirei tradurre in modo non tecnico il termine con rifiutarsi di (rinunciare). Propriamente, il sostantivo tedesco allude a un uso riflessivo che è possibile scegliere tra i vari significati di Versagung: rifiutarsi di. E di che cosa mai ci rifiuteremmo nel corso di tutta la nostra vita se non di ‘rinunciare’, di astenerci dal cercare ancora, ma soprattutto di illuderci che ciò che era destinato a durare ancora non ha cessato di rappresentare per noi una ragione di vita in più?

Nell’incrocio tra due vie del cuore non scegliamo sempre quella che ci fa durare ancora, non importa se nella sospensione calda dei giorni e delle ore in cui la presenza che non è più tale noi cerchiamo di far durare ancora? E riusciamo a far durare il sentimento che dà voce e corpo per noi a quella presenza! Ma essa non è più vera presenza. La sua ek-stasis mondana non è più protesa a realizzare un nostro significato. Il cielo si è fermato. Inutile cercare di imprimere alle stelle più lontane un moto che si rifiutano di esprimere. Non si ode più palpitare in lontananza un cuore per noi. Siamo nell’infranto.

C’è un altro modo, però, di rifiutarsi di rinunciare a chi lungamente si congeda da noi senza dire arrivederci! ed è un modo mite e sereno. Occorre grazia – l’arrendevolezza della fantasia – per arrivare a congedarsi opportunamente e in modo non brusco: la parola più appropriata, che torna a visitare i miei giorni, è Entsagung, che significa sì ‘rinuncia’ ma che non è improvviso distacco e abbandono. E’ come un lungo addio alla terra, che è canto, non lamento o grido trattenuto.
Magari, nella solitudine ovattata delle proprie stanze si avvertirà la presenza di «cose che si odono piangere sommessamente e che si nascondono agli occhi della gente», ma si tratta solo di un’eco restituita dalle cose che ricordano ancora i giorni felici.
Si tratta di decidere se far durare questa voce a lungo ancora o lasciarsi sedurre dal richiamo di altre voci, come spesso accade al mondo e ai suoi giorni.
Noi non lasceremo che la porta, che abbiamo lasciato aperta, si richiuda perché i freddi venti invernali sferzano il viso o perché non giunge risposta all’eco lontana della nostra voce. Non abbiamo aperto il nostro cuore per una sola stagione.


 

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LA CULTURA DIGITALE (1): Il colore

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[Post in progress]

Giovedì 12 gennaio 2012

«Si chiama Pantone [in Wikipedia] la lingua universale e condivisa del colore. È un sistema di codici creati da Pantone Inc. negli anni ’50: ormai sono uno standard internazionale e, per molti versi, un’istituzione. Le mazzette Pantone si sfogliano come un vocabolario composto da 5000 colori».
Si apre così l’articolo IDEE 18: PANTONE, TUTTI I COLORI DEL MONDO del sito NU Nuovo e Utile – Teorie e pratica della creatività.
In verità, in fondo ai Commenti si legge 

I colori Pantone sono nati come campionature di colori da stampa tipografica. Il passaggio da una tinta all’altra è stata ottenuta, in origine, in peso percentuale del pigmento. Questo vuol dire che, nonostante la gamma di 5000 tinte, il passaggio da una tinta all’altra non è armonico. Inoltre mancano totalmente gli intorni chiari e gli intorni scuri. Anche la gamma RAL è molto limitata. L’occhio umano è in grado di distinguere circa 30.000 colori in base ai parametri di croma, saturazione e luminosità. Ad oggi il miglior sistema di classificazione e campionamento cromatico resta il Munsell, che ha diretti corrispettivi nel sistema CIE L*a*b* per la misurazione strumentale del colore. Il Pantone gode di un ottimo marketing e, come al solito, vince la mediocrità rispetto all’eccellenza. Se vi capita provate a confrontare due mazzette dei colori Pantone o le tacche con i fogli 50×70 con lo stesso codice e potrete verificare quanta approssimazione c’è in questo sistema. Rodolfo

Andremo a studiare anche il metodo Munsell.
A proposito di gamma RAL, poco prima un altro Commento si esprime così 

PANTONE IN STAMPA
Una piccola nota, magari superflua: i colori Pantone sono meravigliosi per la stampa di colori “piatti” cioè a tinta unita, per la stampa in quadricromia già le cose si complicano un pò perché quei bei colori saturi e nitidi si spengono un pò grazie o a causa della loro riproduzioni attraverso i retini (punti) con i tre colori di stampa (Ciano, Magenta, Giallo) + il nero. Per i colori e le vernici industriali si usa più comunemente la paletta RAL http://it.wikipedia.org/wiki/RAL_(scala_di_colori) –  walter

Il link alla voce corrispondente di Wikipedia è sufficiente, per ora.


Leggere
Della teoria dei colori di Goethe 


 

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LA CULTURA DIGITALE (0): Relazioni digitali – Verso una nuova socialità?

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11 gennaio 2012

Intervista di FABIO GAMBARO allo studioso Antonio Casilli, che ha pubblicato in Francia un saggio – Les liaisons numérique, Seuil, pp,331, € 20 – dove smentisce molti luoghi comuni sull’universo informatico


RELAZIONI DIGITALI
“Amici e nuovi legami.
Internet aumenta il capitale sociale”
la Repubblica 10 gennaio 2012 

 

PRIVACY
Più che finita, la privacy oggi, con l’avvento dei social network, è diventata “mobile”: va rinegoziata di continuo.

CAPACITA’ COGNITIVE
Per Casilli, l’informatica è un prolungamento delle mnemotecniche: i computer sono una estensione della memoria e non una minaccia

SOCIALITA’
Il web non desocializza gli individui: strumenti come Facebook permettono di entrare in contatto con ambienti altrimenti preclusi. 


 

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