L’attitudine all’improvvisazione si sperimenta in sommo grado nel colloquio di motivazione, dentro la relazione d’aiuto. E’ stato Cacciari a parlare di arrischio della relazione, per significare che siamo esposti, giacché ne va della nostra ‘credibilità’, dell’autorevolezza della nostra parola. Quando noi parliamo, siamo ‘preceduti’ da tutto ciò che ci precede: ogni volta che abbiamo parlato alla stessa persona abbiamo contribuito a fare storia, a intessere una trama che andrà a costituire poi la filigrana dei ricordi dell’altro. Dobbiamo costituire materia di ricordi, ‘pre-testi’ e impliciti per i discorsi che verranno, utili presupposti di cui tener conto come significati su cui sia stato raggiunto un accordo. La quotidiana negoziazione dei significati da attribuire alle cose è materia vitale per la relazione d’aiuto. In essa, nondimeno, varrà la regola dell’accordo da raggiungere, perché ad ogni colloquio si inizia con un sacro timore: per affrontare la terra incognita che ci si para davanti e che è fatta dal silenzio dell’altro, che attende, e dall’invisibile da cui ‘proviene’, occorre varcare la soglia della speranza, accedere all’universo di senso di ciò che è comune e che attende di essere evocato, richiamato alla memoria. Ogni volta di nuovo, è urgente trovare le parole che valgano a dire se vale la pena o no consistere nello stesso spazio e sentire la stessa cosa, non importa se con la stessa tonalità emotiva. Istituire file di continuità è già un approdo, se raccontare l’altro sarà accettato e vissuto come compiuto riconoscimento e dono. L’incanto delle cose è in questo in armonia a cui ogni persona aspira. Essere presenti con la mente e con il cuore nello spazio di un’ora è gesto di grande responsabilità. Questa presenza all’altro viene immediatamente percepita e sentita come vera presenza. E’ un essere-per-l’altro che contribuisce a generare lo spazio linguistico in cui l’altro potrà oscillare liberamente tra progetto e destino, sempre proteso a cogliere il significato della propria esistenza che si fa nel momento della parola. E’ sempre un modo per aiutare a sentirsi amati. E’ il prendersi cura che tutti conosciamo, perché da lì proviene l’attaccamento alla vita, il sentimento del tempo, la sensazione di esistere.
PROGETTO E DESTINO: il «diventa ciò che sei» pindarico e la sua scomposizione nel campo psicoterapeutico
Si tratta di «AIUTARE I SINGOLI A DIVENTARE QUELLO CHE SONO», facendo bene attenzione al cambiamento che subisce il ‘campo’ sul quale si esercita l’azione terapeutica, in quanto la formula da cui siamo partiti si moltiplica nelle altre formule: «DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI».
In questo senso, occorrerà capire bene cosa implichi il motto DIVENTA CIÒ CHE SEI. Una persona deve essere aiutata a realizzare la propria natura, più che a passare a vivere quella che a noi sembra la forma di vita migliore. Allora, tornare a vivere ‘libera-mente’ significa imparare a riconoscere e ad accettare come un dato il proprio Sé. A questo deve conformarsi la vera o pretesa libertà dell’Io. Ogni eventuale integrazione o «riparazione» del proprio nucleo originario non comporterà mai un mutamento sostanziale o un annullamento di quella parte di sé che «non piace». Su questa base teorica e metodologica l’asserto di partenza si potrà chiarire, allora, con le espressioni popolari «SII TE STESSO», «NON TRADIRE TE STESSO». La fuoriuscita dalla tossicodipendenza coinciderà, per il resto della vita della persona, con l’accettazione del proprio DESTINO.
DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», ovvero la possibilità del mutamento. L’esperienza ci ha insegnato che il PROGETTO supera il destino quando si avverte come possibile la trasformazione della propria vita sotto la spinta di mete ideali, per quanto esse siano arginate dal principio di realtà. L’utopia, l’esodo, la speranza non sono esiti negati dalla psicoterapia. Rispetto al «diventa ciò che sei», il «diventa ciò che non sei» non si pone come opposto che lo esclude ma come elemento complementare. Si tratta di far interagire ‘libera-mente’ i due momenti nella relazione terapeutica, orientando l’ascolto nella direzione suggerita dalle modificazioni che intervengono nel ‘campo’ e dai ‘punti di resistenza’ che affiorano.
NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI» o della liberazione limitata dai condizionamenti. Sia i condizionamenti naturali che i condizionamenti culturali costituiscono una determinazione che occulta una natura più originaria che non possiamo escludere di poter realizzare nel corso della nostra vita. Non saremo noi a suggerire all’utente questa meta come senz’altro desiderabile, in quanto essa si mostrerà spontaneamente e in forme imprevedibili nello spazio terapeutico. La problematicità di quest’ultimo decide sul corso che prenderanno le cose. L’altro si dislocherà ‘libera-mente’ sotto la guida accorta dell’operatore.
NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI: fedeltà al dato originario e perseverazione nella libertà finita. Solo apparentemente siamo ritornati al primitivo «diventa ciò che sei». In realtà, il progetto (diventare) si adegua al destino (ciò che sei) con un movimento che potremmo dire centrifugo, mentre nella forma originaria il movimento è, per così dire, centripeto. Qui si ammette la possibilità di diventare «altro», pertanto di assumere forme, norme, stereotipi e modalità forniti dai modelli storici diffusi in una determinata cultura, e questa possibilità è assunta come rischio di fuga da sé, come pericolo di infedeltà al dato originario. Tuttavia questa possibilità, per quanto astratta, comporta quella libertà senza la quale ogni imperativo non avrebbe senso. Si tratta di una libertà finita, una libertà che si esercita all’interno di condizioni sia pure non del tutto necessitanti. La possibilità di essere se stessi assume valore proprio perché viene preservata questa libertà finita. L’altro oscillerà ‘libera-mente’ dentro la personale dialettica libertà-necessità.
La scomposizione in quattro momenti, a partire dalla formula di partenza, è tipica della fondamentale problematicità che dischiude dinanzi a noi il campo psicoterapeutico: solo in questo spazio di incertezza costitutiva si manifestano sia le possibilità autentiche del diventare se stessi e del non fuggire da se stessi, sia i rischi fecondi della trasformazione del dato originario e del mutamento della direzione.
Brani liberamente tratti e adattati da
MARIO TREVI, Il lavoro psicoterapeutico. Limiti e controversie, THEORIA 1993
Noi non siamo psicoterapeuti, ma è interessante osservare nel tempo l’oscillazione dell’altro tra Progetto e Destino.
L’osservazione quotidiana dei comportamenti dei ragazzi, dei padri, delle madri nel Centro di ascolto riserva sempre le stesse sorprese: astratti furori, paure che non cessano mai, silenzi pensosi… Tutta la gamma di emozioni possibili sfila davanti ai miei occhi, offrendo alla riflessione occasioni preziose per riaprire con padri e madri la questione dell’educazione e quella degli affetti.
Ai padri pensierosi e stupefatti sono costretto dalle circostanze a ricordare quello che essi sanno bene: come amare un figlio di amore adulto, resistendo ai colpi della fortuna, ripetendo la formula della Legge, perché non tutto è permesso…
Alle madri che tutto debbono spiegare, perché di tutto hanno contezza e lucida memoria, è faticoso raccomandare dolcezza e tenerezza, perché provo vergogna io per primo ogni volta a dover dire loro come sia necessario dispensare carezze e sorrisi affettuosi… perché non di altro si nutre la nostra anima. Solo di quello abbiamo sete, del dolce che si distilla nei teneri abbracci e nei sorrisi.
Raccontare quanto fosse importante per un bambino famoso il bacio della sera di sua madre e per un altro, non meno famoso, la voce aspra di suo padre fa male al cuore. Ma questo male, che ‘accade’ a noi, è meno importante e doloroso. E può essere taciuto. Non è difficile nasconderlo allo sguardo indagante che cerca risposte ad ogni istante.
Il ricordo dei ‘luoghi’ più lontani dei territori della letteratura giova non poco al colloquio quotidiano, quando un’immagine indovinata arricchisca di tonalità forti il pacato ragionare sulle cause di un disagio apparentemente immotivato.
Bisogna muoversi lentamente, con delicato stupore, in mezzo allo stordito e intorpidito moto del cuore: nessuno rinuncia a dire di aver amato a sufficienza, anche troppo! Al figlio assente sembrano rimproverare tutti di non aver compreso l’amore che pure è stato dato. Più di tutti, tocca il cuore quel padre che rivela finalmente di aver amato sua figlia di un amore veramente grande, anche se non ha potuto esprimerlo mai, per il timore che lei se ne approfittasse in qualche modo! E quel padre non accetta che gli si dica che avrebbe dovuto dire l’amore che pure c’era in lui! Non siamo noi a negare che egli abbia amato: sua figlia reclama un amore che sa di non aver mai ricevuto! Come fa male dover suggerire parole più coraggiose da una parte e silenzi rispettosi dall’altra!
Tornarsene a casa la sera, dopo aver parlato d’amore, e ritrovarsi a farlo sempre più, quasi ogni giorno, tutto sommato fa bene. Aiuta a sopire certe malinconie che occupano il cuore senza essere state invitate a farlo. Aiuta a ricordare il bene ricevuto e a scacciare il pensiero insidioso di non averne ricevuto a sufficienza, come se il mondo non avesse altro da fare che pensare a noi, solo a noi, nelle calde giornate estive, come ora, in questa stagione che non si decide a portarci il giusto freddo notturno, che non abbiamo ragione di temere, perché sappiamo bene che sarà poi la volta della primavera che non mancherà di portare nuova vita e un rinnovato tepore nell’anima.
Tornare a casa con questi miti pensieri è importante: il sentimento del tempo che scorre in noi aiuta a dare valore alle piccole cose e a trascurare le voci che vorrebbero che ci fermassimo ancora sul così fu, che è bene vada via con la sua tetra malinconia.
Leggere PHILIPPE JULIEN, Tu lascerai tuo padre e tua madre (dal sito lacan-con-freud.it)
Traduzione del capitolo VII “Les paradoxes de la transmission”, pp. 73-87 (fatta eccezione per le prime dieci righe) di Tu quitteras ton père et ta mère, Flammarion, Paris 2000.
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1. Non c’è alleanza coniugale senza rottura con la famiglia da cui si proviene. “Legge ferrea”, diceva Lévi-Strauss. Bisogna scegliere: o la famiglia d’origine o l’alleanza coniugale. Colui o colei che vuole conciliarle tradisce il legame coniugale. In effetti, il mantenimento del legame filiale fa fallire il patto con il coniuge. L’antropologia dichiara che ogni società enuncia la necessità di scegliere, secondo la legge dell’interdetto dell’incesto. Ma è sufficiente che la società lo enunci?
2. Non c’è rottura possibile senza la trasmissione dei genitori. In effetti, ciò che la società promuove non lo può realizzare essa stessa. L’antropologo enuncia una struttura elementare, ma tace sul potere di attuare ciò che enuncia. Vi è qui uno strano paradosso: solo la famiglia da cui si proviene, e che si lascia, può trasmettere la legge del desiderio e in tal modo conferire il potere di realizzarla per mezzo di un’alleanza coniugale. Ma a quale condizione?
3. Non c’è trasmissione senza vincolo matrimoniale fondatore del legame tra i genitori. La condizione è la seguente: la famiglia d’origine non deve essere fondata sul legame tra genitori, ma, al contrario, è il vincolo matrimoniale di un uomo e di una donna che fonda il legame tra genitori.
Per la sua par- ticolare confor- mazione evoca l’immagine del- lo Spirito Santo, mentre le foglie rimandano alla Trinità. La sua raffigurazione può alludere anche al dolore di Maria Vergine.
Significato – Simbolo dello Spirito Santo, della Passione di Gesù; può alludere al dolore di Maria.
L’origine del nome, Aquilegia vulgaris, è stata interpretata in modi diversi. Secondo alcuni sembra derivare dalla forma uncinata dei petali che ricordano il becco o l’artiglio dell’aquila. In base a tale supposizione gli antichi naturalisti pensavano che questo fiore avesse la proprietà di rendere la vista più acuta. Secondo altri, invece, il nome del fiore si rifà alla parola latina aquilegium, recipiente d’acqua, che si riferisce alla caratteristica di questo fiore di trattenere sulle proprie foglie gocce d’acqua e di rugiada. [da LUCIA IMPELLUSO, La natura e i suoi simboli, ELECTA]
[…] io sono la rugiada, la rugiada, ma tu, tu sei la pianta(R.M.RILKE).
L’esito dell’ascolto, lo ’sbocco’ della relazione d’aiuto è tutto qui, nel riconoscimento della propria fragilità, nella precarietà della goccia di rugiada, che ha bisogno dell’aquilegia, della pianta su cui posarsi per sussistere e per durare dentro la relazione. Il paradosso suggerito qui è nel fatto che noi facciamo riposare la nostra esistenza su chi ci chiede ‘aiuto’. Noi ci salveremo attraverso la consistenza dell’altro. E’ importante che l’altro consista per noi. Lo sforzo incessante al quale tendiamo è questo riconoscimento, la gratitudine dell’altro che ’salvandosi’ ci salverà. La sua ’salvezza’ non è altro che la capacità di durare dentro la relazione, anche oltre lo ’scioglimento’ della relazione stessa, che avviene quando l’altro prende il largo, avendo ormai imparato ad affrontare la vita senza temere la tempesta.
[…] L’aquilegia è la pianta che, essendo a forma di corolla aperta, sembra più di ogni altra pianta capace di accogliere la rugiada. Significa che ho bisogno della consistenza dell’altro per esistere. Per evitare che la mia esistenza precipiti nell’insignificanza. E’ noto a tutti (gli ascoltanti) che non della dipendenza disfunzionale qui sto parlando…
Per tornare a parlare di la- birinti l’occa- sione mi è stata offerta dalla pubbli- cazione su la Repubblica di Parma di un gruppo di sette foto intitolato: Perdersi nel labirinto di FMR→→. L’acronimo FRM sta per Franco Maria Ric- ci (ma vale anche éphémère, ‘effimero’), l’editore parmense (amante del tipografo Giovanni Battista Bo-doni→→→) che ha creato la rivista d’arte più bella del mondo: FMR. L’Editore aveva annunciato proprio così la sua uscita, poche settimane prima di marzo 1982. Io sottoscrissi l’abbonamento senza avere in mano nemmeno un numero 0, che sarebbe comunque uscito di lì a poco.
Il labirinto più grande del mondo – così lo ha voluto Franco Maria Ricci – mi ha riportato alla memoria uno dei miei emblemi: il labirinto. La prima nozione importante che ne abbia avuto risale al 1979, anno di pubblicazione dell’ottavo volume dell’Enciclopedia Einaudi, uno dei monumenti della cultura del XX secolo, che contiene la voce Labirinto. E’ stato nel 1984, con l’uscita della prima edizione de Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo di Paolo Santarcangeli, che ho potuto approfondire lo studio dei labirinti. La breve Prefazione di Umberto Eco mi introdusse alle classificazioni dei labirinti e alla comprensione delle ragioni poste alla base dell’Enciclopedia Einaudi: in essa il sapere viene definito come labirinto e come ‘rete di modelli’. La rinuncia a un sapere totalizzante – una semantica dizionariale – a favore di un sapere ‘discreto’ – una semantica enciclopedica – orientò poi tutti i miei studi successivi. L’abbandono del marxismo come visione del mondo totalizzante e la rinuncia a un sapere conchiuso, del tipo dell’Enciclopedia filosofica hegeliana, costituirono la svolta più importante della mia vita.
SINTESI DELLA VOCE «LABIRINTO», CURATA DA PIERRE ROSENSTIEHL – VOLUME 8º DELL’ENCICLOPEDIA EINAUDI
Il labirinto rappresenta l’essenza dei sistemi reticolari acentrati (cfr. centrato/acentrato, rete, sistema) nei quali ogni decisione viene presa localmente. Il problema allora è quello di capire in che misura un «viaggiatore» interno al labirinto, dotato solo di percezione locale, sia capace di un’azione globale che gli eviti infiniti percorsi (cfr. locale/globale, calcolo, algoritmo, automa). Dal punto di vista esterno dell’«architetto» del labirinto è possibile una classificazione secondo i metodi della topologia combinatoria (cfr. geometria e topologia). In generale dal punto di vista formale «risolvere» il labirinto significa esplorarlo tutto e ritrovarsi al punto di partenza. A ciò si adattano i metodi combinatori della teoria dei grafi e delle reti (cfr. combinatoria, grafo, ma anche grammatica, per il fatto che ad ogni labirinto è possibile associare una grammatica generativa del tipo context-free). Ma, risolto il labirinto, rimane la metafora (cfr. metafora/metonimia) per cui ogni persona tende a misurare il proprio progresso con l’avanzamento in qualche labirinto; rimangono così le contraddizioni e le simbolizzazioni della mitologia, rimane intatta la potenza magica del labirinto (cfr. immagine, magia, mito/rito, simbolo).
E’ a pagina 761, nel bel mezzo del 15° volume, intitolato Sistematica, che compare un breve inserto intitolato Il sapere è un labirinto, messo lì a separare le due parti di cui si compone il volume: la Sistematica locale e i Ricoprimenti tematici. La pubblicazione nel 1981 dalle Edizioni Panini degli Atti del Convegno Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi contribuì a confermarmi nell’idea che il sapere è una rete di modelli. Molti Autori dell’Enciclopedia Einaudi figurano tra i Relatori. Il volume è introvabile, perché fuori commercio.
SINTESI DELLA VOCE «ENCICLOPEDIA», CURATA DA ALFREDO SALSANO – VOLUME 1º DELL’ENCICLOPEDIA EINAUDI
Caratterizzata da un’irrisolta tensione tra l’unità di una sistematica e la pluralità delle conoscenze (cfr. conoscenza), l’enciclopedia tende il più delle volte a cadere nella pura e semplice lessicografia (cfr. lessico) anche quando alla base della sua costruzione è una classificazione delle scienze (cfr. scienza) che in genere coincide con quella accademia delle discipline. Abbandonati i fini didattici (cfr. insegnamento) o di pura erudizione che caratterizzarono le produzioni enciclopediche occidentali dalla tarda antichità al XVII secolo, l’enciclopedia ha nel Settecento integrato le arti (le «belle arti» e le «arti meccaniche») accanto alle scienze, configurandosi come strumento di informazione sui diversi settori delle attività pratiche e della ricerca teorica (cfr. anche teoria, teoria/pratica). L’ordine alfabetico generalmente adottato consente una presentazione che si vuole estranea all’ideologia, oggettiva anche nel senso che non propone un ordine di lettura predeterminato. Trionfo dell’analisi sulla sintesi, della molteplicità sull’unità e sulla totalità (cfr. analisi/sintesi, uno/molti, totalità), l’enciclopedia sembra paradigmatica (cfr. paradigma) di quell’oscillare tra invenzione e metodo che è proprio del moderno pensiero scientifico. Senza proporre un’unificazione di tipo filosofico delle conoscenze (cfr. filosofia/filosofie) essa cerca oggi di esplicitare quella che, con metafora matematica, si può chiamare la rete del sapere.
Il labirinto è metafora della cultura del nostro tempo, in cui rischiamo tutti di perderci. I labirinti, tuttavia, sono costruzioni umane: sappiamo come si entra in essi e come se ne esce!
La prima volta forse è stato Baudelaire a dire della foresta dei simboli della cultura moderna, ma non si trattava propriamente di labirinti. Piuttosto, della possibilità di perdersi. Se non si sa cosa siano, si è portati a pensare che siamo condannati comunque a smarrire la strada del ritorno una volta che ci fossimo avventurati in uno di essi. Nel nostro tempo lo sforzo più grande compiuto è il progetto dell’Enciclopedia Einaudi, con le sue 600 voci chiuse in un grafo nel quale sono disposte con un criterio tale che non si possa individuare un centro da cui partire o verso il quale far convergere le ‘ricerche’: sistema acentrato, il sapere umano è stato pensato come rete di modelli e come labirinto, appunto. Ad una semantica dizionariale occorrerà sostituire una semantica enciclopedica: la costruzione della conoscenza si dà per accumulo entro una rete in cui sistema ed enciclopedia restano in tensione.
Noi siamo impegnati a costruire labirinti, senza saperlo. Non ci chiudiamo forse dentro costruzioni nelle quali l’altro deve raggiungerci? e non forniamo forse alle persone alle quali soltanto vogliamo che ci raggiungano la traccia delle vie che conducono al nostro cuore? Percorsi tratteggiati, i nostri discorsi alludono alla costruzione in cui occorre muoversi per giungere finalmente ad una meta lontana.
Leggete la sintesi della stessa voce LABIRINTO dell’Enciclopedia. La ‘navigazione’ dentro l’enciclopedia avviene ‘percorrendo’ regioni circoscritte che raccolgono altrettante voci disciplinari. Le parole o le coppie marcate in neretto sono altrettante voci a cui ogni voce rinvia, con una modalità ipertestuale. Così si generano i ‘percorsi’ nel labirinto. Oltre la teoria, la classificazione di tutti i labirinti possibili, ‘ridotti’ a tre modelli fondamentali da Umberto Eco (Prefazione a Il libro dei labirinti di Paolo Santarcangeli, Frassinelli 1984): il labirinto detto ‘unicursale’, il labirinto manieristico, il rizoma, o la rete infinita. Ognuno di noi possiede nella propria mente la personale ‘enciclopedia’, costruita negli anni e perennemente in costruzione. La memoria personale non è magazzino, archivio a cui attingere. Al pari delle memorie collettive, essa è sistema aperto, acentrato, ipertestuale. La costruzione del ’sistema’ avviene al presente. Mentre viviamo siamo già impegnati a scegliere ciò che andrà a costituire il mosaico della nostra esistenza e di volta in volta sceglieremo cosa rammemorare e cosa lasciar cadere nell’oblio.
Il XXIII Capitolo di Exodus, che si è tenuto a Sirmione sul Garda dal 1° al 4 ottobre 2011, aveva come tema: Dove c’è casa c’è festa e c’è perdono. Il XXIV Capitolo (1-4 ottobre 2012) avrà come tema: E la parola si fece carne. Al centro del XXII, che si è tenuto nel 2010, il tema forse più atteso: Nella foresta dei sentimenti. Mentre, da un anno all’altro, tra gli Educatori e con don Antonio Mazzi la riflessione procede e si approfondisce, sembra che la questione della ‘foresta dei sentimenti’ sia destinata a rimanere al centro delle discussioni, sicuramente dello studio personale. Senza nulla togliere agli argomenti proposti nel 2011 e nel 2012, la materia dei sentimenti costituisce un ‘approdo’. Non è un caso il fatto che la formazione in corso a Milano abbia come tema l’amore. La traccia di lavoro spedita a tutti gli Educatori che vi parteciperanno a scaglioni fino a marzo è tutta incentrata sull’amore.
Alla fine del Capitolo, come ogni anno, nella riunione ristretta con i soli Educatori, don Antonio ha distribuito un cartoncino pieghevole con le scadenze del 2012. Oltre le date, l’articolazione della formazione per Settori di attività e i Libri guida, i suggerimenti di lettura che non mancano mai: Bibbia, Le beatitudini del marciapiede, Il mondo e l’infradito, Mattutini, Decalogo dei folli, Cosa resta del padre, L’interiorità maschile. E’ stato con viva sorpresa che ho notato la presenza, in fondo alla lista, di Recalcati e Demetrio. Dunque, non mi sbagliavo a dedicare attenzioni alla questione maschile e al tema del padre. Adesso non faccio che suggerire la lettura dei due volumi, ne parlo nel Centro di ascolto, regalo copie dell’uno e dell’altro alle persone che hanno bisogno di uscire dall’incertezza sull’identità del maschio e del padre. I tesori nascosti in quelle opere richiedono anni di riflessione e che si ‘applichi’ a lungo la saggezza che hanno da trasmettere.
Per anni nel Centro di ascolto ho sentito dire – prevalentemente dalle madri dei ragazzi – che il padre era ‘assente’ e che la causa prima del disagio dei ragazzi era da ricercare nelle inadempienze paterne. Oggi non è più così. A parte il fatto che di ‘madre coraggio’ non c’è più traccia, le madri hanno appreso dall’esperienza e dallo scambio di idee con le altre madri che è per lo meno riduttivo pensare nei termini di una responsabilità esclusiva del padre, per darsi una ragione della sofferenza di un figlio. Sicuramente, emergono in alcune famiglie le tracce dei danni attivamente provocate da padri, che non sono stati assenti: piuttosto, sono stati presenti nella maniera sbagliata, perché non hanno rispettato la madre, perché hanno bevuto, perché hanno mandato ai figli messaggi distruttivi o ‘nessun’ messaggio… Ma tutti si interrogano, ormai, sul ruolo svolto da ognuno dei due genitori rispetto all’altro: nessuno separa più nettamente le responsabilità e, d’altra parte, tutti sono impegnati a distinguere le responsabilità educative del padre da quelle della madre, l’immagine dell’altro genitore che ognuno dei due ha ‘restituito’ ai figli. Le responsabilità escono accresciute, ma soprattutto le domande si moltiplicano. C’è da chiedersi, ad esempio, cosa significhi essere maschio oggi, in una società in bilico tra vecchio e nuovo, tra civiltà e barbarie. E poi, cosa significa essere padre?
È così! Capita… All’improvviso un velo di tristezza… senza ragione apparente… Forse perché per troppo tempo si è andati avanti automaticamente… una cosa dopo l’altra… perché non c’era il tempo di riflettere… perché non c’era la voglia… perché… Ma è inutile cercare di capire i perché. È così. E allora tanto vale prendersi questa tristezza che arriva all’improvviso e aspettare che passi. Tanto le carezze che arrivano dall’esterno in questi momenti non servono a molto. Soprattutto quando apparentemente non c’è alcun motivo di essere tristi…
Queste parole appartengono alla filosofa Michela Marzano, che le ha pubblicate oggi sul suo sito, sotto il titolo Un velo di tristezza. Un ‘velo’ di tristezza fa pensare a un’esperienza che ci è ben nota e che non facciamo fatica a ricondurre alla classe degli oggetti che chiamiamo stati d’animo, condizioni transitorie, che sopraggiungono non si sa bene da dove e che altrettanto facilmente vanno via.
Quello che ci fa parlare di loro e che ci fa dire di essere stati assaliti dalla tristezza, ancorché solo da un velo, è forse il fatto che «le carezze che arrivano dall’esterno in questi momenti non servono a molto»: è solo un velo che cala su di noi senza una ragione e una causa apparente? La sua consistenza sarà ben più grande, se resiste alle carezze, a cui pure è difficile resistere.
Il 15 novembre Michela Marzano è tornata così sull’argomento:
Dovrei saperlo, e invece ogni tanto me lo dimentico. L’amore che si riceve dagli altri è sempre tanto grande. Talmente grande che è folle e stupido dimenticarsene… Perché anche quando si ricevono porte in faccia e cattiverie, poi c’è sempre qualcuno che si avvicina e che trova quella parola giusta, quella frase, quel gesto che ripara tutto… Leggendo alcuni dei commenti al mio post di ieri mi è tornato il sorriso… Perché c’era tanto amore. Veramente tanto. Insieme a tutte quelle parole perse e poi pian piano ritrovate. Perché dietro la mia tristezza c’è sempre la stessa cosa… quella bambina che sono stata e che ogni tanto riappare… quel sentimento di inutilità… quella voglia di far meglio e di non riuscirci… quel perdono che talvolta non riesco a darmi… quell’amore che nel passato ho cercato invano è che invece è già lì, presente… proprio ora… mentre scrivo… Ormai ho deciso! Dopo Volevo essere una farfalla, il mio prossimo libro sarà sull’amore. Non quello che cercavo. Quello che ho…
Ci sono libri che è difficile ‘recensire’. (D’altra parte, io qui mi limito a riferire la mia esperienza di lettura). La tecnica narrativa adottata dall’Autore non consente di ‘rivelare’ l’esito del racconto, soprattutto quando, come nel nostro caso, l’intero récit poggia sulla suspence: sarebbe importante per la chiarezza dell’analisi critica soffermarsi sullo scioglimento finale, perché magari contiene la chiave interpretativa di tutta l’opera, ma è preferibile non farlo, per non togliere ai lettori il gusto della scoperta progressiva di ciò che il protagonista, nonché voce narrante, comprende di ciò che gli si para davanti.
Se le prime ottocento pagine si mantengono in uno spazio di tipo onirico e si danno transizioni tra diversi piani di realtà, solo in fondo al volume si ‘comprende’ finalmente la natura delle peripezie del personaggio protagonista. Solo dopo aver risolto i problemi che si erano aperti per lui egli si ritrova appieno nella realtà. L’emozione che aveva accompagnato la prima lettura dell’opera non è più chiara, o meglio, appare chiaro sono alla fine che si era all’interno di una dimensione sospesa. La felicità dell’opera è proprio in questa condizione in cui si trova il lettore, interamente preso dal gioco della narrazione. Alla fine della prima lettura si prova la sensazione di non voler abbandonare il mondo che era stato creato per noi: a noi, i lettori non resta che valorizzare quel sostare nella lettura stessa, il piacere di stare in quell’intervallo che la vita ci concede, lo stato di grazia dell’emozione estetica che è poi il dono incomparabile della vera letteratura.
Nell’impossibilità di restituire l’intero contenuto dell’opera, occorre concentrarsi sulla scrittura, che è poi ciò che conta: l’invenzione della lingua con le sue peculiari connotazioni fa l’autore. Murakami indugia su particolari anche insignificanti, ma non si tratta di un elemento debole della scrittura stessa. In realtà, l’indagine personale mira a districarsi nella selva delle circostanze occasionali e non che rendono enigmatica la parte di esistenza da cui il racconto prende le mosse. Eventi di scarso rilievo sono assunti come termini di uno spazio misterioso e sfuggente. Quell’indugio non rientra nel già noto rinvio, nello spostamento in avanti di fatti e di eventi chiarificatori. Ogni passo, una nuova sospensione, come se la realtà, fin nei suoi minuti dettagli, fosse tutta pervasa di mistero. Le circostanze dell’esistenza del protagonista sono sicuramente segnate dal carattere dell’indecifrabilità, almeno apparente. Lo stallo a cui egli è consegnato è ciò che imprime ritmo alla macchina narrativa. La sapienza della scrittura è nel gioco continuo di rimandi, che non consente mai di concludere con un giudizio definito su questo o quel personaggio: la vita, con le sue ambigue risonanze e con le ambivalenti risposte che ci dà, è qui interpellata in tutta la sua potenza evocativa. Siamo sempre chiamati altrove. Il senso delle cose non è mai dato una volta per tutte. Bisogna cercare, per sciogliere tutti gli enigmi in cui ci troviamo avviluppati.
Il non detto prevale ad ogni piè sospinto: la vera identità dei personaggi, il vero significato di eventi che restano sospesi nell’aria perché il loro corso è stato interrotto da altri eventi non meno importanti per noi, il passato con i suoi enigmi, la storia che ritorna attraverso i racconti di conoscenti che la vissero in prima persona. Diciamo che la realtà si dispiega davanti a noi lentamente, per spostamenti progressivi dello sguardo, che si muove sulle cose non potendo contare su un terreno solido. Frammenti di senso riposano su frammenti estesi della narrazione. Essi non trovano in se stessi il senso che manca a una prima osservazione attenta. Solo le scoperte successive svelano allo sguardo il senso di ciò che poco fa stava davanti agli occhi del personaggio.
La lingua non è fatta di schegge di saggezza sparse qua e là. Ciò che viene restituito è l’umile splendore della vita quotidiana, il vivere comune immerso negli oggetti noti da sempre. L’effetto straniante di un abbandono si avverte dal modo di ‘apparire’ degli oggetti stessi: il significato di un guardaroba femminile, ad esempio, è tutto da decidere, dopo che la donna se ne sia andata… La voce narrante ci guida per mano. Pagina dopo pagina non dobbiamo fare nessuna fatica ad attingere il senso generale del racconto, salvo ritrovarsi più volte immessi in realtà insospettate, con i pochi elementi in mano che abbiamo di cui servirsi fino alla fine. Tutto acquista senso in fondo al testo, ma non si prova alcun rammarico per la conclusione ormai ‘raggiunta’: il cuore della scrittura non andrà cercato nello sbocco assegnato al racconto. E’ come se ci trovassimo di fronte a unità testuali e di senso più ampie della pagina e del capitolo. Bisogna ‘conservare’ ogni grumo delle esistenze incontrate. Sembra che non ci sia posto per il personaggio maggiore a cui contrapporre il simmetrico personaggio minore: veramente, come direbbe Kundera, ogni individuo ha il diritto di esistere. Anche il più spregevole di tutti concorre a far ‘reggere’ la struttura del récit. La narrazione dopo tutto restituisce il ritmo della vita. Non è forse vero che il concreto sia ciò che dura, e ciò che dura non è forse il ripetersi sempre uguale della vita che si ostina a fare dono di sé nelle forme più disparate, ingannandoci ora con l’apparente ripetitività delle cose ora con lo sbadiglio che ci assale quando non si direbbe che le cose stesse meritino di precipitare nella noia e nell’impermanenza?
Da una prima lettura si può dire solo bene di Murakami. Mentre mi inoltro nella lettura di 1Q84, appena uscito, penso già di tornare sull’Uccello che girava le viti del mondo, perché le giornate trascorse con quel Murakami erano rallegrate da una bella continuità istituita dalla consuetudine di vivere con lui: sicuramente, la prossima volta che lo leggerò sarà diverso. Mi accorgerò che mi era sfuggito un dettaglio non marginale che mi aiuterà ad allontanarmi dalla mia realtà con più costrutto.
Avevo bisogno di una scrittura onirica e visionaria, come si dice ormai di Murakami, per integrare nella coscienza spazi di realtà che premono. E’ tempo di tornare a sognare una vita meno schiacciata sul presente. Allontanarsi un po’ non è tradire. D’altra parte, non è più tempo di engagement. Il lettore poi è un allegro parassita che si nutre dei piatti più impensati. A cosa non sarebbe disposto, pur di ottenere l’allegria della mente?
Uscire da questa lettura non è facile, perché essa costringe a chiedersi quale posto si debba assegnare al sogno e alla visione e se meriti credito il regime delle coincidenze e delle circostanze fortuite che pure fanno storia.
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Come esercizio di lettura, Murakami con tutta la sua opera andrà riguardato soprattutto come testo: suggerisco il piacere del testo, perché emerga l’universo di senso che è proprio di questa scrittura. Distinguere l’Autore dal Testo, dalla Scrittura.
Sono le parole più silenziose quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo. – Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi
Tutto ciò che di buono e di interessante poteva esser detto del silenzio è stato detto, e naturalmente non abbiamo ancora finito di dire gli innumerevoli sensi che il termine racchiude. E’ nata perfino un’Accademia del silenzio!
Delle modalità, le posture, gli atteggiamenti che possiamo adottare per ‘esprimere silenzio’ mi interessa particolarmente l’attitudine compunta e preoccupata di chi sceglie di non parlare per evitare l’esplosione di conflitti insanabili, quando la ‘situazione’ sia in qualche modo compromessa da incomprensioni gravi, fraintendimenti accumulati, rigidità ‘storiche’.
Nelle relazioni umane bisognerebbe esser laici, cioè non portare nella relazione nessuna ‘causa’ o ideologia o visione del mondo: bisogna essere scettici, disincantati, completamente vuoti.
Non si vive la pienezza dell’Essere se non nel Vuoto (Raimon Panikkar)
Bisogna svuotarsi all’occorrenza, per far posto all’altro, per stabilire con comodo quanto spazio poi riservargli nel proprio ‘spazio vitale’. O meglio, si tratta di sospendere ogni giudizio, anche su ciò che di più sacro ci guida nell’azione. Se non facessimo così, sarebbero possibili le amicizie stellari che talvolta la vita ci offre in dono tra assolutamente diversi? E’ tra lontani che spesso ci si intende meglio!
E’ forse lecito dire che ogni vera cultura comincia con il fatto che l’uomo si ritrae. Non si spinge avanti, non afferra e rapisce per sé, ma crea quella distanza dove, come in uno spazio libero, può apparire chiaramente la persona con la sua dignità, l’opera con la sua bellezza, la natura con la sua potenza di simbolismo. – ROMANO GUARDINI
La vita schiva offre i suoi vantaggi: non si richiede una ‘fuga’ o un ‘ritiro’ dal mondo, per compensare torti e delusioni. L’uomo schivo sa già cosa sia mondo e non è mai portato a confonderlo con la vita, che procede sempre per le sue strade, non rinunciando ad affermare il suo principio. Thanatos non smetterà mai di chiedere ‘troppo’. E’ importante non lasciarsi sedurre dai suoi richiami e ripiegare nella rinuncia fine a se stessa. Piuttosto, come ci ha insegnato Massimo Cacciari, ognuno di noi nel corso della vita ha da realizzare la propria ‘ascesi fondamentale’. Conoscerla e saperla realizzare è la forma di saggezza più alta. Muovere verso se stessi è propriamente questo: arrivare a comprendere la cifra del proprio destino, cioè diventare ogni giorno di più se stessi, realizzare la propria natura, rendere ‘reali’ tutte le proprie possibilità. Nell’osservarsi vivere soltanto riusciamo a comprendere. Questo è ciò che chiamiamo conoscenza di sé.
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Il silenzio di Füssli significa per me arte di tacere. Di fronte alla parola dell’altro la mia cessa: sono in ascolto. Significa anche meditazione, raccoglimento, attenzione…
Ma resta da dire del non detto delle emozioni, del non detto del sesso e della droga (non detto, non ineffabile o inesprimibile!): ci torneremo su. Il silenzio della morte è stato interrogato. Foscolo ci ha insegnato che è possibile continuare il dialogo interrotto. Io lo chiamo custodire nel proprio cuore la voce e tutto il resto. Il silenzio delle vittime, dei poveri, della natura… delle donne. Il silenzio dell’anima, di fronte alla sconfinata bellezza della natura. Il passaggio al bosco, come ascolto delle sue voci. La contemplazione assorta della bellezza femminile, l’oltranza della bellezza, il suo deinòn (il tremendo, ciò che ci spaventa). Il silenzio che si richiede quando ci si dispone accanto al malato di mente grave, al catatonico, che sembra perso nel nulla di uno sguardo immobile e spaventato. Se proviamo a toccare la sua mano o soltanto a stargli accanto – in silenzio, appunto! – noi possiamo impedire che quella esistenza precipiti nell’insignificanza. E’ quello che Kurt Schneider chiama “aiutare i pazzi ad essere folli”. Occorre – credetemi! – tanto silenzio.
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PRINCIPI NECESSARI PER TACERE
E’ bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio.
Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare.
Nell’ordine, il momento di tacere deve venire sempre prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente.
Tacere quando si è obbligati a parlare è segno di debolezza e imprudenza, ma parlare quando si dovrebbe tacere, è segno di leggerezza e scarsa discrezione.
In generale è sicuramente meno rischioso tacere che parlare.
Mai l’uomo è padrone di sé come quando tace: quando parla sembra, per così dire, effondersi e dissolversi nel discorso, così che sembra appartenere meno a se stesso che agli altri.
Quando si deve dire una cosa importante, bisogna stare particolarmente attenti: è buona precauzione dirla prima a se stessi, e poi ancora ripetersela, per non doversi pentire quando non si potrà più impedire che si propaghi.
Quando si deve tenere un segreto non si tace mai troppo: in questi casi l’ultima cosa da temere è saper conservare il silenzio.
Il riserbo necessario per saper mantenere il silenzio nelle situazioni consuete della vita non è virtù minore dell’abilità e della cura richieste per parlare bene; e non si acquisisce maggior merito spiegando ciò che si fa piuttosto che tacendo ciò che si ignora. Talvolta il silenzio del saggio vale più del ragionamento del filosofo: è una lezione per gli impertinenti e una punizione per i colpevoli.
Il silenzio può talvolta far le veci della saggezza per il povero di spirito, e della sapienza per l’ignorante.
Si è naturalmente portati a pensare che chi parla poco non è un genio, e chi parla troppo è uno stolto o un pazzo: allora è meglio lasciar credere di non essere genii di prim’ordine rimanendo spesso in silenzio, che passare per pazzi, travolti dalla voglia di parlare.
E’ proprio dell’uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell’uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.
Qualunque sia la disposizione che si può avere al silenzio, è bene sempre essere molto prudenti; desiderare fortemente di dire una cosa è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla.
Il silenzio è necessario in molte occasioni; la sincerità lo è sempre: si può qualche volta tacere un pensiero, mai lo si deve camuffare. Vi è un modo di restare in silenzio senza chiudere il proprio cuore, di essere discreti senza apparire tristi e taciturni, di non rivelare certe verità senza mascherarle con la menzogna.
ABATE DINOUART, L’arte di tacere (1771)
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INDICE
Introduzione – Le virtù del silenzio: la politica del silenzio In difesa del silenzio, pag.9 Silenzio come concetto, tema e simbolo, pag.17 Una breve nota terminologica, pag.20
Prima parte – La politica e la cultura del silenzio 1. La scienza e la tecnologia del silenzio La misurazione dei decibel, pag.26 Scienza e rumore, pag.29 Il caso del grattacielo che strilla, pag.29 Tipi di rumore, pag.31 Rumore, rumore dappertutto?, pag.34 2. La commercializzazione del rumore I proiettili acustici, pag.36 Il suono nella cultura popolare, pag.38 Rock, amplificazione e ribellione, pag.40 3. L’assalto al silenzio e perché il silenzio è importante Huxley: l’Età del rumore, pag.44 L’inquinamento acustico: un problema globale, pag.45 Salute e silenzio, pag. 48 Riflessione e silenzio, pag.53 Il rumore e l’inumano, pag.57 Conclusione, pag.62
Seconda parte – Le virtù del silenzio 4. Dove il silenzio è importante: la religione Monica Furlong: il significato della contemplazione, pag.65 Il silenzio nella tradizione cristiana, pag.67 Il silenzio nelle religioni non occidentali, pag.75 Max Picard: la metafisica del silenzio, pag.83 5. Dove il silenzio è importante: la filosofia Parlare dell’ineffabile, pag.87 La decostruzione e l’ineffabile, pag.88 Lyotard e l’irrappresentabile, pag.92 Kant e il noumeno, pag.93 La fenomenologia e la sospensione del giudizio, pag.94 Scetticismo, pag.95 Il silenzio e l’Essere, pag.96 Il silenzio nella filosofia non occidentale, pag.97 Conclusione, pag.98 6. L’estetica del silenzio Susan Sontag e il silenzio critico, pag.99 L’estetica del silenzio in Susan Sontag, pag.101 L’estetica del silenzio in John Cage, pag.105 Conclusione, pag.107 7. Dove il silenzio è importante: le arti Musica e silenzio, pag.109 Silenzio nell’arte, pag.112 Cinema e silenzio, pag.119 8. Dove il silenzio è importante: la letteratura La poesia e il silenzio, pag.124 Il romanzo e il silenzio, pag.128 Il sublime: l’ineffabile e l’irrappresentabile, pag.131 Il flusso di coscienza: la descrizione del mondo silenzioso, pag.134 Il dramma del silenzio, pag.136 Libri silenziosi, pag.143 Il silenzio e il postmoderno, pag.145 Conclusione, pag.146 9. Dove il silenzio è importante: la lingua e la parola
Conclusione – Una campagna per il silenzio Silenzio, rumore e informazione, pag.157 Trovare un equilibrio tra rumore e silenzio, pag.160