Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (291): Stati di coscienza

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Giovedì 13 ottobre 2011

L’esordio non poteva essere più dirompente: noi tutti siamo ospiti del nostro corpo, ospiti ingrati e inconsapevoli, che viviamo grazie ad automatismi non controllati dalla nostra volontà e dalle nostra coscienza. Coscienza che, da che uomo è uomo, è oggetto di ricerca filosofica e scientifica: chi decide dentro di noi? Siamo liberi? Realmente esiste una volontà? Dove risiede e quanto è consapevole o legata a concatenazioni neuronali? Le domande a riguardo possono essere veramente tante, con sfumature raffinate quanto fondamentali, ma non sempre le risposte sono facili da dare; i tre mila anni di filosofia ne sono la prova.

Remo Bodei racconta l’evoluzione del concetto di coscienza, con chiarezza e semplicità; non sembra di avere di fronte un professore di fama internazionale, tale è l’informalità della prima lezione sulle Questioni di Coscienza.

La Volontà e la Coscienza non sono sempre stati concetti come li intendiamo noi oggi, derivano da evoluzioni secolari del pensiero: il libero arbitrio cristiano, di origine medievale, forse non è mai esistito, visto che le scelte che deve affrontare sono per lo più derivate da costrizioni o degli obblighi, e comunque è stato superato da Locke nel 1694, quando il filosofo britannico all’anima come soggetto dotato di volontà e luogo della coscienza, sostituisce l’identità personale, fatta dalla linea dei ricordi e dalla proiezioni dell’essere nel futuro. L’individuo, l’Io, quindi come un nodo di relazioni sia interiori che esteriori, relazioni tra le rappresentazioni di ciò che è stato, di ciò che è e sarà e gli altri.

La ricerca dell’Io ha da sempre solcato la storia della filosofia, ma non solo: poesia, narrativa e musica hanno toccato vertici e abissi spesso inarrivabili con il puro ragionamento, basta pensare a Pirandello e alle personalità multiple oggetto dei suoi scritti. “La coscienza è in continua costruzione — spiega Bodei — l’Io trasferisce continuamente i vissuti, aggiungendo qualcosa e perdendo qualcos’altro; questa costruzione può essere alta, bassa, intensa o fiacca, a seconda della cura che abbiamo di noi stessi e della nostra coscienza. A volte traumi, droghe o alcool posso modificare questa costruzione”

Lo studio della persistenza dell’Io sfonda il confine del problema etico: Proust si chiedeva, infatti, come mai esistono momenti in cui non si ha coscienza, come durante le fasi del sonno, e poi al risveglio, si torna ad essere noi, con tutte le nostre connessioni. La questione diventa spinosa in caso di traumi e situazioni di vita mantenuta tale da macchine: quanto Io e quanta Coscienza permane in un coma? Il problema dovrebbe essere affrontato con discussioni serie, e non con la pancia politica, barricata in dicotomie ideologiche.

“La Coscienza, la nostra personalità — conclude Bodei — richiede anche coerenza, con noi stessi e con gli altri: ciò non significa non cambiare, ma non rinnegare il percorso che porta ad un determinato stato di coscienza”. Questa coerenza ha forti ricadute sociali, perché su questo si basa la convivenza di una società: “Le società, anche le peggiori — afferma il filosofo — sono comunque un piccolo miracolo di coscienza collettiva, basato su fiducia più o meno spontanea, e responsabilità”. Responsabilità che è cosa ben diversa dall’obbedienza; l’etimologia aiuta a marcare questa diversità: obbedienza significa stare ad ascoltare, responsabilità invece rispondere a ciò che si sente. Proprio la Responsabilità, minacciata da servitù volontaria e indifferenza, sarà l’oggetto della prossima lezione del ciclo, lezione che avrà come voce narrante la giornalista Concita De Gregorio.

Bodei conclude questo primo appuntamento con una riflessione importante: “Dobbiamo alzare l’asticella della nostra Coscienza perché solo in questo modo non potremo più dare la colpa agli altri”. Come dargli torto?

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (290): Identità

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Giovedì 13 ottobre 2011

Giacomo Marramao è l’ospite della quarta lezione magistrale su “Questioni di Coscienza”, e introduce un tema fondamentale quanto intricato: l’Identità.

David Linch diceva “L’identità in sé è uno strano affare”. Il regista è un esperto dei transiti, delle strade perdute delle identità, e questa frase fornisce il la ad una tematica squisitamente filosofica. Biologicamente l’identità esiste, ognuno di noi è / ha in sé un caso specifico di DNA, e al tempo stesso le nostre biografie costruiscono la nostra persona: gli incontri, le scelte, le non scelte.

In questa grande ricerca Cartesio è il punto di confronto continuo, perché con lui si è avuta la piena legittimazione ontologica del corpo accanto alla mente. Il corpo non è più strettamente strumentale alla mente, ma ha una dignità paritetica. Nel filosofo francese il pensare non è semplicisticamente ed esclusivamente razionale: il suo ricco epistolario ci fornisce informazioni più complesse che arricchiscono la razionalità di componenti più passionali, corporee. Il cogito, inoltre, può essere considerato come una dimensione relazionale.

Il problema dell’Identità diventa anche una questione sociale, quando fa il suo esordio l’identità collettiva: in tutte le filosofie non soggetto-centriche, questa particolare forma di identità è multiforme, liquida; l’agire non è strettamente individuale: molte azioni sociali non sono la semplice somma delle scelte individuali, ma qualcosa di più. Se con questa consapevolezza torniamo a guardare la nostra identità, la troviamo plurale, troviamo un sé multiplo Secondo Marramao “nel mondo moderno le identità sono scisse: si sta perdendo l’amore di sé, preferendo il piacere alla valorizzazione del desiderio. L’impossibilità di identificare il desiderio porta alla ripetizione seriale di sensazioni di piacere, che però risulta inesauribile, e che quindi nasconde un latente non amore per il sé”.

In chiusura una golosa anticipazione del prossimo libro del filosofo: “Violenze e scrittura”. La scrittura ha a che fare sia con la violenza sia con l’identità, determinando una testimonianza che va al di là delle presenza di chi scrive, con tutti gli effetti di lacerazione sul reale conseguenti. La scrittura, quindi, porta in sé anche una certa violenza, soprattutto se la si lega al potere. Questa caratteristica, però, non deve portare a limitare la scrittura, ma ad una nuova concezione più consapevole di questa grande arma dell’uomo.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (289): DANIELE VINCI (a cura di), Il volto nel pensiero contemporaneo

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Mercoledì 12 ottobre 2011

Il volto nel pensiero contemporaneo, a cura di DANIELE VINCI, IL POZZO DI GIACOBBE, Trapani 2010, 560 pagine

Contenuto del volume

Premessa pp.7-10

I. Radici

Panim, un singolarissimo plurale. Volto di volti e volti del volto umano nella Bibbia ebraica e in alcuni testi midrashici pp.13-46 di Mauro Maria Morfino
1. Introduzione;
2. Il volto umano come res ri-cor-data da Dio;
2.1. L’umano. O lo sphragis della dialogicità umana e della caparbietà divina;
2.2. L’umano. O lo sphragis della responsabilità non capricciosa e della sovranità non prepotente;
2.3. L’umano. O lo sphragis della sua in-frangibilità, intangibilità, incommensurabilità;
3. Conclusione.

Le parole del volto. Spigolature storico-linguistiche ai margini di un campo semantico pp.47-64 di Antonio Piras

II. Alla luce del volto

Antropologia del volto: frammenti pp.67-83 di David Le Breton
1. Il volto come incarnazione del sentimento di identità;
2. Il volto come potenza di appello;
3. Il razzismo o il volto profanato;
4. La maschera o il nascondimento del volto;
5. Lo sfiguramento o l’identità distrutta;
6. Trapianto del volto;
7. Ouverture.

Animal habile ad (inter)loquendum. Sette tesi antropologiche, in dialogo con il “nuovo pensiero” pp.84-102 di Francesco Paolo Ciglia

I lineamenti del sublime pp.103-119 di Sante Babolin
1. Identità umana;
1.1. Dal nome al volto;
1.2. Simbolica del volto;
1.3. Simbolica della maschera;
2. Dramma dell’identità;
2.1. Libertà immagine di Dio nell’uomo;
2.2. Libertà ragione della ragione;
3. Volto umano;
3.1. Volto sublime;
3.2. Volto immortale.

La visibilità dell’invisibile pp.120-130 di Emilio Baccarini
Premessa;
1. Il volto ‘visto’: il piano dell’oggetto;
2. Il volto invisibile: il piano del soggetto;
3. Al di là del soggetto.

L’empatia ha bisogno di un volto? pp.131-142 di Laura Boella
1. Occhi che parlano, occhi che tradiscono: vedere con il corpo e con la mente;
2. Un evento che accade; 3. L’espressione.

L’altro volto. Gli animali e la domanda antropologica (in una prospettiva ebraica) pp.143-156 di Massimo Giuliani
1. Derrida e Levinas;
2. La Torà insegna la cura di tutti i viventi;
3. Una critica a Derrida;
4. Gli animali come consolazione divina;
5. Il rabbino ha un gatto che parla;
6. Gli animali ridono? Una risposta a Blumenberg.

III. Pensatori del volto

Georg Simmel. Espressione materiale, divenire vissuto e conoscenza sensibile pp.159-175 di Claudia Portioli
1. Intrecci teorici;
2. L’indistinzione anima-corpo;
3. La prestazione sociologica dell’occhio e il corpo animato nella realtà della vita;
4. Dall’aisthesis del volto nella prassi della vita all’aisthesis nel ritratto;
5. Il volto, il corpo e lo spirituale;
6. Lo psichico-spirituale invisibile e il corporeo visibile: quale relazione?

Edith Stein. Il “singolo” e il suo volto pp.176-190 di Angela Ales Bello
1. L’io e gli altri: la questione dell’empatia;
2. L’antropologia fenomenologica di Edith Stein;
3. Gnoseologia e metafisica della singolarità;
3.1. Il nucleo personale;
3.2. L’essenza della singolarità personale;
4. Essenza, forma, individuo;
5. Il “sentire” la singolarità;
6. Il singolo immagine di Dio.

Franz Rosenzweig. L’amore comandato pp.191-202 di Pierluigi Plata
1. Fenomenologia del volto umano;
2. Solo Dio comanda di amare;
3. Il volto di Dio comanda al volto dell’uomo di amare.

Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo pp.203-220 di Natalino Valentini
1. Il ritorno del volto dimenticato;
2. Il volto misterioso della Natura;
3. L’idea, il volto e lo sguardo;
4. L’icona del volto;
5. L’insidia dell’idolo-maschera sul volto-sguardo.

Max Picard. Il rilievo sull’eterno pp.221-250 di Silvano Zucal
1. Il tormentato percorso religioso e professionale di un filosofo autodidatta;
2. Precursore di Lévinas sul tema del volto;
3. Volto “umano” (Menschengesicht) e “muso” animale (Tiergesicht);
4. Il volto come “imago Dei”;
5. Dimensione dialogica del volto: il volto dell’altro;
6. Il volto come “presenzialità” fuoruscita dall’eterno;
7. Dimensione esodale del volto e il “volto-guida”;
8. Il volto e il nulla: il volto di Hitler;
9. Il volto tra silenzio e parola;
10. Geografia dei volti. Volto e salvezza;
11. Volto della fede e volto della fuga;
Conclusione.

Romano Guardini. Fra Tu e Tu pp.251-276 di Daniele Vinci
1. La dialogica dei volti;
2. Due letture guardiniane;
2.1. Verso l’aperto: Rainer Maria Rilke;
2.2. Sulla soglia dell’eterno: Dostoevskij;
3. Il volto e il sacro.

Jean-Paul Sartre. Sguardo e Visibilità inafferrabile della trascendenza pp.277-292 di Gabriella Farina
1. Lo sguardo ne L’essere e il nulla;
2. La vergogna;
3. Il conflitto delle libertà nel gioco degli sguardi.

Emmanuel Levinas. Visage, Alterità e Infinito pp.293-310 di Giuliano Sansonetti
1. L’Altro, il Volto;
2. Volto ed Etica;
3. Volto e Responsabilità;
4. Volto e Linguaggio;
5. Volto e Traccia.

Jean-Luc Marion. L’icona come fenomeno saturo pp.311-330 di Susy Zanardo
1. La fenomenologia della donazione come fenomenologia dell’invisibile;
2. Lo sguardo fenomenologico come possibilità di accesso all’invisibile;
3. Il fenomeno saturo come esperienza dell’invisibile;
4. Il volto come icona dell’invisibile;
5. Il volto come fenomeno saturo per eccellenza.

IV. Rifigurazioni

De visu pp.333-337 di Federico Ferrari

L’ombra che sta al centro. Nota su alcuni autoritratti di Rembrandt pp.338-353 di Roberto Diodato

“Faces enfouies”. Antonin Artaud pp.354-368 di Natacha Allet
1. Face, plan; 2.
Le gouffre corps;
3. Traits, gestes;
4. Trajectoires;
5. Gris-gris.

Fare e disfare il viso. Metamorfosi dell’umano tra Canetti e Deleuze pp.369-383 di Ubaldo Fadini

“Dar la cara”. La storia sacrificale del volto in María Zambrano pp.384-400 di Nunzio Bombaci
1. “La distruzione delle forme” nell’ora della crisi;
2. Dall’assedio del sacro alla rivelazione del divino;
3. Il volto di Atena;
4. La pittura e la sua “luce avvinta all’ombra”;
5. “Offrire il volto”: il desarrapado di Goya; 6. Volto e maschera in Goya.

In quelle tenebre. Volti del nazismo pp.401-407 di Giorgio Pellegrini

Il volto si fa croce. La ricerca del Dio visibile nell’arte di Alexej von Jawlensky pp.408-418 di Maria Passaro

“Sinistre marionette con volti umani”. La rifigurazione dell’uomo sfigurato nella pittura di Mušič e Bokor pp.419-428 di Sylvie Courtine-Denamy
1. L’iconografia del razzismo;
2. Figurare l’infigurabile.

V. «Tornino i volti»

“I visi spenti”. L’antropologia pelagiana di Primo Levi pp.431-445 di Irene Kajon
1. Il giudizio morale e “la zona grigia”: il Bene al di là dell’essere;
2. Dal libro di Giobbe alla scoperta dei buchi neri: elogio della bontà dell’uomo;
3. I volti: la riflessione sulla natura umana e le biografie;
4. La letteratura come espressione della scienza e della filosofia.

Böll: la città si è fatta straniera pp.446-458 di Lucia Borghese

Volti nel tempo: da Bergman a Tarkovskij pp.459-473 di Andrea Oppo
1. Deleuze e il primo piano in Bergman;
2. Dall’immagine-affezione all’immagine-tempo;
3. L’“obraz” di Tarkovskij. Lo specchio e il volto;
4. Oltre Leonardo. Apocalisse e rifiuto della storia.

Il tempo che cambia ogni cosa. Alcune riflessioni su tIme di Kim Ki-duk pp.474-483 di Giuseppe Tilocca
1. Kim Ki-duk: cineasta per caso in un paese senza volto;
2. Il volto e il tempo. Fisiognomica e chirurgia estetica.

Le radici di un dilemma pp.484-495 di Rossella Ghigi e Lucia Rodler
1. L’inganno della bellezza: l’antico sospetto;
2. La costruzione del bello. Dalla natura al bisturi;
3. L’evoluzione dei principi fisiognomici in epoca moderna;
4. Fisiognomica e chirurgia estetica dal XIX al XX secolo.

“Sei ancora tu?”. Pratiche contemporanee di de-figurazione del volto femminile pp.496-503 di Patrizia Magli
1. Se métamorphoser, se configurer, se défigurer;
2. Donner forme à la perte et au reste.

Il volto “sociale” di facebook. Rappresentazione e costruzione identitaria nella società estroflessa pp.504-518 di Pier Cesare Rivoltella
1. Volto e identità;
2. Il problema dell’identità in Internet;
3. La trasformazione del paesaggio: la virtualità reale;
4. La società estroflessa: pubblico e privato al tempo di Facebook;
5. La fenomenologia del volto in Facebook: l’identità come strategia e rappresentazione.

“Cara a cara”. Volto, identità, metamorfosi in Sardegna pp.519-528 di Bachisio Bandinu “Fattu a visera”; La maschera altrimenti che volto.

Gli autori pp.529-534

Indice dei nomi pp.535-543

Indice dei concetti pp.545-553

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CAMMINARSI DENTRO (288): Leggere Don Antonio Mazzi, Le beatitudini del marciapiede

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Lunedì 10 ottobre 2011

La lettura di un libro nuovo comincia così per me: sfoglio freneticamente da cima a fondo l’oggetto, cercando avidamente tutto quello che potrebbe servire a colpirmi mortalmente. Se i libri non mi fanno male al cuore, non servono a niente. Debbono cambiare la mia vita, farmi pentire di non averli scoperti prima; di non averli letti prima, se li possedevo già. Di tutto quello che è stato scritto c’è poco da salvare, si sa. Ogni volta di nuovo bisogna decidere cosa portare con sé in una situazione di pericolo. Quando, nell’agosto dell’anno 2000, mi ritrovai nel Reparto Cardiologia dell’Ospedale di Sora per un infarto cardiaco, portavo con me Moby Dick e basta.

Ogni giorno, quando mi aggiro nel mio studio in cerca di libri che spesso non trovo, perché prestati o perché fuori posto, mi domando se soffrirei e fino a che punto se un terremoto cancellasse ogni traccia di tutti quei libri. Della maggior parte, ormai, sento solo il peso, anche per la polvere che restituiscono. Allora, faccio il piccolo elenco di ciò che salverei. Al primo posto, sempre i Vangeli che comprai negli anni di Liceo, perché non hanno smesso di recare conforto nei momenti di disperazione.

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SIRMIONE DEL GARDA, 1-4 ottobre 2011 –  XXIII Capitolo di Exodus – C’è casa dove c’è festa e perdono

Il 3 ottobre, a Sirmione sul Garda, nel primo pomeriggio, al termine di un incontro con i suoi Educatori, don Antonio Mazzi ha regalato ad ognuno di noi una copia del suo ultimo libro: Le beatitudini del marciapiedeVittorino Andreoli nella sua Prefazione scrive:

Le beatitudini del marciapiede è un libro sconvolgente perché ci conduce, poco a poco, a concludere che la vita, almeno quella finora consumata, è un fallimento. e si avverte il desiderio, impossibile, di rifarla.
L’unica consolazione è he anche il suo autore, don Antonio Mazzi, scrive: «Sento, però, che ho sbagliato tutto…».
Poiché sia io che don Antonio ci siamo impegnati molto, verrebbe da concludere che ce l’abbiamo mesa tutta per fallire.
[…]
Non c’è altro da suggerire che leggere Le beatitudini del marciapiede riga per riga e sperare di non entrare in una profonda crisi depressiva. Gli unici che ne sono immuni sono i beati del marciapiede: i “nessuno”.
Insomma è un libro consigliabile solo a coloro che mai lo leggeranno!

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (287): Una società senza vergogna?

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Domenica 9 ottobre 2011

Le parole di Alessandro ieri non potevano essere più chiare: mio figlio non sa cosa sia la vergogna. Impegnato in una terapia territoriale da qualche mese presso il Centro di ascolto, Giulio si affanna a dire sì tutte le volte che gli conviene farlo, magari senza aver capito nulla di quello che gli viene detto di fare, sicuramente senza aver compreso bene cosa stia accadendo in lui, nella sua vita, nella realtà della sua famiglia, in seguito ai suoi comportamenti. Tutt’al più, afferra la situazione. Allora, corre a dire quello che egli immagina gli altri si aspettano che lui dica. Della complessa situazione esistenziale di Giulio [lo chiameremo così per non rivelare il suo vero nome] non è poi importante dire di più: sarebbe bastato anche dire: il padre di un tossicomane e suo figlio.

A noi preme qui dare rilievo al disappunto di un padre che scopre nel figlio l’assenza del sentimento della vergogna. Consideriamo soltanto per un po’ l’età e la condizione ‘sanitaria’ del figlio: 24 anni, drug free da oltre un anno. Si potrebbe obiettare a quanto sto per dire che Giulio è reduce da un programma di recupero interrotto dopo meno di un anno, quindi il suo stato ’emozionale’ non è riconducibile senz’altro a quello di ogni altro ventiquattrenne che non abbia mai fatto uso di sostanze. Il suo benessere generale consente di dire che gode di un discreto equilibrio generale.

Ritengo che la carenza morale riscontrata dal padre Alessandro in Giulio possa essere fatta risalire alla più generale condizione dei ragazzi di oggi i quali, in seguito ai mutamenti intervenuti negli stili educativi, sembrano crescere con modalità del tutto differenti da quelle che hanno conosciuto le generazioni precedenti. I testi che seguono bastano da soli a favorire la conoscenza. La convinzione che ci sia bisogno di una cultura dell’ascolto, cioè che si debba esplorare la cultura scientifica e filosofica del nostro tempo, è confermata qui.

In questo caso, parlare di cultura dell’ascolto significa che viene in nostro aiuto la conoscenza che ci viene restituita dalla Filosofia – la necessità ontologica della vergogna – e dalla Psicologia clinica – i fondamenti della vergogna -, assieme alla lettura che Pietropolli Charmet dà della condizione giovanile di oggi.
Voglio dire: se ho di fronte un giovane spavaldo, incapace di vergognarsi di quello che fa e dice, come affronterò nel corso del lavoro di ascolto una condizione che non costituisce ‘patologia’ personale e basta? Bisogna fare l’invio agli psicoterapeuti? Egli non vive come fonte di disagio il suo ‘egocentrismo’ esasperato. Non vi sembra materia di studio? che si debba comprendere a fondo cosa sia più opportuno fare? Sicuramente, sarà indicato come stile di vita e come modo di sentire una più chiara percezione dei diritti degli altri, ma questo costituisce un orizzonte di senso che è fatto sentire fin dal primo contatto: il lavoro di motivazione comprende lo svezzamento dalle sostanze e l’apprendimento di nuovi stili di vita, ma al di fuori del più impegnativo programma residenziale in una Comunità incidere sulla capacità di apprendere è compito grande. Le resistenze al cambiamento non sono solo ‘private’, cioè riconducibili a tratti della personalità e del carattere o all’educazione ricevuta a casa: i riferimenti costanti da parte di Giulio al gruppo dei pari e al mondo degli adulti sono costanti. Da parecchi mesi lo scrivente nei colloqui personali e il gruppo esperienziale in cui è inserito cercano di indicare altri modi di riflettere sull’esperienza personale, senza successo. 

Leggere

GUSTAVO PIETROPOLLI CHARMET, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, LATERZA 2008

AGNESE GALOTTI, Vergogna e immagine di sé. Un emergere di rossori, imbarazzi e timori che aprono comunque alla percezione dell’Alterità. (da Individuazione, Trimestrale di Psicologia analitica 52/2005)

CINZIA SABBATINI PEVERIERI, La necessità ontologica della vergogna, da Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 2 (2000) [inserito l’8 gennaio 2000]

ANNA MARIA BENEDETTO e ANDREA GRAGNANI, I Fondamenti teorico-clinici della Vergogna, “Psicoterapia”, 1997 Apr-Giu, 9: 47-66 – Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma

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CAMMINARSI DENTRO (286): Mancare a un appuntamento

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Domenica 9 ottobre 2011

L’attesa del 16 settembre è durata almeno sei mesi, forse sette. La notizia di un Seminario sull’Ascolto in Exodus era partita in gennaio. Allora, settembre sembrava incredibilmente lontano. Sono portato a pensare che le cose importanti, soprattutto quelle che attendono da sempre, debbano esser fatte subito. Mi sono disposto nell’attesa, immaginando che sarebbe stato piacevole raccontare l’esperienza accumulata in ventidue anni di ascolto. Ho saputo che avrei avuto dieci minuti per intervenire. Il Seminario era stato concepito così: al mattino, interventi importanti di ospiti esterni; il pomeriggio riservato agli Educatori dei Centri di ascolto di Exodus.

Ho trascorso i sei o sette mesi che mi separavano da quel giorno immaginando prima, cercando di raccogliere in una sintesi poi quello che poteva entrare in dieci minuti. Ho sempre considerato la sintesi un’abilità da curare, a cui addestrarsi, addirittura una competenza da tenere in esercizio, come se la mente dovesse ogni volta sottoporsi a una fatica di tipo diverso, radicalmente diverso rispetto all’ordinario, tutte le volte che è chiamata a produrre sintesi.

Quando ero insegnante di Italiano, inserivo nel mio Progetto didattico all’inizio dell’anno riferimenti espliciti ai metodi e ai criteri della valutazione, per ogni aspetto dell’attività didattica, dai principi ideali a quelli estetici ai principi didattici. Tra i materiali allegati al documento di programmazione, la scheda che segue sull’attività di Sintesi, che interessa direttamente la scrittura ma che vale anche per il parlato, un po’ per tutte le discipline. All’inizio dell’anno, nella quinta classe del Liceo scientifico in cui insegnavo, ho sempre proposto la Sintesi come criterio regolatore di tutte le attività, a partire dalla circostanza offerta dal Colloquio d’esame, che dura mediamente sessanta minuti. Considerando il numero delle Materie coinvolte nel Colloquio e le incombenze da sbrigare prima e dopo il Colloquio, il Commissario di una delle Materie d’Esame non aveva a disposizione per sé di più di dieci minuti. Si richiedeva da una parte e dall’altra il ricorso alla Sintesi. Durante l’anno i ragazzi dovevano dedicarsi sistematicamente al lavoro di analisi e successivamente dovevano riferire i contenuti disciplinari in tre o quattro minuti.

L’esercizio di scrittura deve mirare, tra l’altro, alla produzione di testi sintetici. Brevità e concisione, essenzialità e chiarezza, esausti- vità e ricchezza di collegamenti sono alcuni degli aspetti, delle caratteristiche di un testo sintetico.

La sintesi è il risultato della riorganizzazione delle conoscenze, la loro utilizzazione in contesti nuovi, con il ricorso sempre diverso a categorie unificanti. La sintesi presuppone l’analisi, la classificazione e la gerarchiz- zazione delle conoscenze. Si avvale delle tecniche di scrittura che prediligono l’ipo- tassi (subordinazione sintattica) e il ricorso a un lessico specialistico (terminologia settoria- le, cluster), il riassunto e l’argomentazione, diagrammi, schemi e mappe concettuali. I metodi propri dell’apprendimento cooperativo (brainstorming, scrittura collaborativa, iper- testualità, ipermedia) sviluppano le abilità di sintesi. Sintesi è uno degli elementi della tassonomia degli obiettivi cognitivi di Bloom.

APPROFONDIMENTI TEORICI: La sintesi è un obiettivo di trasfert, cioè si riferisce a un universo non circoscritto che non può essere del tutto noto. La sintesi tende a trasferire i comportamenti appresi da un contesto all’altro estraendo gli elementi delle espe- rienze anteriori (analisi) per ricombinarli (sintesi) nella nuova situazione.

Insomma, prima di partire per Milano, ero consapevole della sfida: si trattava di dire le cose più importanti per me, come Educatore, in non più di dieci minuti.
Ho elencato per me otto direzioni di ricerca, perché mi premeva solo indicare le questioni aperte:

  1. la relazione d’aiuto (che tipo di rela- zione è la relazione d’aiuto?);
  2. il colloquio di motivazione come ter- reno elettivo dell’incontro con l’altro (che cos’è un colloquio?);
  3. le emozioni degli operatori implicate nella relazione d’aiuto (quali emozio- ni intervengono a favorire/ostaco- lare il ‘progresso’ della relazione?);
  4. il tempo della coscienza nell’opera- tore (nei processi empatici che si attivano come è operante il senti- mento del tempo?);
  5. la voce umana: quale ruolo svolge nella relazione?
  6. le parole, i discorsi, il linguaggio: quale ruolo svolgono nella relazione d’aiuto?
  7. la vita dell’altro: come si fa esi- stenza sotto i nostri occhi?
  8. per quali vie il frammento si fa racconto, grazie al nostro inter- vento?

Le risposte parziali di cui dispongo sono le seguenti:

  1. la relazione d’aiuto è relazione sociale;
  2. nel colloquio con se stessi e con l’altro, la verità è il tono di un incontro;
  3. le emozioni implicate nella relazione sono tutte relative al tempo vissuto; il dinamismo etico da imprimere al ritmo della vita personale dell’altro è ‘veicolato’ da un’idea dell’esperienza come ‘cammino’ e non come ‘vissuto’; ‘camminare’ è possibile, a condizione che il tempo della coscienza sia ‘curato’;
  4. il tempo con i suoi ritmi è scandito da resistenze e ambivalenze, angustia della mente e apatia dei sensi, quando non anche aridità del cuore; il tempo debito atteso non è la giusta distanza ma la qualità dell’accordo;
  5. la voce è la via d’accesso all’invisibile dell’esperienza personale;
  6. la dimensione linguistica è operante nel colloquio di motivazione per il ricorso che facciamo a metafore e paradossi, allegorie e simboli; l’accesso al simbolico è indicato come obiettivo da conseguire;
  7. l’esistenza-progetto è descritta e suggerita come meta dell’azione, da conseguire con lunghi esercizi spirituali; l’equilibrio interiore e la pace non sono semplici ‘prodotti’ di una guarigione o di un generico cammino comunitario;
  8. il nostro parlato è costruito come continuum dell’esperienza comune, e poi come file di continuità che si suggeriscono nella vita dell’altro.

Fin qui lo schema. Sia le domande che le risposte avrebbero dovuto dare l’idea della grandezza delle questioni che proponevo. Dire poi che sono questioni destinate a rimanere aperte significa che le mie risposte non sono le uniche possibili e che i progressi delle conoscenze e dell’esperienza ci aiuteranno sicuramente a definirle meglio e a rispondere in modo sempre più accurato.

Quando è arrivato il mio turno, pressato da emozioni di varia natura e provenienza generate dalle cose importanti ascoltate e vissute durante la giornata, invece di correre alla lettura delle otto questioni, mi sono imbarcato in un’inutile introduzione, a causa della quale a un certo punto mi è stato fatto notare che erano passati già undici minuti! A quel punto, senza capire cosa stesse accadendo, ho continuato a parlare di corsa, riducendomi a leggere le questioni, senza poter dire nulla a chiarimento delle cose più ardue che vi erano contenute. Il treno ormai era passato, come si dice comunemente.

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CAMMINARSI DENTRO (285): Elucubrazione diurna

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Sabato 8 ottobre 2011

L’oltranza della bellezza ci vede sempre ‘collocati’ al di qua di essa! Le linee di fuga lungo le quali essa trascende il suo mero apparire non ci conducono in un ‘dove’ in cui appaesarsi e finalmente ‘stare’. Chi può dire di avere mai ‘posseduto’ la bellezza? Da giovani è bello coltivare questa illusione. Da vecchi, ne è concessa solo la nostalgia.

La perfetta letizia, che costituirebbe l’assenza di ogni possibile discordanza dal volere altrui, è nel compimento e nella compiutezza dell’accordo con le cose. La reciprocità del riconoscimento, che è poi ciò che si richiede nelle cose umane – lasciamo stare il rapporto con il Cielo! -, è più facile forse con i ‘lontani’. Quando siamo (troppo) vicini, l’Ombra finisce per sovrastare ogni cosa: chiediamo tutto – l’Impossibile è altra cosa! – e subito, come fanno i tossici; vogliamo sapere tutto – la Conoscenza dell’altro è altra cosa! – e consideriamo tradimento ogni diversione dalla Verità supposta tale; pretendiamo garanzie contro la Morte – comprare casa, annullare le differenze, sospettare sempre, perdonare mai – e nascondiamo accuratamente sotto il tappeto le scorie della vita, i dettagli fastidiosi, le piccole incongruenze, perché la superficie dell’anima sia sempre linda e trasparente.

La trasparenza della coscienza oggi non è facile come ai tempi di Sartre, che ne aveva fatto una religione. Egli diceva che non c’è niente di peggio della vischiosità della coscienza: bisognerebbe combattere sempre la malafede, la falsa coscienza, l’ipocrisia… Certamente, ambiguità e ambivalenze non sono tollerabili. C’è da chiedersi, però, a questo punto, cosa sia amabile, cosa si possa amare. Dopo aver professato per tutta la vita l’inutile religione secondo la quale bisogna rendersi degni di essere amati – è assodato, ormai, che l’amore non bisogna meritarselo! – mi si dice che le persone debbono essere amate così come sono. E questo suona bene. Ma se l’altro è anaffettivo o immaturo o privo di identità o malvagio o dipendente da altre personalità o analmente attaccato al denaro o PRIVO DI INTELLETTO D’AMORE, il “Sentire” di cui si parla tanto non sarà uno ‘strumento’ da ‘accordare’?

Non basta dire affetto sentimento passione sensibilità apertura e via esaltando, per poter dire che ci ritroviamo di fronte a un esatto sentire, come mi insegna Roberta De Monticelli. Cosa ama in me una persona anaffettiva? Cosa sente? Cosa sto amando di una persona priva di identità? Quale letizia ricaverò dalla relazione unilaterale con una persona malvagia? Quale gusto della libertà ricaverò dalla frequentazione di una persona che dipende eternamente da altri? Quale leggerezza mi regalerà chi vede solo ciò che vedono i suoi occhi (magari con l’etichetta del prezzo ancora incollata sugli oggetti d’elezione)? Ma, soprattutto, ha senso parlare d’amore in presenza di persona che non abbia intelletto d’amore?

Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a rispetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
(Dante Alighieri, Vita Nova, XXIX)

Io credo che ogni epoca debba riscrivere il trattato “Sull’amore”. Gli straordinari mutamenti intervenuti nella sensibilità – io parlerei di una vera e propria mutazione antropologica che ha investito negli ultimi quarant’anni maschi e femmine – dovrebbero farci sentire più liberi di esprimere i nostri sentimenti. Non solo per sottrazione – o per negazione – possiamo dire ciò che siamo, ciò che vogliamo. Abbiamo, addirittura, troppe ragioni – come direbbe Musil – rispetto al nostro tempo, che si attarda sull’osceno (cioè, sulla tendenza a sbattere sulla scena il contenuto della propria coscienza, per denaro o per trovare lì senso e ‘felicità’). Molti capitoli di quel trattato sono già stati scritti da ognuno di noi. E si tratta di scoperte, non di riscoperte di valori antichi: diversa è la nostra sensibilità. Molte cose hanno lo stesso nome, ma non corrispondono minimamente a quello che sentivano le epoche precedenti. Ci sono giorni in cui penso che il fondo di impossibile che è ‘contenuto’ nell’amore sognato è in quella misura che chiediamo e che vorremmo arrivasse non richiesta, perché veramente dall’altra parte c’è un esatto sentire che si accorda con il nostro sentire. Questo ‘chiarissimo’, come lo chiamò Freud, fa soffrire, perché è oggetto di diniego. Cercando di istituire file di continuità, ci perdiamo. Allora, forse sarebbe utile fermarsi e aspettare, forse piangere sommessamente, ma non c’è rimedio: chiediamo l’impossibile. Giustamente, Pavese chiude uno dei suoi “Dialoghi con Leucò” più belli con le parole: “Chiedi troppo, Thanatos”. Si riferiva al fatto che il mortale solleva lo sguardo verso la dea. Thanatos chiede di rinunciare. La risposta è in quelle parole bellissime: chiedi troppo.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (233): Leggere DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini

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demetrio

DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2010

Intervento di Duccio Demetrio al Festival biblico di Vicenza (28 maggio 2011) – Audio e Testo


Indice del volume:

Con sguardo preoccupato: Cronaca di un’idea
1.  Maschi e uomini: Una specie interiore?
2.  In un corpo di donna: Miti e storie
3.  Figure d’uomo nel tempo: Quando Narciso è triste
4.  La tragicità maschile: Nel labirinto, non si estingue l’eroe
5.  In fuga da se stessi: L’epica della solitudine
6.  Ritratti virili: Nobili d’animo e di silenzi
7.  A scuola dalle donne: Esercizi per maschi affaticati
8.  Un commiato incruento: Per dimenticare Giuditta

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Lo stile latino preferisce il concreto all’astratto. Esso ‘direbbe’ “l’uomo interiore”, non “l’interiorità maschile” E Duccio Demetrio, che pure intitola la sua opera “L’interiorità maschile”, a pagina 44 – discutendo di “Chirone: l’uomo completo” – per la prima volta scrive: “l’uomo interiore” (non “il maschio interiore”). Nella pagina successiva si dedica ad una “Lode agli uomini interiori”. Un ulteriore ‘passaggio’ è dato da ‘uomo’ rispetto a ‘maschio’.

L’opera si apre con un auspicio che l’Autore rivolge a se stesso: vorrebbe scrivere come uomo, non come maschio. Dunque, più che al maschio interiore è interessato all’uomo interiore. D’altra parte, l’interiorità maschile è cosa che pertiene all’uomo, più che al maschio. E’ più corretto dire, allora, l’uomo interiore.

Cioè che è in questione qui è l’interiorità dell’uomo, del maschio come della femmina. Il titolo va bene, perché è chiaro: allude alla condizione in cui si ritrova il maschio, per cui ha da realizzare la propria natura umana, deve crescere a dignità di uomo, ergendosi al di sopra dell’appartenenza di genere, se per genere si vorrà intendere il genere maschile e il genere femminile. A me piace dire: il genere umano maschile e il genere umano femminile, dove l’accento è posto su umano, più che su maschile e femminile.

Avevamo intitolato questo post Padroni di sé per il fatto che in interiore homine habitat veritas, cioè la verità abita nell’interiorità dell’uomo, come ci ha insegnato Agostino. E nella nostra interiorità troviamo non solo Dio, ma anche noi stessi. Prima di tutto noi stessi. Demetrio scrive: «L’interiorità esiste, è autentica sempre; anche quando medita sui peggiori livori e sui più ignobili misfatti» (p.71). E’, dunque, facendo i conti con ciò che noi siamo veramente che arriveremo a realizzare una qualche forma di governo della nostra vita. Agostino dice ancora in te ipsum redi, ritorna in te stesso. E’ l’anima il luogo dell’incontro con la verità. Al di là di Dio, dicevamo, prima di tutto incontreremo noi stessi, la nostra verità. Allora, bisogna dilatare lo spazio della propria interiorità, facendone la sede della propria coscienza, per potersi realizzare come soggetti morali.

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L’opera di Demetrio è dedicata

A tutte le donne che ci aiutano a interrogare la vita interiore, senza fare troppe domande alle nostre solitudini.

A pagina 15 si legge:

Interiorità è pensare, custodire intimità, è avere una memoria alla quale poniamo domande, è tutto quanto non può sfuggire alla coscienza. L’interiorità è preoccupazione etica, è propensione filosofica e artistica, è vocazione religiosa o soltanto sensibilità per quanto, della vita, non riusciamo sempre a comprendere. Nessuno, il bruto quanto l’animo migliore, ne è esente. Varieranno i contenuti e le tensioni interiori, ma tanto il criminale quanto l’uomo integerrimo ne hanno una. Chi di più e chi di meno, ognuno ama coltivarla e non si astiene dal farne apertamente argomento di discussione anche con altri, con i quali condivide identiche sensibilità: in ragione della propria storia, di consuetudini educative apprese. Nella caparbia volontà di non voler vivere solamente di apparenze. E’ a questo punto che le qualità interiori si divaricano: per taluni sono fonte di una ricerca continua, per altri sono lo strumento per pensare (anzi per covare), non visti, pensieri e azioni non particolarmente elevati. O funzionali ai propri più disparati tornaconto.

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Saltando a una rapida conclusione, a proposito della necessità di attivare gli strati profondi della propria sensibilità ci è di aiuto quanto afferma Duccio Demetrio nel saggio contenuto in Adultità, che si apre così:

In una recentissima intervista, Pierre Hadot ci ricorda che: «In ambito filosofico, l’esercizio spirituale può considerarsi come una pratica volontaria, tutta personale, destinata a provocare una profonda trasformazione dell’individuo, una profonda metamorfosi del sé». E prosegue: «Per alcuni filosofi antichi, questa pratica potrebbe essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare le difficoltà della vita: la malattia, la povertà, la mancanza del necessario, la variazione improvvisa della fortuna impongono un esercizio interiore che ci aiuta nella quotidianità e, nello stesso tempo, ci insegna a ragionare e a interiorizzare il sapere» (Intervista a Pierre Hadot a cura di N.Ordine, Corriere della sera, 27 febbraio 2008, p.37).

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… visto da Ada Ascari, della Libera Università dell’Autobiografia

… visto da Giorgio Macario, della Libera Università dell’Autobiografia

… visto da Paolo Ferrario

… visto da me: Ciò che sono diventato. Al di là e oltre ciò che credevo di essere

 Dal sito SiamoDonne: Intervista

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DUCCIO DEMETRIO, Dia-logo versus mono-logo? Riflessioni sull’esercizio autobiografico come incontro filosofico (contenuto in Adultità. Rivista semestrale sulla condizione adulta e i processi formativi, n.27, marzo 2008 – numero monografico intitolato Le pratiche filosofiche nella formazione: imparare a vivere, a cura di Romano Màdera), pp.7-12

Indice del saggio:
Preambolo
Esercizi filosofici e tenacia introspettiva della scrittura di sé
Non dimenticare la lezione fenomenologica
L’autobiografia come stile filosofico e di vita

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DUCCIO DEMETRIO, L’educazione è interiore. E’ autodisciplina che lascia e cerca tracce invisibili (contenuto ne L’educazione non è finita, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2009), pp.139-144

Tutta la seconda parte dell’opera è un’illustrazione dell’idea dell’educazione come autodisciplina interiore:
I. L’educazione è autodisciplina – Perché deve tornare nelle nostre mani, pp.109-12
II. L’educazione è liberale – E’ autodisciplina che non tollera gli oltraggi del potere, pp.123-130
III. L’educazione è personale – E’ autodisciplina che ci rende unici e irriproducibili, pp.131-137
IV. L’educazione è interiore – E’ autodisciplina che lascia e cerca tracce invisibili, pp.139-144
V. L’educazione è generosa – E’ autodisciplina dei diritti non solo verso se stessi, pp.145-148
VI. L’educazione è indocile – E’ autodisciplina del dovere di essere indisciplinati, pp.149-151

[ Post in progress ]

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (233): Leggere DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini

Steve Jobs è morto

Uno sfondo totalmente bianco. Poi, a sinistra, una scritta nitida, essenziale, elegante, così com’è stata la sua vita: “Steve Jobs 1955-2011”. E a fianco una sua foto di qualche anno fà, ancora in ottima salute. Nessuna parola, nessuna frase. Poi, se uno clicca sulla foto, un breve ricordo, commosso e toccante, della Apple: “Apple ha perso un genio visionario e creativo e il mondo ha perso un incredibile essere umano. Quelli di noi che hanno avuto la fortuna di conoscerlo abbastanza, e di lavorare con lui hanno perso un grande amico e un mentore d’ispirazione. Steve lascia una compagnia che solo lui avrebbe potuto creare, e il suo spirito sarà per sempre alla base di Apple”. [dal sito di Repubblica]

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CAMMINARSI DENTRO (284): Non c’è «esperienza della libertà»: la libertà stessa è l’esperienza (Jean-Luc Nancy)

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Mercoledì, 28 settembre 2011

Dentro le emozioni degli Operatori, nella relazione d’aiuto, c’è un ‘implicito’ che è dato dalle preconoscenze che ‘accompagnano’ quelle emozioni. Esplicitarle tutte, un po’ alla volta, è uno dei compiti di questo camminarsi dentro. Ritornare infinite volte su di esse, con l’aiuto di teorie rivali, è un modo per rendere trasparente un lavoro nel quale ne va della vita delle persone che si affidano a noi. L’approssimazione crescente alla verità rende sempre più chiaro e sicuro l’intervento. La scoperta, che non è di oggi, che non di verità si tratta ma dell’esistenza delle persone, che si aiutano una alla volta, conduce all’unica verità che ci interessi qui, e non solo qui: è solo dentro la relazione che si istituisce il senso delle cose che ci stanno a cuore.

Parlare di libertà non è voler discutere di teoria a tutti i costi: essere consapevoli di quello che spinge ad agire in un modo o nell’altro non è senza conseguenze nella conduzione di un rapporto umano.

In partenza, cioè quando ho iniziato ad insegnare (1973) e poi quando ho avviato l’esperienza dell’ascolto (1989), ero animato dall’idea che compito dell’educazione è insegnare a tutti a conoscere la realtà. La conoscenza come mezzo di liberazione personale dai ceppi dell’ignoranza e del pregiudizio. Lo studio come compito che dura tutta la vita. Ancora oggi mi piace dire che ‘vado a lavorare’, cioè a studiare. Tutto quello che riferisco di Filosofia, ad esempio, è frutto di 45 anni di studio. Dopo aver conseguito la laurea in Filosofia sono rimasto studente (autodidatta) di Filosofia. In quarta ginnasio scoprii con i miei due amici più grandi La psicoanalisi di Bonaventura in Biblioteca. Da allora, prima ancora di scoprire l’esistenza della Filosofia, incominciai a studiare la psiche. Ancora oggi è difficile districarsi tra psiche, spirito, anima. Difficile dire chi io sia – come soggetto – e dove siano in me quelle cose che chiamiamo psiche, spirito, anima. Forse, con Roberta De Monticelli, debbo ‘concludere’ provvisoriamente che sono persona. Quale sia, però, il mio fondamento e cosa io ci faccia qui non è del tutto chiaro. So molte cose di me, ma non sono del tutto padrone di me. Credo che la mia libertà dipenda parecchio dalla libertà degli altri con i quali mi ritrovo a vivere. Essi arricchiscono la mia libertà, ma qualcuno la limita gravemente…

Sartre mi ha insegnato che l’uomo è libertà in situazione. Situazione è tutto ciò che non possiamo scegliere noi, dalla città e dal giorno della nostra nascita alla famiglia…

Pareyson mi ha insegnato che il rapporto originario non è tra libertà e necessità, ma tra la libertà e il nulla.

Nancy mi ha insegnato l’abisso della libertà, che arriva ad essere accanimento della libertà contro se stessa.

De Monticelli mi ha insegnato che cos’è una scelta.

Le mie fonti, riportate nell’ordine in cui le ho conosciute, indicano un cammino avviato nel 1969, quando iniziai a lavorare sulla tesi di laurea – una lettura de L’essere e il nulla di Sartre – , tre anni prima di discuterla:
JEAN-PAUL SARTRE, L’essere e il nulla (1943), IL SAGGIATORE 1965
LUIGI PAREYSON, Filosofia della libertà (1988), IL MELANGOLO 1989
JEAN-LUC NANCY, L’esperienza della libertà (1988), EINAUDI 2000
ROBERTA DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, GARZANTI 2009 

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Il pensiero di Cacciari sulla libertà deve essere riportato integralmente, almeno per quello che mi riguarda qui.

Diciamo libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola. – B. SPINOZA

Basta con l’insensato interrogarsi sull’innocenza o meno di Dio. Il nostro arbitrio è servo. Ma questo cosa vuol dire? Che l’uomo deve agire nel suo mondo come se fosse perfettamente libero. In caso contrario, presupponendo di non essere libero, finirebbe per non poter più agire, nella percezione che in ogni caso il proprio destino sia già segnato. L’uomo non può sapere nulla del proprio destino, e dunque deve agire nel mondo, gettato nel mondo, come se la sua salvezza dipendesse da lui. – M. LUTERO

È impossibile dimostrare la nostra libertà, è impossibile provare che siamo liberi.
E’ vero che io non posso dimostrare di essere libero, ma è vero altresì che non posso vivere senza questa idea.
La libertà è il presupposto di ogni nostro agire; ma come tutti i presupposti, come tutti i principi primi, è indimostrabile, è necessaria ma indimostrabile.
Il principio di identità e di non contraddizione non è dimostrabile, è intuibile, esso presiede a ogni nostro argomentare, ma non è a sua volta dimostrabile: il primo principio è il fondamento.
In questi stessi termini dobbiamo pensare la libertà: essa è il fondamento di ogni nostro agire, ma non è, appunto, dimostrabile, come non sono dimostrabili tutti i presupposti, i quali rimangono tuttavia necessari.
Se vogliamo, la libertà è una congettura, ma una congettura necessaria. Vorrei aggiungere, per finire: non sono in definitiva congetture tutte le nostre verità ultime? Tutto ciò che ci sta veramente a cuore, tutto ciò per cui viviamo e a volte moriamo, non sono forse congetture? Lungi dall’essere le cose più deboli ed evanescenti della nostra vita, non sono forse proprio le congetture, gli errori originari, le insopprimibili supposizioni le cose più necessarie alla nostra vita? Non è forse l’indimostrabile, l’inattingibile, l’incatturabile ciò che ci sta più a cuore?
La libertà appartiene appunto a questo nostro fondamento assolutamente infondato, a questo nostro originario che non potrà mai essere provato, che non potrà mai essere dimostrato, che non potrà mai essere analizzato come analizziamo le cose e i fenomeni. Ma che non sarà mai revocabile fin tanto che pensiamo. Pensando infatti siamo spinti lontano dal dimostrabile, dal catturabile, dal fenomenico, verso il noumenico, verso ciò che è soltanto idea. E all’ambito dell’idea non revocabile, cui siamo davvero destinati, appartiene la libertà. Vi è cioè un destino, e questo sentiamo nella nostra mente.
In questa porzione di cosmo che è la nostra mente si mostra un destino, una necessità per noi: pensare che siamo liberi.
MASSIMO CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, Liberi di donare

[La parola “volontariato” non rende adeguatamente il significato del dono, che si fonda sulla libertà intesa come responsabilità.]

Premessa

Tenterò di riflettere sui fondamenti del volontariato, ossia la sua ragione di fondo. Intanto, in senso provocatorio, mi chiedo se il termine volontariato renda l’idea. Forse non fa giustizia delle ragioni del volontariato. Vorrei ricordare quei versi di Dante nel canto di Paolo e Francesca, quando dice “…Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l’aere dal voler portate”. Qui le anime di due dannati che hanno sottomesso la ragione al loro arbitrio vengono ritratte volando per l’aere dal voler portate. Cioè la volontà può essere ritenuta causa sui: la nostra volontà, se ci pensiamo, è sempre già accaduta. La nostra volontà segue necessariamente il nostro essere. Se ci limitassimo alla nostra volontà dovremmo dire che il nostro operare segue al nostro essere.

Volontà e libertà

Ritengo che non vi sia nessun sviluppo lineare tra volontà e ciò che il volontariato intende. Cioè il volontariato parla di volontà, ma intende un’altra cosa, che non ha nessun rapporto semplice, lineare, univoco, con la volontà. Intende cioè la libertà. Ma libera non è mai la volontà in quanto tale. Ciò che noi possiamo dire è che desideriamo ardentemente di essere liberi, però non c’è nessuna dimostrazione possibile che siamo effettivamente liberi. Per affrontare il problema dobbiamo procedere fino a disperare della nostra volontà: lì vi è il contraccolpo che dà vita al volontariato. Cattivo nome, io ritengo. Perché doveva inventare un nome che non ha la sua radice nella volontà, ma nella libertà. Se noi comprendiamo come sia impossibile dare una dimostrazione razionale della libertà e tanto più della volontà, ebbene se noi giungiamo fino a questo fondo, fino all’angustia dicevano i padri medievali, fino a sentirci soffocare dall’impossibilità di definire ciò che ardentemente desideriamo, cioè l’essere libero, da lì scatta il fatto di essere costretti a prenderci cura di questa nostra angustia. La volontà si vuole libera, decide di essere libera dal fondo della sua humilitas, perché noi reagiamo a questo soffocamento quando comprendiamo quanto ardentemente desideriamo ciò che ci è impossibile definire. Quando comprendiamo che non siamo in grado di dirci liberi, di dirci causa sui. La libertà è la volontà che si vuole libera, che decide per la propria libertà, o meglio ancora che crede nella propria libertà. Il volontario è colui che crede nella propria libertà, perché sente fino in fondo insopportabile il soffocamento, l’angustia per la necessità, propria e di chiunque altro. E crede di potersi far libero. Crede, ma non è possibile dimostrarlo. Questo è un fatto fondamentale, perché su questa base il volontario è sempre caratterizzato da una profonda humilitas e da una profonda insecuritas. È davvero nel suo atteggiamento l’opposto di alcunché di confessionale e di fondamentalista, proprio perché è colui che cerca disperatamente di farsi libero e di fare libero. E questo essere insecurus, humilis lo caratterizza laicamente rispetto a tanto fondamentalismo laicista che circola. Quindi il volontario è il vero laico, perché il vero laico dal punto di vista filosofico razionale è colui che sa, ma mentre il pensiero puramente laico come quello di Spinoza si conclude necessariamente in una posizione scettica, il volontario decide, e questo non ha a che fare con un fondamento razionale, decide o scommette di credere di poter essere libero e di poter fare libero.

La responsabilità come risposta

Il volontario è quello che risponde allo stato di necessità, colui che risponde all’angustia, propria e a quella degli altri, perché vede il mondo dominato dalla necessità, e questo gli è insostenibile e inaccettabile e perciò crede di poter essere libero. La responsabilità è un grande nome che non può continuare ad essere ridotto ad un’etica del calcolo razionale. La responsabilità viene da un termine impegnativo. Spendo in greco voleva dire “libare agli dei”. E respondere in latino viene dallo stesso termine da cui viene sposare, cioè una promessa che ti impegna integralmente. Il volontario è colui che risponde, cioè colui il cui esserci è determinato dal tentativo, dalla ricerca di dare risposta all’angustia, allo stato di massima necessità, di massima sofferenza. Che è di ognuno di noi nel momento in cui sente che ciò che massimamente desidera, l’essere libero, non gli è afferrabile, non è determinabile. Allora c’è la simpatia, la consofferenza. Il termine chiave da usare è responsabilità, ma secondo il grande impegno del termine. Si risponde alla disperazione. A colui che non pensa più di poter essere salvo, di potersi conservare. E ciò propriamente fa il volontariato, questa è la sua cura. Questo significa essere figli, perché è figlio colui che risponde, che necessariamente è in relazione, perché il figlio è inconcepibile senza una radice, un’appartenenza, senza l’humilitas. Cioè il fatto di sapere che la sua volontà è determinata, che sono una serie di cause che hanno necessitato il suo volere. E quindi la libertà del figlio si determina tutta nella capacità di rispondere. Ecco l’abisso con la concezione con-temporanea di libertà. La libertà come idea di obbligazione non è un concetto solo cristiano o islamico, è un’idea romana. Quando la libertà non è obbligazione i romani la chiamavano licentia. C’è la libertà che è obbligazione e c’è la libertà che è licenza e che non è libertà, perché la libertà è tutta nella capacità di rispondere, ma dove la risposta non è quella del papà buono, ma quella del servo co-sofferente: niente di filantropico.

La radicalità del dono

Ormai certi termini stanno perdendo ogni significato, li usano tutti dappertutto. Libertà, responsabilità, democrazia, sono diventati flatus voci, musica d’atmosfera. Bisogna ridefinire i termini e su questa base definire da che parte stare. Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come responsabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamente nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabilità, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella risposta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che dovrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude necessariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da questo punto di vista l’immagine più propria della libertà. Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta donata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico. E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabilità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radicalissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei servo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili. Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qualsiasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte precisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (283): La profondità del Volto

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Mercoledì 28 settembre 2011

Il volto è l’anima del corpo, ma non è faccia, pura esteriorità, superficie. Il volto è la profondità della faccia, è quel rinvio di cui sempre parliamo quando accenniamo all’invisibile che si mostra ma che pure subito si ritrae, si nasconde. I modi propri di quella cosa che è una persona di sottrarsi alla vista non è un eclissarsi in permanenza: non perdiamo di vista qualcosa che pure è ancora lì davanti a noi. Piuttosto, noi non riusciamo a cogliere fino in fondo, in tutta la sua estensione e in tutta la sua profondità, la realtà di ciò che ci si mostra.

Come tutto ciò che si mostra a noi il volto ha una sua profondità, una ulteriorità di senso che all’inizio non riusciamo a dire compiutamente. Non il colpo d’occhio o l’intuizione improvvisa basteranno a cogliere l’oggetto. Ma poi, si tratta di un oggetto? Se diciamo che è l’anima del corpo, se esso partecipa delle cose immateriali, si lascerà afferrare come riusciamo sempre a fare con tutto ciò che chiamiamo oggetto? D’altronde, se non si lascia afferrare è proprio perché non di un semplice oggetto si tratta, né di un oggetto semplice.

Potremmo obiettare che c’è un difetto di comprensione dalla nostra parte, che a ben guardare si può arrivare a cogliere qualcosa di ancor più essenziale, che sia rivelatrice di ciò che sta a fondo, oltre la pura superficie: magari un frammento di senso, la spia di un modo di sentire, un atteggiamento fondamentale perché ripetuto e distintivo, tra i tanti… Sicuramente, occorrerà un supplemento di ‘sguardo’, un’attenzione maggiore, un interesse, quasi una cura, per arrivare a dire che sentiamo la presenza di un volto che è questo e questo per noi. Occorrerà un sentire, più che un’intuizione e basta.

Dalla parte dell’oggetto, poi, diremo di ogni persona che possiede un volto, cioè una storia, un linguaggio, un senso. Saranno volto per noi le file di continuità istituite dall’altro per dare senso ai giorni, e se non è così parleremo di un volto senza storia, ma pur sempre volto: disorientamento, smarrimento, perplessità, insecuritas affioreranno alla superficie inequivocabilmente. Saranno volto le parole e le voci e i suoni e i discorsi e la domanda muta d’amore e tutto il resto del nostro inesausto dire. Sarà volto poi la felicità dell’opera, il sì alle cose, l’approdo alla chiarezza di sé, il consentire agli altri volti, l’attento sentire le presenze altre sulla scena del mondo.

Si richiede allora un lavoro, dalla nostra parte, teso a dare un volto alle cose, alle persone. Se c’è il rischio di chiamare profondità la grandezza di uno smarrimento in persona che invece non possieda una grande profondità di sentimento, è certo che dall’esattezza del nostro sentire dipende la possibilità di cogliere e dare senso a un volto che esprima storia, linguaggio, senso in una misura che autorizza a parlare della profondità di un volto che è sempre più che faccia, più che ‘simpatica’ espressione di sé: dal nostro sentire, cioè dalla nostra capacità di attivare gli strati profondi della nostra sensibilità, e dall’esattezza del nostro sentire, cioè dalla nostra capacità di cogliere ciò che l’altro è nella sua natura più profonda dipende la possibilità di dare un volto all’altro, cioè di riconoscere veramente ciò che egli è intimamente, ciò che propriamente, cioè essenzialmente è.

Al sentire è sempre associata, fino ad esserne costitutiva, la nostra moralità, cioè l’orientamento personale al valore. Un esatto sentire non mancherà di cogliere in un volto il personale orientamento al valore, cioè il grado della moralità personale, la qualità di valore che a sua volta l’altro saprà assegnare alle cose, alle persone.

Realizzare la profondità di un volto non è un gesto semplice: si richiede l’esperienza ripetuta del contatto emotivo con la realtà umana dell’altro; occorre percorrere i sentieri tracciati dall’anima nel tempo, per fare di una vita una biografia. Un volto chiede di essere narrato, non definito, chiuso in un concetto o, peggio ancora, in una semplice intuizione. Dire poi che si tratti dell’anima di un corpo è affermazione impegnativa, che richiede un supplemento di riflessione in più. Cosa sia corpo e quale relazione intrattenga quest’anima con il suo corpo è compito grande su cui bisognerà tornare ancora.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (282): Menzogna e Verità

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FESTIVAL DELLA MENTE 2011 – Sarzana, 2 settembre 2011: FRANCA D’AGOSTINI, Tipi di menzogna (video) (durata: 54:36)

Una tesi ben nota alla tradizione filosofica è quella dell’asimmetria tra verità e falsità; in pratica c’è un solo modo di dire la verità, mentre esistono molti modi di mentire. Esiste la menzogna semplice (dire semplicemente il falso), la meta-menzogna (dire di non aver detto il falso), la pre-menzogna (che prepara le condizioni per future menzogne), la menzogna senza menzogna (dire il vero, facendo credere il falso) e poi la menzogna di silenzio, di vaghezza, di ambiguità o di diversione. C’è anche la menzogna artistica (che però non è menzogna). La filosofa Franca D’Agostini propone una ricognizione dei diversi tipi di menzogna, sui quali esistono interessanti spunti nella filosofia recente, ricordando che la possibilità di mentire è la ragione pratica dell’esistenza, nella nostra mente, del concetto di verità.

Franca D’Agostini insegna Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino, fa parte del comitato scientifico della Fondazione De Sanctis e della Cattedra Galante Garrone dell’Università del Piemonte Orientale. È autrice di articoli e saggi in italiano, inglese e tedesco, collabora con La Stampa, il manifesto, e l’inserto culturale Saturno. Tra i suoi libri: Analitici e continentali (Cortina, 1997); Breve storia della filosofia nel Novecento (Einaudi, 1999); Logica del nichilismo (Laterza, 2000); The Last Fumes, Nihilism and the Nature of Philosophical Concepts (Davies Group, 2008); Paradossi (Carocci, 2009). Al problema della verità (e della non-verità) ha dedicato tre libri: Disavventure della verità (Einaudi, 2002); Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico (Bollati Boringhieri, 2010) e il recente Introduzione alla verità (Bollati Boringhieri, 2011).

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Associazione ASIA- Intervista a Franca D’Agostini del 18 giugno 2010 (in 5 parti)

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Associazione ASIA – Confronto sulla Verità tra Gianni Vattimo e Franca D’Agostini (in 3 parti: 123)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (281): Ritratto-volto-anima

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Da Panta – Quadrimestrale n.21/2003 – InGrandiMenti, a cure di Massimo Donà – BOMPIANI (40 filosofi parlano di fotografia, di ritratto e di volto e di altro ancora)

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73
Emanuele Severino
La sequenza “ritratto-volto-anima” è di derivazione platonica. Il ritratto ritrae il volto umano, ne è l’immagine; il volto ritrae l’anima, ne è a sua volta l’immagine. L’immagine – si pensa – svela e nasconde. Il che sottintende che al volto corrisponda un’anima, la quale, nel volto, si svela e si nasconde.
Ma, tutto questo, all’interno di una situazione asimmetrica. Il volto altrui è manifesto; l’anima altrui è più nascosta che manifesta. La mia anima è manifesta a se stessa; ma il mio volto è più nascosto che manifesto. Mi vedo allo specchio e mi rispecchio nelle parole e nel comportamento degli altri. Tuttavia, che l’immagine nello specchio sia il mio ritratto e che il linguaggio altrui possa ritrarre il mio volto non è qualcosa di manifesto, ma è un’interpretazione della mia anima. E’ un’interpretazione anche che il volto che ho di fronte sia il volto di un’anima altrui; però ciò che interpreto come volto di un’anima altrui è manifesto; mentre questo non si può dire del mio volto, che appare sempre in modo indiretto – in un’interpretazione, appunto. Appartiene a questo ordine di considerazioni la circostanza che i fisici aristotelici non volessero guardare nel cannocchiale di Galileo Galilei: come si può essere certi che la figura che si vede nelle lenti del cannocchiale sia l’immagine di qualcosa che non si vede a occhio nudo?
Che qualcosa sia il volto di un’anima altrui è una fede. Non è la certezza originaria, come pensa Levinas. Che l’anima altrui esista e che un certo volto ne sia il ritratto è spesso considerato un imperativo morale – o addirittura l’imperativo morale fondamentale. Che qualcosa sia “prossimo”: che qualcosa di vicino sia il volto di un’anima altrui, la quale dunque non è lontana: che quindi qualcosa sia, in quanto “vicino”, visibile (“prossimo” risale infatti a prope, “vicino”), è stabilito da una fede. L’uomo di buona volontà (o in buona fede) è, insieme, l’uomo che crede di avere attorno a sé un prossimo.
Il senso della sequenza “ritratto-volto-anima”, a questo punto, è determinato dal senso che compete alla fede e alla buona fede. La fede salva, si dice. Ma la fede è fede proprio perché non scorge la verità del proprio contenuto, cioè proprio in quanto la verità rimane per essa un “invisibile”, qualcosa che non appare. Appunto per questo l’apostolo definisce la fede argumentum non apparentium. Ma che valore salvifico può avere uno sguardo in cui la verità non appare? Ciò non significa che non esista prossimo e che il volto altrui possa essere trattato come semplice allucinazione. Significa che è tutto da ripensare il rapporto tra volto, anima e tecnica – il ritratto appartenendo infatti al regno della tecnica. Il volto appartiene a questo regno? E l’anima stessa non sta forse al centro di questo regno? (pp.72-73)

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CAMMINARSI DENTRO (280): Dare un volto alle cose

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Il volto è l’anima del corpo
LUDWIG WITTGENSTEIN

Finzione suprema o suprema menzogna? Ne converrete con me: più ‘menzogna’ che finzione! Se l’apparenza del volto fosse di per sé veicolo di verità, se dovesse indubitabilmente condurci al cuore della verità, ‘al cospetto’ delll’anima dell’altro, non saremmo già paghi del nostro sguardo? Non saremmo assolutamente certi del nostro ‘vedere’? Non sapremmo già tutto ciò che c’è da sapere?

E se è così – cioè, se siamo sempre sulla soglia, al di qua della Realtà umana dell’altro -, non siete disposti a riconoscere che, pur disponendo di volti, convinti di possedere l’accesso all’anima, in realtà non sappiamo molto di ciò che vorremmo sapere: il Segreto di un’anima, la sua vera natura, l’essenza nascosta?

Non è stupefacente il fatto che siamo protesi a cogliere un’ultima verità, la verità più vera di tutte le altre, come se la superficie delle cose fosse mera parvenza, mai una sostanziale ‘presenza’, ingannevole immagine di altro, che sta ‘dietro’ o ‘sotto’ ciò che appare?

Se pure siamo arrivati a ‘toccare’ qualche volta l’essenza, il cuore della cosa, perché poi continuiamo a cercare, magari ‘la stessa cosa’ che avevamo ‘afferrato’? Perché poi ‘la cosa’ ci sfugge?

Non è forse vero che non ci accontentiamo di quella fugace apparizione, quell’istante estatico, che troppo poco risulta se paragonato al nostro chiedere insistente?

Anche il volto cade sotto la scure del desiderio! Vorremmo appropriarci di un oggetto che oggetto non è, anche se le nostre mani corrono a disegnare la faccia che abbiamo di fronte! Quante volte le dita sapienti hanno percorso gli anfratti e si sono fermati sulle pianure facendosi lieve carezza? Ma le nostre mani conservano forse traccia del ‘possesso’ realizzato? Le nostre mani sono condannate a restare vuote!

E che dire degli occhi, che pure vorrebbero bere insaziati la luce che traspare ogni giorno, a ricordarci un’oltranza che non attingeremo mai? Non vogliamo noi forse sostare per sempre a guardare, perché sappiamo già che quando distoglieremo lo sguardo la cosa non sarà più? Questo è già più umano, più consapevole e umile saggezza di vita.

Quando impareremo a riconoscere che le cose belle, che pure sono per noi – non ci sono negate! -, non ci appartengono per sempre? Più doloroso ancora ammettere che non ci appartengono nemmeno per un giorno, per un’ora!

Cos’è allora il nostro consistere qui e ora, di fronte alla luce, se non un inesausto trascorrere da presenza ad assenza, da apparire a scomparire delle cose? Ciò che si staglia davanti a noi non è mera luce, di cui l’ombra sarebbe solo la ‘negazione’! Siamo impastati di luce e di tenebra. Il nostro apparire è in uno ritrarsi immediato. Siamo l’oscillante presenza che vive solo di memoria e oblio.

La malinconia non è altro che trascinarsi dimentichi della bellezza che pure ci sorrise poco fa. E che cos’è memoria se non la presenza a noi della lunga traccia delle cose, di un profumo che resta nell’aria, di fattezze e di ombre, di schegge vibranti e di tenue penombra, quando non il tuono che sconquassa la superficie e ci spaventa e ci abbatte? e sta lì a ricordarci che non di astratte simmetrie e armonie nascoste e proporzione e misura è fatta la cosa?

E se la cosa è persona, vivente persona, che si avvicina a noi per allontanarsi subito dopo, cosa ci sarà concesso se non che quella presenza si fermi per noi ancora un po’, magari che si installi presso di noi, nella nostra casa, nel nostro cuore, per rendere meno doloroso il tempo della necessaria lontananza, dell’assenza, della mancanza, quando non del distacco o della perdita?

Cosa vive della vivente presenza dell’altro presso di noi oltre alla viva presenza se non avremo imparato a far durare l’incanto dei giorni nei simulacri della nostra mente e nei fantasmi del nostro cuore? se non sentiremo più risuonare una voce, apparire l’immagine viva della creatura, trascorrere davanti a noi file di continuità che valgano a ingannare la Morte e a far durare per sempre un Volto, finalmente?

Cos’è volto, in fondo, se non il mito vivente che ci costruiamo giorno dopo giorno, facendo di una faccia un volto e di un giorno una serie di giorni e dei volti e dei giorni una storia, una biografia, che potremo scrivere solo noi?

A chi chiederemo compassione e conforto per i nostri giorni vuoti, se non avremo creato dal fondo di tutte le cose che ci sono più care luce e ombra, perché è di quest’ultima che vive nascostamente ciò che appare a noi e che non appare mai invano?

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (279): Nella foresta dei sentimenti

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Mercoledì 21 settembre 2011

Sabato 17 settembre, di ritorno dal Seminario nazionale di Exodus, che si è tenuto a Milano sul tema L’ascolto nella foresta dei sentimenti, ho ripreso la cura della spazio riservato a Libera Mente sul portale di Exodus.

In prima posizione ho collocato una scheda dedicata alla presentazione del Centro di ascolto di Sora, con tutti i riferimenti possibili al suo interno. Subito dopo,

La cultura dell’ascolto come cultura della relazione

MARIANELLA SCLAVI, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, BRUNO MONDADORI 2003

EUGENIO BORGNA, Noi siamo un colloquio, FELTRINELLI 1999

La categoria dell’ascolto

Lo statuto della voce nella relazione d’aiuto 

SILVIA MAGNANI e FRANCO FUSSI, Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità della voce, FRANCO ANGELI 2008 

NELLA FORESTA DEI SENTIMENTI (0): L’affettività è fatta di emozioni, stati d’animo, sentimenti (e anche atteggiamenti)

ENZO BIANCHI, sul silenzio 

Noi siamo persone

La “conoscenza personale” ovvero la conoscenza dell’altro come persona, ma anche la conoscenza dell’altro che è in me 

MICHELA MARZANO, Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, MONDADORI 2011  

NELLA FORESTA DEI SENTIMENTI (1): L’amore

Sulla funzione etopoietica della scrittura

NELLA FORESTA DEI SENTIMENTI (2): La vergogna

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