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Mercoledì, 28 settembre 2011
Dentro le emozioni degli Operatori, nella relazione d’aiuto, c’è un ‘implicito’ che è dato dalle preconoscenze che ‘accompagnano’ quelle emozioni. Esplicitarle tutte, un po’ alla volta, è uno dei compiti di questo camminarsi dentro. Ritornare infinite volte su di esse, con l’aiuto di teorie rivali, è un modo per rendere trasparente un lavoro nel quale ne va della vita delle persone che si affidano a noi. L’approssimazione crescente alla verità rende sempre più chiaro e sicuro l’intervento. La scoperta, che non è di oggi, che non di verità si tratta ma dell’esistenza delle persone, che si aiutano una alla volta, conduce all’unica verità che ci interessi qui, e non solo qui: è solo dentro la relazione che si istituisce il senso delle cose che ci stanno a cuore.
Parlare di libertà non è voler discutere di teoria a tutti i costi: essere consapevoli di quello che spinge ad agire in un modo o nell’altro non è senza conseguenze nella conduzione di un rapporto umano.
In partenza, cioè quando ho iniziato ad insegnare (1973) e poi quando ho avviato l’esperienza dell’ascolto (1989), ero animato dall’idea che compito dell’educazione è insegnare a tutti a conoscere la realtà. La conoscenza come mezzo di liberazione personale dai ceppi dell’ignoranza e del pregiudizio. Lo studio come compito che dura tutta la vita. Ancora oggi mi piace dire che ‘vado a lavorare’, cioè a studiare. Tutto quello che riferisco di Filosofia, ad esempio, è frutto di 45 anni di studio. Dopo aver conseguito la laurea in Filosofia sono rimasto studente (autodidatta) di Filosofia. In quarta ginnasio scoprii con i miei due amici più grandi La psicoanalisi di Bonaventura in Biblioteca. Da allora, prima ancora di scoprire l’esistenza della Filosofia, incominciai a studiare la psiche. Ancora oggi è difficile districarsi tra psiche, spirito, anima. Difficile dire chi io sia – come soggetto – e dove siano in me quelle cose che chiamiamo psiche, spirito, anima. Forse, con Roberta De Monticelli, debbo ‘concludere’ provvisoriamente che sono persona. Quale sia, però, il mio fondamento e cosa io ci faccia qui non è del tutto chiaro. So molte cose di me, ma non sono del tutto padrone di me. Credo che la mia libertà dipenda parecchio dalla libertà degli altri con i quali mi ritrovo a vivere. Essi arricchiscono la mia libertà, ma qualcuno la limita gravemente…
Sartre mi ha insegnato che l’uomo è libertà in situazione. Situazione è tutto ciò che non possiamo scegliere noi, dalla città e dal giorno della nostra nascita alla famiglia…
Pareyson mi ha insegnato che il rapporto originario non è tra libertà e necessità, ma tra la libertà e il nulla.
Nancy mi ha insegnato l’abisso della libertà, che arriva ad essere accanimento della libertà contro se stessa.
De Monticelli mi ha insegnato che cos’è una scelta.
Le mie fonti, riportate nell’ordine in cui le ho conosciute, indicano un cammino avviato nel 1969, quando iniziai a lavorare sulla tesi di laurea – una lettura de L’essere e il nulla di Sartre – , tre anni prima di discuterla:
JEAN-PAUL SARTRE, L’essere e il nulla (1943), IL SAGGIATORE 1965
LUIGI PAREYSON, Filosofia della libertà (1988), IL MELANGOLO 1989
JEAN-LUC NANCY, L’esperienza della libertà (1988), EINAUDI 2000
ROBERTA DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, GARZANTI 2009
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Il pensiero di Cacciari sulla libertà deve essere riportato integralmente, almeno per quello che mi riguarda qui.
Diciamo libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola. – B. SPINOZA
Basta con l’insensato interrogarsi sull’innocenza o meno di Dio. Il nostro arbitrio è servo. Ma questo cosa vuol dire? Che l’uomo deve agire nel suo mondo come se fosse perfettamente libero. In caso contrario, presupponendo di non essere libero, finirebbe per non poter più agire, nella percezione che in ogni caso il proprio destino sia già segnato. L’uomo non può sapere nulla del proprio destino, e dunque deve agire nel mondo, gettato nel mondo, come se la sua salvezza dipendesse da lui. – M. LUTERO
È impossibile dimostrare la nostra libertà, è impossibile provare che siamo liberi.
E’ vero che io non posso dimostrare di essere libero, ma è vero altresì che non posso vivere senza questa idea.
La libertà è il presupposto di ogni nostro agire; ma come tutti i presupposti, come tutti i principi primi, è indimostrabile, è necessaria ma indimostrabile.
Il principio di identità e di non contraddizione non è dimostrabile, è intuibile, esso presiede a ogni nostro argomentare, ma non è a sua volta dimostrabile: il primo principio è il fondamento.
In questi stessi termini dobbiamo pensare la libertà: essa è il fondamento di ogni nostro agire, ma non è, appunto, dimostrabile, come non sono dimostrabili tutti i presupposti, i quali rimangono tuttavia necessari.
Se vogliamo, la libertà è una congettura, ma una congettura necessaria. Vorrei aggiungere, per finire: non sono in definitiva congetture tutte le nostre verità ultime? Tutto ciò che ci sta veramente a cuore, tutto ciò per cui viviamo e a volte moriamo, non sono forse congetture? Lungi dall’essere le cose più deboli ed evanescenti della nostra vita, non sono forse proprio le congetture, gli errori originari, le insopprimibili supposizioni le cose più necessarie alla nostra vita? Non è forse l’indimostrabile, l’inattingibile, l’incatturabile ciò che ci sta più a cuore?
La libertà appartiene appunto a questo nostro fondamento assolutamente infondato, a questo nostro originario che non potrà mai essere provato, che non potrà mai essere dimostrato, che non potrà mai essere analizzato come analizziamo le cose e i fenomeni. Ma che non sarà mai revocabile fin tanto che pensiamo. Pensando infatti siamo spinti lontano dal dimostrabile, dal catturabile, dal fenomenico, verso il noumenico, verso ciò che è soltanto idea. E all’ambito dell’idea non revocabile, cui siamo davvero destinati, appartiene la libertà. Vi è cioè un destino, e questo sentiamo nella nostra mente.
In questa porzione di cosmo che è la nostra mente si mostra un destino, una necessità per noi: pensare che siamo liberi.
MASSIMO CACCIARI
MASSIMO CACCIARI, Liberi di donare
[La parola “volontariato” non rende adeguatamente il significato del dono, che si fonda sulla libertà intesa come responsabilità.]
Premessa
Tenterò di riflettere sui fondamenti del volontariato, ossia la sua ragione di fondo. Intanto, in senso provocatorio, mi chiedo se il termine volontariato renda l’idea. Forse non fa giustizia delle ragioni del volontariato. Vorrei ricordare quei versi di Dante nel canto di Paolo e Francesca, quando dice “…Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l’aere dal voler portate”. Qui le anime di due dannati che hanno sottomesso la ragione al loro arbitrio vengono ritratte volando per l’aere dal voler portate. Cioè la volontà può essere ritenuta causa sui: la nostra volontà, se ci pensiamo, è sempre già accaduta. La nostra volontà segue necessariamente il nostro essere. Se ci limitassimo alla nostra volontà dovremmo dire che il nostro operare segue al nostro essere.
Volontà e libertà
Ritengo che non vi sia nessun sviluppo lineare tra volontà e ciò che il volontariato intende. Cioè il volontariato parla di volontà, ma intende un’altra cosa, che non ha nessun rapporto semplice, lineare, univoco, con la volontà. Intende cioè la libertà. Ma libera non è mai la volontà in quanto tale. Ciò che noi possiamo dire è che desideriamo ardentemente di essere liberi, però non c’è nessuna dimostrazione possibile che siamo effettivamente liberi. Per affrontare il problema dobbiamo procedere fino a disperare della nostra volontà: lì vi è il contraccolpo che dà vita al volontariato. Cattivo nome, io ritengo. Perché doveva inventare un nome che non ha la sua radice nella volontà, ma nella libertà. Se noi comprendiamo come sia impossibile dare una dimostrazione razionale della libertà e tanto più della volontà, ebbene se noi giungiamo fino a questo fondo, fino all’angustia dicevano i padri medievali, fino a sentirci soffocare dall’impossibilità di definire ciò che ardentemente desideriamo, cioè l’essere libero, da lì scatta il fatto di essere costretti a prenderci cura di questa nostra angustia. La volontà si vuole libera, decide di essere libera dal fondo della sua humilitas, perché noi reagiamo a questo soffocamento quando comprendiamo quanto ardentemente desideriamo ciò che ci è impossibile definire. Quando comprendiamo che non siamo in grado di dirci liberi, di dirci causa sui. La libertà è la volontà che si vuole libera, che decide per la propria libertà, o meglio ancora che crede nella propria libertà. Il volontario è colui che crede nella propria libertà, perché sente fino in fondo insopportabile il soffocamento, l’angustia per la necessità, propria e di chiunque altro. E crede di potersi far libero. Crede, ma non è possibile dimostrarlo. Questo è un fatto fondamentale, perché su questa base il volontario è sempre caratterizzato da una profonda humilitas e da una profonda insecuritas. È davvero nel suo atteggiamento l’opposto di alcunché di confessionale e di fondamentalista, proprio perché è colui che cerca disperatamente di farsi libero e di fare libero. E questo essere insecurus, humilis lo caratterizza laicamente rispetto a tanto fondamentalismo laicista che circola. Quindi il volontario è il vero laico, perché il vero laico dal punto di vista filosofico razionale è colui che sa, ma mentre il pensiero puramente laico come quello di Spinoza si conclude necessariamente in una posizione scettica, il volontario decide, e questo non ha a che fare con un fondamento razionale, decide o scommette di credere di poter essere libero e di poter fare libero.
La responsabilità come risposta
Il volontario è quello che risponde allo stato di necessità, colui che risponde all’angustia, propria e a quella degli altri, perché vede il mondo dominato dalla necessità, e questo gli è insostenibile e inaccettabile e perciò crede di poter essere libero. La responsabilità è un grande nome che non può continuare ad essere ridotto ad un’etica del calcolo razionale. La responsabilità viene da un termine impegnativo. Spendo in greco voleva dire “libare agli dei”. E respondere in latino viene dallo stesso termine da cui viene sposare, cioè una promessa che ti impegna integralmente. Il volontario è colui che risponde, cioè colui il cui esserci è determinato dal tentativo, dalla ricerca di dare risposta all’angustia, allo stato di massima necessità, di massima sofferenza. Che è di ognuno di noi nel momento in cui sente che ciò che massimamente desidera, l’essere libero, non gli è afferrabile, non è determinabile. Allora c’è la simpatia, la consofferenza. Il termine chiave da usare è responsabilità, ma secondo il grande impegno del termine. Si risponde alla disperazione. A colui che non pensa più di poter essere salvo, di potersi conservare. E ciò propriamente fa il volontariato, questa è la sua cura. Questo significa essere figli, perché è figlio colui che risponde, che necessariamente è in relazione, perché il figlio è inconcepibile senza una radice, un’appartenenza, senza l’humilitas. Cioè il fatto di sapere che la sua volontà è determinata, che sono una serie di cause che hanno necessitato il suo volere. E quindi la libertà del figlio si determina tutta nella capacità di rispondere. Ecco l’abisso con la concezione con-temporanea di libertà. La libertà come idea di obbligazione non è un concetto solo cristiano o islamico, è un’idea romana. Quando la libertà non è obbligazione i romani la chiamavano licentia. C’è la libertà che è obbligazione e c’è la libertà che è licenza e che non è libertà, perché la libertà è tutta nella capacità di rispondere, ma dove la risposta non è quella del papà buono, ma quella del servo co-sofferente: niente di filantropico.
La radicalità del dono
Ormai certi termini stanno perdendo ogni significato, li usano tutti dappertutto. Libertà, responsabilità, democrazia, sono diventati flatus voci, musica d’atmosfera. Bisogna ridefinire i termini e su questa base definire da che parte stare. Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come responsabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamente nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabilità, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella risposta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che dovrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude necessariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da questo punto di vista l’immagine più propria della libertà. Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta donata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico. E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabilità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radicalissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei servo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili. Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qualsiasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte precisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato.
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