Quel cinquanta per cento che sfugge al pieno controllo

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Domenica 12 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (354): Quel cinquanta per cento che sfugge al pieno controllo

Il fallimento della propria vita sentimentale è sicuramente un evento di rilievo a cui forse bisognerebbe dedicare un po’ di tempo in più, ma è faticoso stare a ricostruire decenni di scelte, le svolte, le lunghe trepidazioni, gli investimenti, gli studi!
Ci sarebbe da esibire, infatti, anche una ricca bibliografia su amore e i suoi compagni, per documentare i passaggi da una teoria all’altra, con gli sforzi fatti per aderire sempre più alla realtà e non perseverare nell’errore.
Stare a dire di aver tentato tutto, aver provato tutto, ogni cosa e il suo contrario, per una corretta manutenzione dei sentimenti è quasi superfluo. Chi non si adopera per salvare ogni giorno la vita, per farla durare ancora?

Di tutte le teorie percorse e provate sulla propria pelle, per saggiarne la validità, quella che contempla la coesistenza di luce e ombra non è stata mai abbandonata da noi. Ancora pochi giorni fa abbiamo scoperto una perla teorica di prima grandezza: il saggio di Carlo Serra intitolato Intendere l’unità degli opposti: la dimensione musicale nel concetto eracliteo di armonia, perché convinti sempre che una più chiara visione della vita possa aiutare a viverla meglio, se si riesce a contemperare e ad accettare la contraddittorietà delle situazioni, i paradossi dell’esperienza, gli inevitabili fraintendimenti…
Abbiamo applicato la teoria junghiana dell’Ombra alla vita, suggerendo a lei di tenerne conto: una donna non è immune da errori e non è il centro del mondo e non è sempre equilibrata e razionale e ragionevole e senza emozioni…
Più che altro, si sarebbe trattato di praticare un po’ di umiltà di fronte alla vita, riconoscendo i diritti altrui, preoccupandosi del benessere della persona e curando di non procurare inutile dolore e infelicità.

Ma di tutte le cose che abbiamo sentito dire dell’amore da poeti e filosofi la più convincente è quella che fa risalire a Platone l’idea che nelle cose d’amore non sappiamo dire bene quello che vogliamo e la volontà di sapere precede e accompagna ogni esperienza amorosa: è un po’ come dire che si cresce strada facendo, che si correggono gli errori ritrovando la strada, quando una ragione qualsiasi può farci deviare o farci smarrire.
Un tempo si credeva nella serietà delle intenzioni (a questo tema Vladimir Jankélévitch dedica il primo volume del suo Trattato delle virtù). I movimenti di liberazione di ogni genere negli ultimi quarant’anni hanno travolto molte cose cattive, ma probabilmente hanno buttato anche il bambino con l’acqua sporca.
Mi sono sempre chiesto, infatti, che fine abbia fatto la serietà delle intenzioni di una persona. Come sia possibile non fondare su questa virtù umana le cose d’amore. C’è chi preferisce, invece, revocare in dubbio ogni giorno la realtà dei sentimenti, come se ogni volta di nuovo ci fosse da dimostrare che esistono!

La vera fatica è questa. E’ per questa ragione, forse, che ci ritroviamo oggi a pensare come sia possibile che incomba ancora su di noi il compito di dover dimostrare, dimostrare, dimostrare! E allegramente crediamo di poter concludere che non vale proprio la pena di impiegare i pochi decenni che ci sono rimasti da vivere a dimostrare che esistiamo, che siamo persone, che siamo fallibili, che ci accade di provare emozioni ‘sbagliate’ che ci affrettiamo subito a ‘correggere’, che non siamo interessati all’amore a pagamento e nemmeno alla pratica ripetuta della ginnastica sessuale in altri giardini.

Umberto Galimberti ha scritto un volumetto intitolato Le cose dell’amore, che dedica A Tatjana, per ragioni che mi sono in parte note e in parte ignote. L’Introduzione si apre, poi, con una massima di François de La Rochefoucauld: La cosa più difficile da trovare nei legami d’amore è l’amore.
Da una parte, ci troviamo di fronte a un fondo enigmatico e buio da cui tutti, maschi e femmine, ci ritroviamo a divinare; dall’altra, dobbiamo riconoscere che l’amore – la relazione amorosa – è un ‘recipiente’ in cui ritroveremo al mattino quello che vi abbiamo messo la sera.

Se non impareremo a fare i conti con tutto ciò che sfugge al nostro controllo, accettando le smentite che ci vengono dalla realtà, ci ritroveremo soli a suonare la cetra sotto un ampio faggio, magari vagheggiando un amore che nessuno ha conosciuto mai e che solo noi siamo in grado di esprimere.


 

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Il tempo più lungo

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Domenica 12 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (353): Il tempo più lungo

UMBERTO BOCCIONI, Stati d'animo: gli addii

Il tempo dell’amore prevede lunghi addii. Visto dall’aldiqua, il momento della rottura sembra un istante, un tempo breve come uno spartiacque, un confine, una frontiera. Immaginiamo un ultimo incontro, con qualche lacrima, magari un ultimo abbraccio o un eroico stupore e basta: un sentire adulto che tutto comprende e tutto accetta. Oppure, uno sbraitare ancora e recriminare e invocare il tempo felice dell’accordo e dell’intesa…
In realtà, nella migliore delle ipotesi, è un lungo morire, strascico di silenzi e mancate risposte, la vile prudenza di chi attende magari che si consumi il congedo in mezzo ad errori anche più grandi che è poi più difficile perdonare.
E’ importante scambiare la causa con l’effetto, come fanno i sociopatici: i nostri ultimi errori, effetto dei silenzi e delle mancate risposte, diventano causa grande e conferma della giustezza dell’abbandono.
Non dubitare della propria salute mentale è tutto: affannarsi a dimostrare, con argomenti inoppugnabili o rispolverando le teorie dell’amore che spiegano l’accaduto o che giustificano fraintendimenti e incomprensioni o, peggio ancora, risalire a una causa più antica, che assolva dalla colpa di cui ci siamo macchiati, perché vero baricentro della realtà, è inutile.
Ciò che è più difficile da accettare e che non sempre ci viene detto chiaramente – meglio rifugiarsi in uno sdegno senza parole e agitare lo spettro dell’irredimibile, dell’imperdonabile, per sentirsi al sicuro! – è questo: se alla base di un sentimento c’è la percezione delle qualità di valore di una persona, allo stesso modo l’amore, con la sua evidenza specifica, poggia interamente sull’accettazione incondizionata della persona a cui il cuore si apre; se interviene un giudizio di valore diverso, se la nostra persona ha perso il suo pregio agli occhi dell’altro, i segni saranno chiari: il silenzio del cuore è silenzio del cuore, non pudore, attesa, compunzione…
Equivocare sui segni è inutile! Essi hanno un significato. Possiamo attardarci quanto vogliamo, immaginando elaborazioni a nostro favore, che possiamo essere perdonati… Verrà il tempo il cui il tempo non è più tempo.
Allora, è salutare uscire di casa e andare a controllare che tutto sia in ordine: che il cielo sia ancora in cielo, che il fiume non abbia invertito il suo corso, che nevichi perché è inverno, che il giornalaio abbia conservato per noi il giornale come sempre. Magari il suo sorriso non sarà farmaco né rimedio ai mali che opprimono l’anima. Sentire nell’aria un profumo nuovo, di cose già viste, ma sentire l’umile splendore della vita che si impone con la sua evidenza, comunque, aiuterà a pensare che da qualche parte potremo depositare le nostre emozioni, per ingannare un po’ il cuore, che non vuol saperne di questo disincanto. C’è addirittura chi ci sorride. 


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Ci prende in giro

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Domenica 12 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (352): Ci prende in giro

Mentre apprendiamo la notizia della morte di Whitney Houston e seguiamo la rievocazione commossa della sua carriera di cantante, non possiamo fare a meno di pensare che la morte di Whitney sia stata prematura, che potesse vivere ancora, se solo fosse riuscita a vincere il demone che la spingeva verso le sostanze stupefacenti.

Questa mattina ho pensato subito a Claude Olievenstein: «Non esistono drogati felici». Noi, che forse apparteniamo alla schiera dei felici molti, non comprendiamo a fondo le ragioni degli infelici pochi. A noi sembra facile dire: ma non basta l’amore? 
Ci eravamo convinti del fatto che le mutazioni antropologiche intervenute negli ultimi decenni avessero ‘concesso’ alle donne la capacità – che è stata un risveglio – di esprimere gli strati profondi della sensibilità senza timori, di scegliere e di determinare il proprio destino…
Evidentemente, non è sempre così. Quando apriamo il nostro cuore, ci affidiamo interamente, mettiamo l’intera vita nelle mani dell’altro. L’amore è questo. E se è questo, perché meravigliarsi del fatto che spesso andiamo incontro a un destino che si rivela cosa diversa da quello che abbiamo cercato, voluto, chiesto?
Bisogna sempre ringraziare se la vita non ci prende in giro.
Talvolta, però, è così. 

 

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In memoria di Bruno Callieri

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Venerdì 10 febbraio 2012

Contributi a una cultura dell’Ascolto
CAMMINARSI DENTRO (351): In memoria di Bruno Callieri

Francesco Bollorino scrive oggi:

Bruno Callieri ci ha lasciato. Il modo per me migliore di ricordarlo è proporvi di rivedere la lunga intervista divisa in più parti che ho realizzato a casa sua nel dicembre scorso quando, presago ma lucidamente conscio della prossimità della sua fine, mi ha chiamato per lasciare a tutti noi quello che io considero il suo testamento spirituale di uomo e di maestro inimitabile.

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 SPAZIO E TEMPO TRA FENOMENOLOGIA E PSICOPATOLOGIA. Seminario con Bruno Callieri ed Eugenio Borgna.


 IV GIORNATE ASCOLANE PSICHIATRICHE 8 — 10 MAGGIO 2003 “L’ARCIPELAGO DELLE EMOZIONI” Tra vissuto, comprensione e spiegazione scientifica. ATTI DEL CONGRESSO Prof. Bruno Callieri Dal corpo della psicosomatica all’antropologia della corporeità 


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Da qualche parte

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Venerdì 10 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (350): Da qualche parte

a

Il quotidiano la Repub- blica annuncia oggi l’u- scita, per i tipi di Einaudi, dell’ultima opera di Vla- dimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incom- piuto, pp.XXVIII-220.

Articolato, come un vero tessuto vivente, lungo un percorso che trascorre dalla filosofia morale alla ri- flessione politica, dall’analisi letteraria all’esperienza musi- cale, esso trova il proprio epicentro in un’interroga- zione intensa e radicale della pratica quotidiana. Che significato conferire allo scorrere, apparentemente insensato, dei giorni? Come rispondere delle proprie azioni in un mondo caratterizzato dalla sconnessione dei valori e dall’assenza di fondamenti? E che rapporto instituire con quelle degli altri, quando esse, come nella stagione nazista – vissuta in prima persona dall’autore – assumono il volto insostenibile della menzogna e della violenza? La risposta di Jankélévitch si situa nel difficile punto d’incrocio fra irreversibilità indelebile del passato e contingenza indeterminata dell’avvenire. Come in uno spartito musicale, solo la capacità di seguire il ritmo dell’esistenza nel suo battito alternante consente di stringere in uno stesso nodo rigore e duttilità, responsabilità e intelligenza, profondità e leggerezza. Nelle pagine di questo libro si delinea, forse per la prima volta in tutta la sua complessa figura e in tutta la ricchezza dei suoi registri tematici, il profilo di un pensiero che, per la sua originalità e forza morale, trova pochi riscontri nella filosofia contemporanea. [Scheda di presentazione dell’Editore]


Il filosofo Roberto Esposito presenta oggi il libro sul quotidiano “la Repubblica”: La filosofia del “non so che”. Jankélévitch, esploratore del pensiero quotidiano.

“[…] considerando l’intera realtà un flusso temporale in continuo mutamento, egli esclude che si possa accedere all’essenza ultima delle cose, che resta così imperscrutabile e ineffabile. Ma proprio per questo, all’interno dell’unico mondo in cui si snoda la nostra vita abbiamo piena libertà di comportamento e dunque tutta la responsabilità delle nostre azioni. […] Il punto da cogliere, per penetrare nel nucleo più intimo del discorso di Jankélévitch […] è che la sfera del mistico, o del sacro, non trascende il piano quotidiano, ma fa tutt’uno con esso. […] E’ così che tutte quelle che possono sembrare delle aporie non sono altro che la paradossale convergenza dei contrari sottesa all’intera riflessione di Jankélévitch. Essi, tutt’altro che escludersi, o ricomporsi in una sintesi dialettica, si coappartengono, fino a costituire l’uno il cuore segreto dell’altro. Così accade nella sfera dell’etica, per il rapporto, apparentemente antinomico, tra l’esperienza del perdono e l’irredimibilità della colpa. Una volta fatto, il male non si cancella – nulla può portare in vita l’esistenza violata o distrutta, come quella del popolo ebraico nel genocidio. Da questo punto di vista il crimine in sé è imperdonabile. Ma proprio ciò che è imperdonabile sfida il perdono a toccare il suo margine più estremo, come un amore non ricambiato è, più di ogni altro, il “puro amore” – atto di dedizione assoluta, senza condizioni o ricompense. E’ la stessa relazione contraddittoria che lega in un unico nodo musica e silenzio. Non soltanto la musica è circondata, scandita, inaugurata dal silenzio. Nel suo fondo inascoltato, è silenzio essa stessa. La musica vive del silenzio, come nel pianissimo di Albéniz, nei passaggi tonali di Debussy, nelle battute mute di Liszt. […] E che altro è la vita, per venire all’ultimo contrasto, se non il contrario e il luogo elettivo della morte? Più che ciò che resiste alla morte […] la vita è ciò che resiste a qualcosa che è essa stessa. Essa è la prima contraddizione da cui tutte le altre provengono. Perciò l’immagine minacciosa dello scheletro con la falce è insieme errata e giusta. La morte non è un drago che aggredisca la vita dall’esterno, ma una forza della vita che, senza dirci come, dove e quando, nasce al suo interno fino ad inghiottirla nel suo vuoto di senso”.

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La nostra piccola morte quotidiana

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Giovedì 9 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (349): La nostra piccola morte quotidiana

La prima volta che abbiamo sperimentato il venir meno di nostra madre, con il semplice fatto che si sia allontanata da noi, e quando poi sia uscita di casa, o quando, ancora, una lontananza prolungata ce ne abbia fatto sentire la mancanza, è stato come morire: abbiamo sentito che potevamo perderla per sempre; abbiamo temuto per lei. E per noi. Ci siamo sentiti per la prima volta soli.

E’ stato detto autorevolmente che si è trattato dell’ingresso inaugurale della morte nella vita. Perché ‘vita’ significa pienezza, presenza, contatto, calore… ‘Morte’ significa lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita…

Tuttavia, quello che ci interessa segnalare oggi è la seconda parte del gioco del bambino, che cerca di ‘esorcizzare’ l’assenza della madre simulando la sua scomparsa e la sua apparizione: Fort significa, più o meno, ‘sparisci’; Da significa ‘riappari’. Giustamente, è stato sottolineato da Freud che la parte più impegnativa del gioco è la seconda: si tratta in sostanza di inventare, immaginare, chiamare alla vita qualcosa che non c’è, che non è più o che temporaneamente soltanto ci è stato sottratto.

Una ‘formula’ che ho usato spesso – Chi non ricorda il bene ricevuto non spera – dice la stessa cosa, a proposito della malinconia in cui precipitiamo non appena una persona a noi cara si allontani: torniamo subito a cercarla, per ristabilire un contatto, per verificare che tutto sia come prima, che siamo sempre oggetto del suo amore…

Una ragione del turbamento in cui cade chi si senta abbandonato va ricercata, paradossalmente, nella capacità di ‘ricordare’ il bene ricevuto, cioè nel continuare a credere di essere amato. Bisogna rinunciare a ‘chiedere’.

Prima non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potessi credere di poter chiedere. Ma non credevo affatto, chiedevo soltanto. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza, la vera via.

Tutte le volte, allora, che torneremo a fare esperienza della mancanza – anche più volte nel corso di una giornata -, invece di ‘sprofondare’ nella mancanza, orientando lo sguardo verso l’assenza, lamentando la lontananza intervenuta, dovremo dare spazio al più esatto sentire, che consiste nel ‘rievocare’ la realtà dell’altro, il corteo dei giorni felici, i doni, i gesti, gli atti che quella persona ha compiuto a nostro vantaggio…

Quando ci interroghiamo sul sentire adulto, dobbiamo riconoscere che la maturazione del nostro sentire passa attraverso l’esperienza ripetuta della mancanza, che è costitutiva della nostra condizione di uomini, che va vissuta come costitutiva, essenziale: non si tratta di episodi da cui attendersi un esito felice, abbandonandosi all’illusione, o da temere, perché assediati sempre e comunque dal rischio imminente della perdita.
L’oscillazione tra illusione e speranza è ineliminabile: quando ‘ricordiamo’ il bene ricevuto, non temiamo la mancanza; quando, invece, ci sembra di aver perso un bene prezioso, che si sia solo allontanato da noi, non facciamo che ripetere assurdamente un’esperienza di ‘abbandono’ che non ha fondamento nella realtà.
L’illusione è il dispositivo a cui la mente si abbandona sempre, come se fosse incapace di apprendere, anticipando un evento solo probabile: apparentemente, si tratta di un tendere verso beni che sono a portata di mano; in realtà, quello che potrebbe accadere è solo probabile. Essere smentiti dalla realtà è una delle esperienze che facciamo più di frequente, dalla quale però riusciamo ad apprendere male come non cadere ancora vittime di un’illusione.
Ad ogni nuova smentita, facciamo succedere una caduta nella malinconia, come se avessimo perduto un bene che ci era stato promesso. Ma si trattava solo di una delle nostre chimere.


 

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Dicerie

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Giovedì 9 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (348): Dicerie

Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.
La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell’anima tua,
e di misteri e di sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.
Ah, fosse mai che le ali vive
dell’anima librata sulla folla
potessero salvarla dall’assalto
dell’immortale volgarità umana!

FËDOR TJUTCEV

Emanciparsi dalle dicerie non è impresa facile per nessuno. Sentirsi addosso per anni lo sguardo indagatore e risentire all’infinito l’accusa di chi aveva buone ragioni per parlar male di noi è esperienza interiore nota a tutti. Con questa faremo i conti rassegnati, perché ci appartiene, ha un fondamento nella realtà. Più difficile districarsi dal grumo delle cose non dette, dei ricordi nebulosi, delle ‘prove’ insufficienti che pure fanno storia, quando si dica di noi qualcosa che ci ferisce perché non vera.

Bisogna provare ripetutamente a scontrarsi con questo immateriale nemico, per trovare il modo di sconfiggerlo, e scoprire che vincerlo non è quasi mai possibile. Le forme della negazione, che pure abbiamo indagato e provato,  possono anche non funzionare.
Nel tempo riaffiora fastidiosa la sensazione che di noi si sia affermata un’immagine che non corrisponde a tutti i nostri sforzi, alle fatiche fatte per avanzare andando incontro alla vita.
Forse, la risposta è tutta qui, in questo procedere che non si lascia ‘fermare’ da alcunché. Se il passato non passa, se le persone mostrano di non aver compreso, di non aver perdonato; se il silenzio dell’indifferenza e della disattenzione riempie ancora spazi grandi della nostra esistenza, io credo che non ci resti altro da fare che emanciparci da tutto ciò che è veicolato dalla diceria.
Convivere per decenni con questo tarlo nell’anima è possibile, e lo facciamo, ma a volte i ‘prezzi’ da pagare in termini di malinconia sono così grandi che è preferibile ‘andarsene’, abbandonare il campo che pure abbiamo occupato con una presenza significativa per anni e anni. Se la nostra presenza non è mai diventata una vera presenza, se i dovuti riconoscimenti non arrivano, non ha più senso aspettare. Non c’è più niente da aspettare. Siamo soli con lo stigma che ci è stato assegnato.
Mi ritrovo in cuor mio a dirmi ironicamente, con le parole di Bruce Springsteen: «Io sono della razza di quelli che se ne vanno». Non ricordo più perché lui lo dicesse di sé, e non mi interessa qui: mi bastano le parole, per rendere l’idea del da farsi.

Disinvestire emotivamente, abituarsi al silenzio, facendone non più un motivo di attesa o di speranza, come avevamo iniziato a fare tanti anni fa, convinti che quello fosse il da farsi. Abituarsi all’idea che non riceveremo risposte, che il nostro valore non dipende (più) da quel riconoscimento, che l’amore che non abbiamo ricevuto non è mai stato. Non arriverà mai.
Non si tratta di ricordare il bene ricevuto, perché abbiamo una  ‘memoria’ viva del Bene. Sappiamo riconoscerlo anche da pochi segni. Ci basta un cenno, un messaggio, il tono di una voce.
Non bisogna ‘deprimere’ necessariamente il significato e il valore di ciò che fino a poco fa ne aveva per noi. Bisogna fare di più!

Il compito grande e difficile è destituire di valore anche chi ne ha uno grande, e non solo per noi.
Mi riferisco alle persone a cui abbiamo affidato in tutto o in parte la nostra vita, che mostrano di non sapere che l’amore non è revocabile in dubbio. Non ha senso immaginare che possa essere ‘sospeso’, in attesa di ‘chiarimenti’ da parte nostra. La battaglia per il riconoscimento nel campo degli affetti non può durare a lungo. Non deve durare troppo.
E al di fuori della sfera amorosa vale la stessa ‘regola’ che mi sto dando. Il tempo mi dice ciò che è reale nelle relazioni umane e ciò che non lo è, ciò che è vivo e che vive, ciò che appare a intermittenza, ciò che tende a svanire senza apparire più.

Se considero tutti i miei sforzi, l’investimento emotivo e sentimentale, i doni e le parole, e se poi mi fermo a valutare la ‘risposta’ ricevuta, non mi posso sbagliare se rivolgo lo sguardo agli atti compiuti dall’altro nei miei confronti.
Lo sguardo deve allargarsi al più ampio significato dell’esistenza dell’altro, per fissare in comportamenti significativi e conchiusi il senso che l’altro assegna alla mia esistenza. Se non si tratta di atti chiari, non ha senso illudersi ancora sul sentire dell’altro.


 

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Leggere MICHELA MARZANO, Quando una persona che amiamo se ne va via per sempre…

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Mercoledì 8 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (347): Leggere MICHELA MARZANO, Quando una persona che amiamo se ne va via per sempre…

Se non avessi attraversato le tenebre, forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia.

MICHELA MARZANO, Quando una persona che amiamo se ne va via per sempre


 

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Noi siamo persone

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Mercoledì 8 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (346): Noi siamo persone

Tutto quello che c’è da sapere è anche tutto quello che c’è da fare: coltivare l’anima, facendosi mente ospitale. Dedicarsi quotidianamente almeno a un esercizio spirituale, per innalzarsi finalmente al di sopra dell’immediato. Arrivare a contemplare tutta la vita con sguardo sereno, senza rinunciare mai allo stupore riconoscente di fronte al bene ricevuto.

Scoprire dentro l’età adulta i limiti gravi di uno dei propri Maestri e non sapervi porre rimedio, perché l’accesso alla sua realtà è inibito, non aiuta a fondare più sobriamente le proprie certezze: si è tentati di costruire il proprio vaso ignorando del tutto l’esempio rappresentato dal vaso più bello costruito dal Maestro. Lo smarrimento che consegue alla scoperta impone un compito nuovo. Bisogna ridisegnare la mappa della propria esistenza, assegnando nuovi spazi a figure alle quali non era stato assegnato un posto definitivo nel proprio cuore.

La malinconia che cala sull’anima è di quelle difficili da ‘curare’. Educarla, cioè farle produrre un nuovo senso da dare alle cose, è faticoso, perché impresa solitaria. Restituire valore esclusivo e pieno alla personale esperienza di Educatore, a dispetto delle smentite della realtà, è compito di tutti gli Educatori degni di questo nome. I mancati riconoscimenti stanno lì a dimostrare che la lunga attesa non è valsa a niente. Bisognava continuare a credere nel proprio operato, senza fondare su attestati improbabili.
L’amore non è altro che dono. La lotta per il riconoscimento a cui pure ci dedichiamo è quasi sempre sterile e vana. L’evidenza specifica dell’amore è un incontrovertibile. Di esso è impossibile dubitare. Tutte le volte che siamo costretti a farlo una chimera inseguiamo, vane ombre che non acquisteranno mai consistenza per noi. Meglio volgere lo sguardo altrove.
Sulla neve sporca di questi giorni affiora ogni tanto qualche forma di vita o si posa una creatura vivente, a ricordarci che non bisogna mai chiudersi alla possibilità di nuove evidenze. La novità di ognuna delle persone che ci vengono incontro interessate al nuovo che avanza da noi è il mistero a cui inchinarsi. Sorridere a questo nuovo è il vero dono a cui dire sì.


 

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Leggere LUIGI ZOJA, Centauri. Mito e violenza maschile, LATERZA 2010

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Domenica 5 febbraio 2012

Contributi a una cultura dell’Ascolto
CAMMINARSI DENTRO (345): Leggere LUIGI ZOJA, Centauri. Mito e violenza maschile, LATERZA 2010

Maria Giovanna Farina, filosofa e consulente filosofico, incontra lo psicanalista Luigi Zoja per parlare del suo ultimo libro Centauri. Mito e violenza maschile (ed. Laterza, 2010).
Intervento al Festival della mente sul libro (audio e video) 


 

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L’Inconfessabile

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Giovedì 2 febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (344): L’Inconfessabile

Probabilmente, è il grumo che ci portiamo dietro per tutta la vita a spingerci in avanti: la somma dei bisogni e desideri insoddisfatti, tutto l’inconfessabile, le ragioni da chiarire, l’amore che non abbiamo ricevuto.Quando affiora il ricordo del male che abbiamo fatto, che non ci abbandona, un nuovo compito ci aspetta. Cercare vie d’uscita che valgano ad alleggerire il peso che opprime la coscienza. Eravamo liberi e leggeri, finalmente paghi di noi, in quiete, in pace, quando è sopraggiunta con un incubo notturno la traccia di un atto a volte antico, di tanti anni fa. Il pessimo privilegio dell’età ulteriore è proprio questo: affiorano ricordi sgradevoli alla coscienza. E bisogna sistemarli da qualche parte! Trovare un posto significa riuscire a convivere con ciò che turba l’anima, incrinando la pace raggiunta. Si è tentati di andare a chiedere perdono alle persone che hanno subito il torto, ma quando si tratti di torto grande, al pensiero della riparazione è associato il timore di un devastante ‘ingresso’ e di una messa in discussione troppo grande. Come contenere, infatti, l’ira di chi pure si lamentò di noi, senza ricevere giustizia e compenso? L’altro sarà capace di perdono sincero? Apprezzerà una richiesta di perdono? Ne sarà pago? Avvertirà il tormento che ci porta a quel gesto? Comprenderà il suo compito? che attendiamo noi ora conforto e compassione, addirittura benevolenza? Tutto lo strascico conseguente alla rievocazione dei fatti e dei torti sarà contenibile nel tempo? E’ certo che non si allargherà poi a tutte le persone che sapevano, che parteciparono e condannarono l’errore? Non vorranno ripagare con uguale moneta, infliggendo anni di sofferenza e dolore, patimenti nel corpo e nell’anima?

Ma di quel grumo che ci portiamo dentro più grave peso è dato da tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Se è vero che l’attitudine al dono, che abbiamo sviluppato e lungamente praticato, ha comportato sempre la sensazione viva di un compenso grande almeno quanto ciò che donavamo, scopriamo ancora con il tempo che non basta il dono, che nella relazione umana, comunque essa si qualificherà, vogliamo reciprocità, che si realizzi uno scambio di risorse, che l’altro si ricordi di noi, che sia gentile, che ci faccia sentire quella forma elementare di riconoscenza che è fatta di sorrisi e strette di mano, di abbracci e di calda accoglienza. Ma sono queste tutte cose che non possiamo chiedere a nessuno.
La gratitudine non è il ringraziamento e basta. Non è semplice riconoscenza per il bene ricevuto. Essere grati è spontanea capacità d’amore, un consentire affettuoso che proviene da uno scioglimento, un’arrendevolezza della fantasia che io chiamo grazia. Ecco, vorremmo che ci si dicesse con grazia che le cose da quella parte vanno bene e, senza dire ‘grazie!’, ci si mostrasse quella condizione di benessere raggiunto, che non è salute e omeostasi soltanto, ma vera pace.
Noi vorremo che qualcuno, tutti i qualcuno a cui abbiamo fatto dono del tempo, sentisse che noi esistiamo, che abbiamo le nostre file di continuità, che scorrono parallele e non si incontrano mai con le sue, ma che in qualche modo generano risonanze nella sfera degli affetti.
Noi vorremmo che l’altro avesse il coraggio di sentire senza timore l’insorgere di un caldo affetto nei nostri confronti e che esprimesse quel coraggio con gesti inequivocabili, senza temere di scivolare in altri improbabili sentimenti. Che sapesse distinguere in sé e riconoscere un affetto individuandone la natura disinteressata e innocente.
Vorremmo sentirci amati, per placare l’antico fermento in noi che ci fa ricordare ancora le braccia accoglienti della madre sempre presente e sollecita, fonte di vita infinita e di bene.
Nei momenti di tristezza siamo portati a dire che vorremmo un po’ d’amore, ma si tratta di espressione sbagliata, perché allude a qualcosa che viene sempre equivocato. Vorremmo soltanto avvertire nitidamente che qualcuno sente con gioia la nostra presenza, che siamo una vera presenza. Il dono più grande è sentirsi dire che siamo presenti nella vita di una persona, che ne siamo parte viva. Questo basterebbe a riempire un vuoto. Le nostre solitudini ne uscirebbero confortate dal canto silenzioso di un’anima che sa di noi.


 

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La durata di un’attesa

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Mercoledì 1° febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (343): La durata di un’attesa

Fragile patrimonio sono i sogni,
ci fanno ricchi un’ora,
poi, poveri, ci scaraventano fuori
dalla purpurea porta, sul duro recinto,
dimora di prima.
EMILY DICKINSON 

Il riconoscimento di una donna non è la meta ambita di ogni uomo? Sentirsi dire sì. Intravvedere anche da lontano sorrisi rivolti a noi, proprio a noi. E il viso inondato di luce, e quella luce essere espressione di una gioia interiore che dice chiaramente quanto sia merito della nostra esistenza, della pura esistenza, senza altre ragioni. La voce riscaldata dallo stesso sentimento. E infinite file di continuità, insperate e pure presenti. Il ricordo della felicità è nitido, come la nostalgia che prende nei giorni in cui l’uggia cala sull’anima e se ne impossessa fino a spingerci alle lacrime.
Ma di tutti modi che conosciamo per renderci infelici ce n’è solo uno che merita di essere ricordato, ed è quello in cui precipitiamo quando abbiamo la felicità a portata di mano e non riusciamo ad afferrarla più.
Dubitare dell’amore, arrivare a credere che non abbia tante ragioni per sussistere a lungo e che sia destinato a rivelarsi solo fragile illusione non è l’esito peggiore? E non è la tentazione più grande a cui resistere? E guardarsi intorno in cerca di un altro amore, di un amore possibile, magari più tenero, più confidente non è meno rischioso, quando poi occorrerà precipitarsi ad occupare di nuovo il posto che occupavamo davanti alla nuda porta?
Aver atteso tanto un amore che pure era stato promesso non è vera follia? e non è più folle spiare gli sguardi e misurare le aperture dell’anima all’evidenza della nostra presenza e sentire che non siamo molto presenti, che le nostre ragioni sono insufficienti e che c’è da fare di più e correre a riempire tutti gli interstizi e donare tutto di sé, le cose, le parole, il tempo di tutta una vita? Aspettare! Che follia! 
Noi credevamo che facesse parte della religione di questo sentimento la virtù dell’attesa. Siamo stati educati all’idea che non bisogna pretendere il dolce che l’amore distilla ora e tutte le volte che ci accade di desiderarlo. Ci siamo acconciati a questo compito. Lo abbiamo chiamato compito, dovere, atto dovuto…
Ci siamo denudati e scorticati l’anima. Abbiamo detto sì tutte le volte che sarebbe stato necessario dire no, perché era folle dire sì. E non ci è stato insegnato che di follia si trattava? che non bisogna risparmiarsi nell’esser folli?
Anche la follia abbiamo praticato con metodo, modulando la domanda nelle stagioni dell’anno e in tutti i tempi dell’anima. Con quale risultato? Abbiamo sentenziato che il risultato sarebbe arrivato. Ma nessuno ci aveva insegnato che attendere soltanto e sempre non è saggio, è stupido.

Un mandarino era innamorato di una cortigiana. “Sarò vostra – disse lei – solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su una sedia, nel mio giardino, sotto la mia finestra.” Ma alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n’andò. – ROLAND BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso

Quale nobiltà mai vorrete trovare nella lunga attesa che non trova ricompensa, in un estenuarsi che non salva nemmeno la propria dignità residua? Quando quest’ultima sia stata intaccata, ha senso parlare ancora d’amore? Aveva senso parlarne poco fa?


 

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Leggere La balbuzie e il padre, tratto da LAURA PIGOZZI, A nuda voce, ANTIGONE EDIZIONI 2008

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Sabato 28 gennaio 2012

Contributi a una cultura dell’Ascolto
CAMMINARSI DENTRO (342): Leggere La balbuzie e il padre, tratto da LAURA PIGOZZI, A nuda voce, ANTIGONE EDIZIONI 2008

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Ausmerzen – Sopprimere i deboli

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Venerdì 27 gennaio 2012

CAMMINARSI DENTRO (341): Ausmerzen – Sopprimere i deboli

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27 gennaio

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Venerdì 27 gennaio 2012

CAMMINARSI DENTRO (340): 27 gennaio

Dal sito di Paolo Ferrario Per il GIORNO DELLA MEMORIA: Carlo Rivolta legge I SOMMERSI E I SALVATI di Primo Levi


 

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