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Sabato 3 novembre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (435): Una psichiatria fenomenologica
Quando presi tra le mani la prima opera a me nota di Eugenio Borgna (I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, 1988) sapevo già cosa fosse la fenomenologia, per averla scoperta nell’ultimo anno di Liceo (1967) attraverso una densa antologia di Carlo Sini edita da Garzanti nel 1965. Scoprii anche la Psichiatria e, con essa, l’indirizzo che si sarebbe poi rivelato ai miei occhi come la via ‘umanistica’ alla comprensione della follia.
Quando, pochi giorni fa, ho preso tra le mani l’ultima opera di Borgna – Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Settembre 2012 -, sono corso a cercare tra le pagine quello che Galimberti saluta, nel video di presentazione dell’opera, come momento importante per tutti noi: la comunità di destino, espressione prescelta da Borgna per designare finalmente il suo metodo. Questa idea di comunità merita che si torni su di essa, per dedicarvi uno spazio grande. Il prossimo post sarà riservato ad essa.
Sono trascorsi ventiquattro anni dalla pubblicazione de I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, di EUGENIO BORGNA (Feltrinelli 1988).
In apertura dell’Introduzione, i versi che seguono:
E tuttavia dice molto chi dice “Sera”,
una parola da cui scorre profondità e tristezza
come greve miele dagli incavati favi.HUGO VON HOFMANNSTHAL, Ballata della vita esteriore
L’opera, sempre più difficile da trovare, era articolata in quattro parti:
I. Il metodo e il discorso
II. La psichiatria in alcune sue radicali categorie cliniche
III. Le esperienze psicotiche come cifra della condizione umana
IV. La comunicazione perduta nell’esperienza psicotica
Umberto Galimberti scriveva sulla quarta di copertina:
A chi assomigliano i pazzi? Al nostro modo di vivere e di pensare o al nostro modo di interpretare? E le nostre interpretazioni sono forme di comprensione o modi sofisticati per tenere a distanza quello che Borgna chiama “il sorriso della sfinge”? Da quando è nata, la psichiatria sembra non abbia promosso altra via se non quella di tenere i pazzi a distanza, di porli di fronte a noi, attingendo dalla medicina quello strumento potente che da alcuni secoli era nelle mani di quella scienza: l’oggettivazione, per cui è possibile parlare di schizofrenia e di depressione come i medici parlano delle malattie che i loro modelli di indagine costruiscono. Dopo averlo oggettivato, dopo averlo tenuto adeguatamente a distanza come altro da noi, la psichiatria si è concessa di descrivere il pazzo con quelle parole “umane” che la tradizione religiosa metteva a disposizione, quindi in termini di pietà, sofferenza e dolore. ma neppure questo “umano troppo umano” è riuscito a mascherare la distanza che non la follia, ma la descrizione psichiatrica della follia ha creato tra il mondo della ragione che tutti abitiamo e gli abissi della follia che i pazzi frequentano. Eugenio Borgna, nel denunciare l’inganno della separazione, toglie alla psichiatria la maschera, e, senza la pietà delle parole che coprono la distanza che questa sienza ha inaugurato tra noi e la follia, costringe la sfinge a cedere il suo segreto. I folli parlano come noi, delle cose di cui parliamo noi, parlano del dolore, della colpa, della lacerazione che ogni uomo, se ancora non s’è ridotto a cosa, sente dentro di sé come sua dinamica, come sua potenza e come sua disperazione. Ma per questo bisogna restaurare nel folle la soggettività che la psichiatria ha abolito e disporsi di fronte al folle come di fronte al Signore di Delfi che non dice e non nasconde, ma, come scrive Borgna offrendo una traduzione forte e nuova del verbo “semainei”, significa. A meno che una persuasione inconfessata non ci abbia già conquistato e fatto silenziosamente concludere che i pazzi non sono più uomini, ma cose.