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Lunedì 1° ottobre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (419): Ho cambiato vita
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La lettura della mia amica TartaRugosa di SERENA ZOLI, Ho cambiato vita. Storie di chi ce l’ha fatta, EDIZIONI SAN PAOLO, Milano 2011
«E’ sempre interessante conoscere le altrui storie, nonché le inquietudini che portano a scegliere fondamentali svolte. Ne so bene qualcosa, visto che per sopravvivere trascorro metà dell’esistenza sotto terra. Chissà in quale categoria mi inserirebbe Serena Zoli …
Già. L’autrice di questo testo opera una distinzione tra le diverse opzioni che, prima o poi (oppure mai) inducono a dire basta con lo stile condotto fino a quel momento per lanciarsi in nuove sfide. Vediamole.
1) Cambiare perché si vuole cambiare: “Spesso l’età del mutamento si aggira sui quarant’anni”, quella metà del cammino dove lo sguardo si rivolge all’interiorità e “da questa identità più profonda può spuntare fuori e imporsi qualche nuova passione: mollo tutto e faccio quest’altra cosa che mi piace tanto”.
2) La scelta del non-profit. Se il lavoro abituale ha perso l’anima si può scegliere di aderire al lavoro non-profit: “paghe minori rispetto alle imprese profit, ma pienezza di senso. Quello che fai aiuta davvero qualcuno, fa davvero la differenza per tante persone in difficoltà … lavorare nel non-profit significa tornare a sentirsi protagonisti, riprendersi la vita in un altro modo”
3) Ripartire a sessant’anni. Ci si riferisce a coloro che la stessa Zoli classifica come generazione fortunata, ovvero i nati tra il 1935 e il 1955, che possono contare sulla pensione e che vedono di fronte a sé circa un ventennio in piena salute prima della vera vecchiaia. “C’è chi si imbarca in una nuova carriera, chi cambia non solo città ma continente, chi si impegna nel volontariato, chi rende affare quello che prima era solo una passione”.
4) Abbandonare l’Italia. “La Fondazione Migrantes, dei quasi quattro milioni di emigranti, indica che la metà è sotto i trentacinque anni … Milano è in testa con 46.000 persone contro le 34.000 di Napoli. Non più il Sud, non più la mera necessità a spingere questi espatri”. Da un sondaggio de La Repubblica (22.10.10) le motivazioni dichiarate da chi sceglie di vivere all’estero riguardano “disgusto per la politica, corruzione che fa rima con raccomandazione, orizzonti claustrofobici, incertezza dei diritti”. Singolare che di questi protestatari, molti siano disposti a riciclarsi in mestieri umili decisamente snobbati in Italia.
5) Scalare una marcia (in inglese downshifter): “oggi che dal lavoro tantissimi si sentono derubati piuttosto che appagati, si fa strada il sogno di lavorare meno, di avere meno stress da competizione quotidiana, di raggiungere minori vette di risultati e di professionalità e va benissimo, allora, che gli introiti siano inferiori, a volte che sparisca lo stipendio certo, e che i benefit si dissolvano: in cambio si aspettano, tout court, di vivere”.
A supporto di questi filoni, Serena Zoli racconta piccole storie di persone che si sono date una seconda opportunità esistenziale.
Camilla e Franco, entrambi con professioni ben remunerate e ben avviate, ma insoddisfatti della qualità di vita che si respira a Milano e in generale in Italia, si fanno contagiare dal mal d’Australia e decidono di trasferirsi nel quinto continente per aprire una gelateria. A volte però il desiderio di cambiare luogo andrebbe valutato con un miglior ascolto del proprio scontento interiore. Dopo varie vicissitudini, Camilla e Franco – che pure considerano positivamente la loro scelta nonostante gli australiani ritengano il gelato cibo-spazzatura e preferiscano il McDonald’s – nel raccontare le difficoltà per trovare risorse e personale confessano: “Da quando ci siamo trasferiti qui abbiamo scoperto tutta la nostra italianità, ci sentiamo italiani a 360 gradi. Però quando torniamo in Italia, ogni anno, dopo dieci giorni non ne possiamo più del traffico, del modo di vivere convulso, dell’aggressività. Insomma, vogliamo tornare a casa. Ma una volta qui, a Caloundra, vediamo tutti i difetti del posto e ci lamentiamo. Chi vuole espatriare, sappia che non si sentirà più completamente a casa in nessun posto”.
Dal mal d’Australia al mal d’Africa con due storie completamente diverse.
Riccardo Orizio, al culmine di un’invidiata carriera di giornalista, a 41 anni abbandona tutto e si trasferisce in Kenya, dove apre il primo lodge composto da sei grandi cottage. Il turismo che qui propone è di gran lusso: 500 euro al giorno (esclusi voli internazionali e interni). Ma vuoi mettere? “dopo una giornata a piedi o in Land Rover nella savana, si può cenare sulla veranda a lume di candela con piatti di una cucina gourmet mentre qualche animale selvatico guarda dai bordi del campo … mentre i masai responsabili della sicurezza vigilano dotati di lancia e torcia”.
Dietro a un turismo d’élite, però, ci sta un’altra motivazione: “i turisti devono sapere che venendo in safari aiutano la conservazione della savana e degli animali. Il Masai Mara ha bisogno di turisti: i nuovi lodge e campi tendati che sono stati creati avendo in mente l’interesse della comunità masai e della natura sono gli strumenti migliori per far sì che tutto ciò di cui io e molti altri ci siamo innamorati sia trasmesso alle generazioni future. Col suo fascino intatto”.
Il caso di Vanna, invece, va in tutt’altra direzione. Il primo passo è l’innamoramento del paesaggio senegalese che spinge Vanna e marito alla radicale scelta di lì trasferirsi, vendendo tutto ciò che avevano in Italia. La morte del marito in un incidente e della madre ultranovantenne che si era portata appresso perché sola e anziana, inducono Vanna a pensare se fare rientro in Italia o rimanere a Thiès. Non potendo più contare sulle rendite economiche pensionistiche, Vanna decide di aprire un bed&breakfast con due tipi di vacanza per gli ospiti: una tutta riposo con piscina, sole, mare, casa e una più finalizzata a conoscere il vero Senegal con gite di un giorno ciascuno. Pubblicità attraverso Internet curato dal figlio trentasettenne, trasferitosi pure lui in Senegal.
C’è poi chi non va molto lontano.
Simone scegli Val di Lara, tra le Cinque Terre e La Spezia per fare downshifter. Manager con notevoli riconoscimenti e guadagni, a 41 anni chiude tutto. “Chissà che stipendio avrei oggi, ma di sicuro sto meglio come sono ora. Per fare questa scelta ho ridotto tutto: mi bastano 700 euro al mese per vivere. E sono pronto a dimostrarlo a chiunque non mi creda. Il problema, infatti, non è quanto guadagni. Il punto è quanto spendi”. Gli introiti se li procura scrivendo, facendo lo skipper in conto terzi e lavando e rimettendo in sesto le barche. “Io la crisi non la sento, perché mi ero già messo in crisi prima, non compro mai niente, abbiamo già così tanto di tutto. Ma se non si riflette a fondo su che cosa davvero dà o no dà ben-essere e non ci si mette in discussione, la crisi c’è eccome, e senza più quel rassicurante orizzonte economico lì sei perso. Altrimenti smontare il gioco è semplice. Diabolicamente semplice”.
Altre piccole storie avvalorano questo principio del guardarsi dentro per capire che cosa vuoi veramente. Molte sono le testimonianze di scelte di uso dei soldi per finanziare progetti a tutela dei soggetti deboli (bambini di strada a rischio di pedofilia, costruzione di scuole, centri d’accoglienza e ambulatori) nei diversi paesi del mondo.
Ma non mancano scelte di vita diverse legate alla scoperta della propria individuazione, come nel caso di Liliana Segre che a sessant’anni ha deciso di diventare una testimone pubblica della shoah, oppure del magistrato Giuliano Turone che alla soglia dei cinquant’anni scopre la passione per il teatro indipendente e decide di studiare presso il Centro Teatro Attivo e diventare attore.
Una lettura adatta per chi, nelle sue incursioni nel profondo, trova materia per dire: “cambio vita”».