Spalancare le finestre

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Lunedì 10 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (409): Le angustie della mente

La nostra angustia ci è sfuggita fin troppo. Da cinque anni, ormai, non facciamo altro che parlare di noi, delle nostre umidità gastriche, come avrebbe detto Sartre. Senza costrutto. Scrivere avrà fatto sicuramente bene a noi. Sarà stato ‘igiene mentale’. Saremo venuti in chiaro di noi stessi. Ma fuori di qui, nella vita di relazione, nelle relazioni significative tutto è andato peggio di come avremmo voluto.  Abbiamo avuto la conferma del fatto che la scrittura non serve a niente. Non serve, soprattutto, a farci amare (di più). Anche questo esercizio si è rivelato una pratica privata, solitaria. L’unico risultato conseguito è la chiarezza. Potremmo continuare all’infinito a mettere puntini sulle i – e lo faremo ancora! -, ma senza convinzione. Senza altra ragione, se non quella privata: si scrive per se stessi.

Anche se questa è solo una delle Rubriche curate, di certo è la più corposa. È quasi la ragion d’essere di questo sito. Oggi mi ritrovo a pensare che è angustia della mente, ormai, questo insistere sulla propria vita sentimentale. È tempo di spalancare gli occhi. Spalancare le finestre.

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Ritrovarsi per qualche decennio in una condizione di stallo, e addirittura vedere regredire la qualità della propria vita, e persistere nell’errore è forse cosa che meriti ancora analisi e approfondimenti? Ormai, è solo noia.

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Rinunciare a rendersi infelici

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Domenica 9 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (408): Rinunciare a rendersi infelici

Temo che pochi conoscano il potere distruttivo delle illusioni, che ne siano cioè coscienti. La nostra mente è disposta ad ammettere questo fenomeno. Altra cosa è riconoscere nella propria esistenza i segni di tale azione, considerando ampie porzioni temporali dell’esistenza stessa. Riconoscere di essersi ingannati su una persona a cui siamo stati lungamente legati non è poi così facile a farsi!
La distruttività di cui parlo non risiede in un potere ‘diretto’ dell’illusione sulle cose o in una natura violenta dell’illusione stessa, come se fosse una forza che si abbatte su qualcuno! La negatività insita nella tendenza ad illudersi sempre sullo stesso ‘oggetto’, anche dopo ripetute smentite della realtà, dipende per intero da noi, dal fatto che facciamo derivare un sentimento, una relazione, un incontro non dalla conoscenza morale ma da preconoscenze, anticipazioni dell’esperienza, impressioni, vaghe sensazioni a cui non segue alcuna verifica! Quando si sia consolidato un giudizio sulla persona o sia stato fissato un criterio per l’azione, e per anni sia stato perseguito sempre lo stesso fine, il trascorrere del tempo non ci aiuterà ad allontanarci da quelle false ‘premesse’, dai falsi ‘fini’ assegnati all’azione. Se poi siamo convinti che ogni relazione sentimentale sia destinata a portare con sé una promessa di miglioramento, di cambiamento, che sicuramente seguirà, finiremo per aspettare per anni, anche per decenni il cambiamento desiderato.

Ciò che di più drammatico interviene a richiamarci alla realtà, nell’acmè, nel momento nevralgico dell’esperienza sentimentale, è il cumulo degli effetti a distanza, delle conseguenze di scelte lontane che continuano a farsi sentire: gli schiaffi in faccia, le sonore smentite, che non sono veri richiami alla realtà; dipende ancora dal nostro sentire, dal modo di percepire le cose la capacità di vedere ciò che abbiamo sotto gli occhi. Possiamo continuare per anni ancora a negare la realtà, fino alla catastrofe successiva, fino all’ultima catastrofe, quando ci ritroviamo in un vicolo cieco e siamo costretti a guardare indietro. E pure questo volgersi a considerare la strada fatta non è garanzia di ‘risveglio’, di resipiscenza, di ravvedimento.
Parlare di strada fatta è segno di una condizione di forte spaesamento. Quale ‘uso’ è possibile fare ora di una strada che è alle nostre spalle? Ci fregeremo di un titolo di merito, per aver finalmente capito? Chiuderemo al traffico la strada percorsa, per non tornarvi mai più? quando sappiamo bene che non ha senso immaginare un ‘ritorno’! Sanciremo con decreto solenne la fine di un errore? E come si amministrano gli errori? Basta dire che non torneremo a fare quello che abbiamo appena ‘finito’ di fare? Come se non sapessimo bene che siamo tutti condannati a commettere sempre gli stessi errori!

Allora, non ci resta che assumere il vero problema come il problema da affrontare: la nostra tendenza a illuderci, a costruire vane chimere su basi inconsistenti, progettando imprese al limite della disperazione, pur di soddisfare il bisogno di assegnare alla vita dei sentimenti fini che sono ad essi estranei. Pretendere, ad esempio, di rendere felice una persona che presumiamo non lo sia (a sufficienza) è stupido. L’unica cosa che abbia veramente senso è concedere a se stessi il diritto di essere felici. Solo su questa base e con questa premessa e con questa istanza avremo qualche chance contro la nostra tendenza a renderci infelici.

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Leggere Istruzioni per rendersi infelici, di Paul Watzlawick 

e poi ancora:     e poi   

 

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La vera attesa

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Giovedì 6 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (407): La vera attesa

E’ sorprendente ritrovarsi a pensare, pur sapendo bene che è così, quanto sia facile credere di credere. Illudersi di essere innamorati. Cercare di esserlo e per un po’ credere che sia così. Quante storie sono finite, per questa via, nel numero di ciò che non è mai nato! In parte, questo genere di esperienza è riconducibile a un’attitudine tutta maschile, la tendenza a vedere in ogni donna una possibile compagna di vita. Le fantasie sessuali, le fantasticherie, i ‘film’, come dicono i tossicomani, si sprecano, a tutte le età! Ma non è patetico abbandonarsi a questa attività della mente, perché partecipa anche il cuore, che quasi si abbandona al gioco, mobilitando i suoi eserciti migliori: malinconie, affanni, angustie, gelosie, attese, sospiri, promesse…
L’attività più interessante, tuttavia, andrà ricercata nell’anticipazione di dialoghi, che è stata già riguardata autorevolmente come anticipazione di incontri. Tralasciando il corteo che segue, e che è fatto di lunghi corteggiamenti segreti, di relazioni immaginarie, di amori mai dichiarati, più significativo è l’epilogo di ogni ‘storia’. Scoprire che si tratta di storie senza storia rende sempre più faticoso procedere, fino alla necessaria accettazione dell’errore. Si trattava solo di storie senza futuro. Ciò che interviene ad interrompere la catena delle illusioni ad occhi aperti non è il lavoro della mente, ma è proprio il cuore, che alla fine non se la sente di continuare in un gioco senza riscontri. L’illanguidirsi della ‘passione’, dello slancio verso la persona reale, che non è più oggetto ambito, meta ideale di sogni d’amore, occasione di felicità… La ricerca della persona reale diventa faticosa, a suo modo rivelatrice. All’improvviso, affiora un’indifferenza che ci stupisce, perché non credevamo che potesse attecchire in noi, che amiamo pensarci come persone dotate di sensibilità sempre viva.
Com’è possibile che una figura femminile a cui eravamo intensamente interessati perda le sue attrattive per noi, come se avessimo sperimentato l’insussistenza dell’attrazione per la persona? Dov’è finita la tensione accumulata, l’intenzione di aprirsi alla realtà, che stava quasi per manifestarsi prepotente? Dobbiamo concludere, allora, che di inattendibilità dei sentimenti si tratta? Non sarà dipeso anche dai segnali che attendevamo dall’altra parte, che non sono mai arrivati? Non sarà intervenuto un motivo di delusione a convincerci del fatto che ci eravamo sbagliati sulla persona a cui eravamo sul punto di aprire il nostro cuore? Non è forse proprio la conoscenza morale, da noi spesso invocata, che ha fornito a noi le giuste informazioni che aspettavamo, per decidere cosa fare di noi, se lanciarci nell’avventura amorosa oppure no?

Tra mente e cuore, allora, non potremo fare a meno di ascoltare l’una e l’altro, ora l’uno, ora l’altra. Senza commettere l’errore di lasciare al cuore il compito di decidere da solo. Che sia un cuore pensante il nostro. Un vivo sentire ci guidi sempre, ma sotto lo sguardo vigile della nostra mente, che conosce le strade che abbiamo già percorso e saprà indicare sempre quanto di vero ci sia nel nostro sentire, se su un autentico valore riposa il credito concesso a un altro cuore, se una vera storia crediamo che sia possibile intrecciare con il destinatario dei nostri palpiti. E’ importante scoprire per tempo se i transiti immaginati in una direzione e nell’altra siano possibili, se saranno realtà dal primo giorno. Le vere attese sono quelle che durano poco.

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Ciò che muore

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Mercoledì 5 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (406): Ciò che muore non meritava di essere ricordato.

Tutto ciò che muore non merita di essere ricordato.
Un’impietosa sepoltura sia riservata a ciò che abbiamo lasciato precipitare nella dimenticanza.
Più dignitoso trattamento merita ciò che è finito sotto il peso della malinconia del così fu: contiene in sé i germi del riscatto, la possibilità della ‘redenzione’.
Solo noi decidiamo che qualcosa è irredimibile. Imprescrittibile. Imperdonabile.

Non esiste un’ars oblivionalis, un’arte del dimenticare. Non possiamo attivamente agire sulla materia dei nostri ricordi per sbarazzarcene. Quello che possiamo fare è ben più efficace, se poniamo mente alla damnatio memoriae a cui destiniamo persone e cose che abbiano deluso tutte le nostre aspettative. Prestiamo attenzione più alle grossolane esperienze di cui più facilmente ci liberiamo, se abbiano turbato la nostra sensibilità o se abbiano lasciato un segno doloroso nell’anima.

L’effigie di un uomo è curata e trasmessa ai sopravvissuti da coloro che siano destinatari di un’eredità di affetti. La dimensione personale del ricordo è intrisa di moti del cuore che la sostengono. Senza di questi, l’effigie finisce per essere trascurata. Il prolungamento della ‘vita’ delle cose dipende per intero dalla nostra capacità di narrare: non si muore una sola volta!
Noi ci adoperiamo a mantenere in vita lungamente la presenza di coloro che abbiamo amato. La durata delle cose subisce la stessa sorte: durano presso di noi, se abbiamo assegnato loro un valore particolare.
Non è forse lo stesso destino che riserviamo ai nostri amori? La loro durata dipende forse dalla loro natura? non siamo noi a farli durare, assegnando loro le caratteristiche indispensabili perché sopravvivano alle tempeste della vita?

Ma se è così, non è giusto dire che ciò che muore non merita di essere ricordato?

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Inattendibilità

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Domenica 2 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (405): Contro l’inattendibilità dei sentimenti

E stupisco che l’amore
abbia questo volto interno
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MARIO LUZI

Il 24 novembre 1980, giorno di acquisto delle Elegie duinesi di Rilke, presenti nella Collezione di poesia Einaudi, scoprii tra i temi della poesia stessa «l’inattendibilità dei sentimenti». Naturalmente, non mi impegnai a circoscrivere l’applicabilità del concetto al solo campo della poesia rilkiana: ancora oggi, non è in quel quadro che mi spiego un’idea così radicale sul nostro sentire. Assumevo i temi ‘negativi’ di Rilke come espressione forte di una conoscenza dell’anima che superava quella degli studiosi tutti della mente e dei filosofi. Era come se procedere fosse possibile solo a condizione di avere sconfitto quell’idea. 
Io conoscevo già la Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal, in cui si descriveva una crisi del linguaggio che si spingeva fino al punto di confessare la perdita di senso di parole come ‘corpo’, ‘anima’, ‘mente’, ‘spirito’, ma si trattava di una società che viveva forse la sazietà di una condizione annoiata e stanca che solo in parte poteva essere ricondotta alla temperie culturale in cui erano nate le Elegie.
Avvertii, tuttavia, che da più parti giungevano a me segni di una crisi spirituale profonda ed estesa, che arrivava a incrinare i fondamenti dell’esistenza umana.

Mi colpì la Terza Elegia in particolare, là dove parlando del giovane, il poeta si rivolge alla ragazza per ammonirla: egli non ama solo te; anzi, in te egli sogna l’antico fermento, tutte le donne che ti hanno preceduta; egli vede in te, oltre te, tutte quelle donne… E come potrebbe essere diversamente!?
I luoghi della poesia in cui lo scompiglio e il turbamento si accampano sulla scena, mostrando un paesaggio straniato ed estenuato, sono tanti: basta rivisitare per intero il testo delle dieci elegie.

Ai miei occhi sonava sinistramente come destabilizzante un’idea che negava consistenza ai sentimenti. Ero ancora convinto che essi vivessero quasi di vita propria, che niente potesse scalfire un moto perenne che era dell’anima, dunque insondabile e inafferrabile.

In seguito, mi ritrovai solo a combattere ‘teoricamente’ contro un fantasma che rendeva insicuro il territorio su cui riposavano le mie certezze. Chi potrebbe negare che nel silenzio della nostra anima a fatica facciamo i conti con il nostro sentire? Ricorriamo all’aiuto della Poesia per dare senso ai nostri terrori e alle vanificazioni di cui facciamo continuamente esperienza. «Intermittenze del cuore», «arcipelago delle emozioni», «confusione dei sentimenti» e altro ancora contribuirono nel tempo a farmi sentire che vacillava il senso della stessa esperienza personale.

Più di tutto, però, fu determinante l’ostinazione di una donna, una feroce insicurezza personale che si nascondeva dietro una personalità forte e autoritaria. Quest’ultimo tratto di personalità, però, avrebbe dovuto rendermi certo che un’educazione autoritaria a sua volta aveva generato quella mentalità ristretta e che non si trattava di un dettaglio facile da emendare. Solo ora so cosa sia l’angustia della mente. Ci inventiamo esercizi spirituali per ‘correggere’ e favorire la crescita personale, ma occorre una disponibilità al cambiamento perché acquisti senso l’espressione ‘esercizi spirituali’. I farmaci non bastano. Occorre la volontà del ‘malato’ di guarire. Se il malato, poi, accusa il ‘medico’ e l’amico e l’amante e il compagno di vita e rifiuta il farmaco, ciò che resta è il calvario quotidiano della recriminazione e del sospetto, del fraintendimento e dell’equivoco, che la vita dispensa a piene mani a tutti noi. Se non si impara a “raggiungere e superare”, come intuì genialmente una mia alunna di primo liceo, tanti anni fa, si resta impantanati e si impone al partner di star fermo, perché ad ogni angolo è il rischio del ‘tradimento’. Se poi, ogni incidente di percorso, pure chiarito, e infinite volte, resta lì, come documento di tradimenti reali, effettivamente consumati, c’è da chiedersi se siamo in presenza di quella che è stata chiamata psicopatologia della vita amorosa; se, cioè, abbiamo sbagliato partner; o se non si tratti, piuttosto, ancora della vita che pretende da noi prove ulteriori di una ‘volontà d’amore’ non sufficientemente ‘dimostrata’.

Ho recitato la mia parte fino in fondo, perché – come mi ha insegnato Edgar Lee Masters – in questo consiste l’onore. Ho lasciato la ‘psicopatologia’ sullo sfondo – per non impazzire assieme a lei – e ho continuato ad onorarla, onorando il patto d’amore. Non ho mai creduto alla spada di Alessandro che, a Gordio, con un sol colpo ‘sciolse’ tutti i nodi: io credo che a noi spetti, non essendo ‘generali’ di un esercito in guerra, di sciogliere i ‘nodi’ della vita uno per uno, senza immaginare mai che siano troppi per noi. Solo così andremo incontro al nostro Destino e ‘realizzeremo’ una parte grande di noi. Anche se ci sembra di essere invischiati, immersi in un ‘errore’, vivremo fino in fondo il tempo mondano che abbiamo scelto di vivere tanto tempo fa. A questo tempo apparteniamo. Da esso è impossibile ‘sciogliersi’, immaginando brevi transizioni, passaggi indolori, ma soprattutto spiagge felici e ristoro e pace.

Quando ho iniziato a scrivere su di me, qualche anno fa, ho chiamato Etsagung, ‘rinuncia’, il da farsi. Ma rinuncia non significa ‘colpo di spada’, interruzione brusca di una vita di relazione che non è quasi mai del tutto ‘esaurita’. Si tratta ‘educare’, di ‘curare’ quella relazione, per accelerare processi di decantazione delle ‘scorie’, per favorire la ‘fuoriuscita’ di tutto ciò che giace al fondo da tempo senza risposta, per stabilire la distanza che sola permette scelte ulteriori…
Rinuncia è accettare la condizione residuale di chi è già andato via, ma resta lì fino a quando tutto si sarà consumato. E non parlo di giorni o di mesi. Parlo di anni. Tutti i processi sentimentali non ammettono scorciatoie. Tutto ciò che non è stato ‘curato’ a sufficienza continuerà a manifestare la sua ‘virulenza’ emotiva.
Rinuncia è uno stato di grazia. E’ arrendevolezza della fantasia. E’ riconoscere al mondo la sua vittoria, come direbbe Kafka. Non rassegnazione, passiva accettazione del ‘male’ e dell’errore. Stare dentro l’asimmetria di una relazione che non poggi su una forte reciprocità di intenti e di atti consapevoli è difficile e duro, ma può costituire una ragione a cui non sottrarsi, in nome di un sentimento antico che non cessa di esercitare il suo fascino sul nostro cuore.
Rinuncia è la rinuncia alla pretesa di sapere tutto, di possedere sempre l’intuizione dell’amore e di sapere sempre cosa sia bene per ‘tutti’. L’abbandono di ogni ‘metafisica del sesso’, che contrapponga ‘maschio’ e ‘femmina’, comporta l’assunzione dell’altro al rango di persona e basta: l’esperienza sentimentale si consuma tra due singolarità qualunque, che si ritrovano l’una di fronte all’altra, con il compito di disegnare i confini del territorio di un’esperienza che si farà comune se significati condivisi animeranno l’esperienza stessa. Per fare questo, bisogna rinunciare alla pretesa di sapere già cosa significhi ‘essere maschio’: scoprirò che tipo di maschio sono soltanto di fronte a lei, che, a sua volta, dovrà scoprire che cosa significhi ‘essere donna’ soltanto di fronte a me. Nel fuoco dell’esperienza soltanto affiorerà il magma originario, da cui proveniamo, e si crescerà a nuova consapevolezza… ‘Abitare la distanza’ è uno dei modi di questa rinuncia.

La prova più grande da affrontare, tuttavia, è un’altra. Di fronte al fatto che le donne tendono naturalmente a non ‘credere’ alle parole d’amore di un maschio, di cui potranno dubitare a lungo, c’è da fare una cosa esemplificata in modo perfetto da Hugo von Hofmannsthal nella commedia L’uomo difficile (1918). Dopo che l’amica e a suo modo mentore Antoinette si rivolge ad Hans Karl rimproverandogli di mostrarsi in modo contraddittorio e ingannevole, egli l’apostrofa con queste parole:

Ma lo sa Antoinette che cos’è cuore, lo sa? Che un uomo ha a cuore una donna lo può mostrare con una sola cosa al mondo: con la durata, con la costanza. Solo così. Questa è la prova, l’unica.

Queste parole, apprese nel 1976, quando lessi la prima volta il volumetto di Hofmannsthal, sono diventate poi il mio Karma, il fondo dell’esistenza personale a cui ho attinto sempre certezze, come un Destino che supera le mie ragioni e quelle di ogni maschio.

Noi ci portiamo dentro poche certezze, che costituiscono le nostre poche certezze. Per me, quella di Hans Karl Bühl è una verità indiscussa.
La conseguenza grande di questa certezza è nel tempo, nella considerazione di quello che facciamo della nostra esistenza, che è ‘abitare il tempo’. Nella dimensione che ci è propria soltanto acquisterà senso e consistenza il sentimento che proviamo per una persona. La serietà delle intenzioni non basta. Giustamente.

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L’essenza dell’amore

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Sabato 1° settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (404): L’essenza dell’amore

«Vorrei sapere, per esempio, perché mi hai sposata».
«Per via della colazione» spiegai.
«Cercavo qualcuno con cui poter fare colazione per tutta la vita, e la mia scelta – si dice così, no? – cadde su di te. Sei stata una magnifica compagna di colazione».

HEINRICH BÖLL, E non disse
nemmeno una parola 

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Intime erranze

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Mercoledì 29 agosto 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (403): Leggere LUCIANA QUAIA, Intime erranze. Il familiare curante, l’Alzheimer, la resilienza autobiografica

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Accade nella vita che improvvisamente il destino presenti eventi inattesi, obbligando a riprogettare l’esistenza e a trovare nuovi punti di equilibrio.

La resilienza insegna che con adeguati supporti è possibile resistere, affrontare le situazioni più gravi e trasformare le crisi in occasione di crescita, dando l’opportunità di affermare che anche una malattia come la demenza può rendere più forte il familiare impegnato nella cura del proprio congiunto.

Nel testo si considera un approccio fondato sulla scrittura autobiografica perché il racconto delle proprie memorie non solo favorisce il pensiero introspettivo e la cura di sé, ma salva il passato, aiuta a trovare uno spazio di tregua nel presente che opprime e incoraggia la scoperta delle potenzialità interiori necessarie a gestire le sfide del futuro.

Mitologia, poesia, letteratura, cinema integrano la narrazione della storia personale che inizia all’interno di un gruppo di reciproco aiuto, il cui sviluppo è da vent’anni promosso e sostenuto dall’associazione di vo­lontariato Donatori del Tempo, vero tutore di resilienza nella comunità locale.

Edito con il Centro Donatori del Tempo di Como, il volume continua il percorso dedicato alla malattia di Alzheimer, che comprende già i volumi Corale, Mnemosine e Arteterapia e Alzheimer.

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Intervista radiofonica di Luciana Quaia a RADIO TRE

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Luciana Quaia e Fabio Cani presentano il libro. Il video documenta la serata di conversazione che si è svolta in occasione della Fiera del Libro di Como, giunta al suo sessantesimo anno. I partecipanti erano nel tendone di Piazza Cavour di Como la sera del 28 agosto 2012.

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Sintesi e forma dell’esistere

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Lunedì 27 agosto 2012

CAMMINARSI DENTRO (401): Sintesi e forma dell’esistere (1)

Mi sono svegliato poco fa all’idea che lungo la nostra vita non facciamo altro che mettere insieme la nostra canzone, nota dopo nota.

Il giorno in cui ‘tutto’ – o quasi – appare chiaro è il giorno della sintesi raggiunta, quando i frammenti combaciano, ma non in una somma di esperienze collegate fra di loro: è sintesi il risultato di infinite alchimie, di tentativi fatti per tenere insieme ciò che magari giaceva separato, quando non addirittura tragicamente risolto nell’infranto.
La sintesi è, piuttosto, la combinazione sempre nuova di elementi che aspiravano a ‘trovare posto’ in un racconto da scrivere in tutte le sue parti.
Nell’ora che non ha sorelle, tuttavia, non si creda che avverrà il grande compimento! come se nell’istante supremo fosse consegnato, per destino, ad ogni uomo, il sigillo della verità!
Il racconto non trova il suo compimento nemmeno qui, nel tempo mondano che ci è dato vivere. Siamo in cammino. La Morte è solo l’interruzione del nostro cammino. Inutile immaginare che l’Irrappresentabile per eccellenza possa acquistare un senso, quando è ciò di cui non è possibile fare esperienza.
Il nostro fare, dunque, ‘si esaurisce’ tutto qui, in questo fare, nella sola trascendenza personale che ci identifica come umani.

Senza disperderci vanamente in ricerche o in fughe in un ‘altrove’ solo sognato, conta sapersi oltre il puro dato di fatto, in un’aura temporale fatta di concreti invisibili, gesti atteggiamenti azioni atti che parlano del nostro ‘fare’.

Al senso del ‘costruire’, a cui rimanda il poiein, il fare, io preferisco il ‘crescere’. 
Rendersi consapevoli delle scelte fatte, soprattutto delle ‘pieghe’ impresse alla propria esistenza per verificarne la bontà, e scoprire che magari venti anni trascorsi sono stati un unico grande ‘errore’, perché fu un ‘errare’ in cerca di ciò che non fu trovato nei ‘contenuti’ delle scelte stesse, equivale a gettare le basi per altre scelte, più mature, perché non basate su mere illusioni o su falsi scopi, sorrette da ragioni sbagliate.
Scoprire di aver fatto scelte grandi essendo mossi da intenzioni che non potevano produrre felicità, ad esempio, è utile, se riusciamo a contemplare quel ‘così fu’, per redimerlo, per riscattarne quanto di sbagliato contiene. Per ‘salvarsi’ è sufficiente non persistere nell’errore, tornando a fare le stesse scelte.
Acquistare consapevolezza dell’errore è, tuttavia, poca cosa, a fronte del nuovo da scegliere. Realizzarsi oltre la mera ripetizione di sé equivale ad aprirsi a nuove evidenze, registrando fedelmente ‘ciò che appare’ davanti a noi, le nuove ‘presenze’, che ci chiamano lontano dalla ripetizione e basta.
Essere fedeli a quel nuovo significa ascoltarne le voci, farsi raggiungere e toccare da esse, accogliere l’evidenza di un altro sentire, consentire ad esso, lasciare che contribuisca a risvegliare strati profondi della nostra personalità, a far nascere un sentimento nuovo.

Se questo è il desiderabile, la proiezione di sé oltre il proprio ‘destino’, più grande è il compito della ‘stesura’ della propria canzone.
La maturazione affettiva è il ritmo raggiunto, il sentire adulto che tutto vede e tutto sa, perché cresciuto sull’errore e sul dolore che ne consegue sempre.
Contemplare dall’alto della collina tutta la vita e riconoscere che essa è buona e santa non è solo segno di saggezza. Occorre saper dire a se stessi cosa fu giusto e cosa no. Quanto era vero di tutto ciò in cui abbiamo creduto. Dov’è il punto da cui idealmente occorre (ri)partire, se fu imboccata una strada sbagliata. Il punctum dolens è propriamente nell’accettazione consapevole di tutto il proprio passato. Occorre patire le scelte fatte, perché si aprano nuovi scenari.
La riconsiderazione riflessiva di ciò che portò in un ‘vicolo cieco’ andrà condotta rendendosi ‘beanti’, lasciando che la ferita sanguini a lungo, suggerendo nuove strade, fino a quando la trasformazione non sarà avvenuta.

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Lo spirituale un tempo

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Mercoledì 8 agosto 2012

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Proprio quando sembrava che fosse più difficile farlo mia madre ci impose il digiuno. Eravamo bambini. Eppure, ogni venerdì era prescritta l’astinenza. Non ricordo bene come trascorresse la giornata. Non si trattava per i piccoli di un digiuno totale. Ricordo, però, che piangevamo. Chiedevamo cibo a nostra madre.
Successivamente scoprimmo la parola penitenza. Poi, pentimento, riparazione, perdono, indulgenza. Nelle ore di Catechismo si discuteva di teologia. Imparammo a memoria dogmi, comandamenti, principi, regole di ogni genere.
Il sentimento fondamentale era la paura. Non che venisse raccomandata. Gli adulti  facevano di tutto, però, perché i nostri comportamenti non deviassero mai dalla norma stabilita. Era previsto anche il timore di Dio. Le punizioni erano corporali, ma spesso si veniva additati al pubblico ludibrio, quando qualcuno veniva smascherato o colto in flagranza di reato. Se a scuola ci picchiavano, preferivamo non riferire a casa, per evitare altre botte. La scuola aveva sempre ragione.
In classe c’era una bambina di nome Maria Cristina a cui era morta la madre. Ogni giorno, tra le varie preghiere era previsto che si rivolgesse il pensiero alla madre di Maria Cristina. Lei piangeva regolarmente.
Dovevamo pensare alla morte almeno nove volte al giorno. Almeno, era quello che ci dicevano di fare.
Il ritiro spirituale precedeva le grandi occasioni e l’esperienza dei Sacramenti.
A maggio, bisognava fare ‘fioretti’ per la Madonna. A giugno, per il Cuore di Gesù.
La Confessione era rito complesso. C’era chi si scriveva l’elenco dei peccati, per non tralasciarne nessuno. Era consentito chiudere la confessione con la formula: “Padre, mi perdoni anche per i peccati che non ricordo”. Naturalmente, nel gruppo dei maschi più coraggiosi si stabilì di correre alla formula per evitare l’esperienza spiacevole dei rimproveri e delle punizioni severe. Di regola, il sacerdote prescriveva tre Padre Nostro, tre Ave Maria, tre Gloria al Padre. I peccati più gravi, però, portavano le preghiere riparatrici a numeri elevati, che richiedevano anche giorni interi. Per non rubare a Dio, poi, bisognava scriversi le preghiere che restavano da recitare ancora.
Chi riusciva a prendere l’Eucarestia il primo venerdì del mese, per nove mesi consecutivi, si guadagnava il ‘riscatto’ delle pene del Purgatorio. Io riuscii nell’impresa, ma non osai pensare mai che mi si sarebbero spalancate le porte del Paradiso. Dell’aldilà, di cui parlavamo ogni giorno, poi, non avevamo una visione chiara. Credo che fosse sostanzialmente quella dantesca. Fiamme e sofferenze nell’Inferno, penitenza ed espiazione nel Purgatorio, premio nel Paradiso. Del premio si parlava poco, essendo per lo più impegnati ad esorcizzare paure e anatemi di ogni genere.
Sapevamo che i comunisti erano stati scomunicati. Noi ci sentivamo al sicuro, perché in famiglia eravamo democristiani. Quando la radio dette la notizia dell’invasione dell’Ungheria, io ero a letto con l’influenza. Quando rientrai a scuola, trovai tutti impegnati a pregare per i bambini ungheresi.
Tutto quello che stava al di sopra di noi era oggetto di rispetto e venerazione, dal bidello al Papa e oltre. Amavamo tutti quelli che facevano qualcosa per noi. Ed erano veramente tanti. “Onora il padre e la madre” incuteva in noi un sacro timore. Mai nessuno osò sollevare lo sguardo fino a loro, per esprimere disappunto, rammarico, risentimento. Ci limitavamo a piangere, per le imposizioni quotidiane e per le punizioni altrettanto regolari. Abbiamo pianto a lungo.
Ricompensa, riconoscenza, gratitudine erano note anche ai bambini.
Io ero convinto che le donne belle fossero tutte ricche. Siccome io ero povero, pensavo che non mi sarei mai sposato. Non avevo ancora realizzato che mia madre era povera e si era sposata regolarmente. Ed era bella, per me. Certo, non come quelle che si vedevano sui giornali, ma non avrei mai osato pensare che fosse brutta. Era un altro ordine di cose. Nella mente non si incontravano mai i sogni dell’amore e della bellezza con l’esperienza quotidiana. Perché mio padre e mia madre si fossero sposati restò un mistero. Non osavamo pensare che avessero generato noi con un atto sessuale. A scuola, le suore ci avevano descritto la cosa come atto da evitare. Sicuramente, loro avevano evitato. Non li ho mai visti abbracciati. Non si sono mai toccati davanti a me. Era conoscenza acquisita e condivisa il disprezzo del corpo e della sessualità.
Solo in prima media, quando i miei coetanei mi fecero scoprire la masturbazione, incominciai a rendermi conto dell’assurdità di tutte le cose che non ero mai riuscito a pensare ‘organicamente’. Avevamo idee confuse che i più grandi provvidero a incenerire in pochi giorni. Scoprimmo le ragazze, la possibilità di ‘pomiciare’ con loro. Bastava organizzare una festa da ballo e assegnare a qualcuno il compito di spegnere le luci al momento opportuno. Nonostante il buio, però, a me non fu dato mai di scoprire le ragazze da vicino. Quello che facevano i più grandi rimase un mistero. Probabilmente, non facevano un bel niente. Nei cinque anni trascorsi nel Liceo della città, fu possibile vedere nascere una sola coppia. Per il resto, le ragazze erano lì, ma non osavamo avvicinarci a loro. Come avremmo detto dopo, eravamo imbranati. Circolava la voce che il sesso era esperienza che avremmo conosciuto solo dopo il matrimonio. I grandi del quartiere parlavano di Ines, una prostituta della città nota come la contessa Volpone. Per il resto, riviste come Playboy, film erotici, fantasie, racconti improbabili.
La letteratura ci insegnò cosa fosse l’amore, ma anche in quel campo le idee erano confuse. Dante ci convinse di una cosa, Petrarca di un’altra cosa. Quando arrivò Boccaccio eravamo alla confusione. Di amore non parlava mai nessuno. Dopo cinquant’anni, non abbiamo ancora finito di scoprire cosa sia veramente! E non si può dire che ci sia accordo fra di noi, che sia pacifico cosa si debba intendere per amore. L’unica cosa chiara è cosa si debba evitare – ammesso che tutti siano disposti ad evitare! -, ma l’errore appare chiaro solo dopo averlo commesso. E non tutti ci giurerebbero sopra. L’elenco completo degli errori resta esercizio sterile, se poi non si arriva alla chiarezza su cosa ci sia di buono da fare. Resta un mistero il fatto che questa bontà non sia riconosciuta e praticata da tutti senza fatica. Evidentemente, non siamo fatti per stare sulla strada maestra. Ci piace immaginare cose proibite e impossibili. Desideriamo la donna d’altri. Ci esercitiamo ancora a spogliare con lo sguardo tutte le donne che ci accade di incontrare… Della sessualità maschile non sappiamo più cosa pensare, una volta decretata la morte del Maschio. Se è facile consentire sulla necessità di abbandonare ogni Metafisica del sesso, cioè sulla considerazione assoluta di una ‘natura’ maschile e di una ‘natura’ femminile intemporalmente considerate, un po’ meno facile è fare i conti con la tendenza femminile a giudicare la sessualità maschile come violenta e orientata esclusivamente alla genitalità.

Dei fantasmi del passato resta solo un pallido ricordo, ma sono sempre convinto del fatto che negli anni della formazione sono stato ‘scolpito dentro’ da persone che mi fecero vedere una parte di realtà, lasciando in ombra quello che era più importante conoscere.
Oggi sono ancora, inevitabilmente quello di un tempo. La risacca del passato mi riporta agli antichi terrori e a un ‘dover essere’ fatto di facili costrizioni a cui mi sottometto ancora volentieri. Debbo scegliere di stare bene, di aprirmi al mondo, di avere fiducia negli altri… Debbo darmi il permesso di essere felice, perché trovo più naturale fare soltanto in modo che gli altri intorno a me lo siano. Quanto della mia natura dipenda da ‘quella’ educazione è stato sempre un compito per me. Stabilire fino a punto rendere omaggio ancora ad insegnamenti che sono stati operanti per decenni in me è un lavoro della coscienza a cui non riesco a sottrarmi. Decidere se un ammaestramento basato su sacrifici e rinunce sia ammissibile oggi, in tutto o solo in parte, è questione aperta.

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La nostra esperienza morale

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Sabato 4 agosto 2012

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Probabilmente, il compito più difficile per il nostro tempo è arrivare ad esprimere compiutamente un discorso articolato sulla nostra esperienza morale. Non si tratta, in verità, di affrontare partitamente le questioni, presumendo di potersi accontentare di lavorare un concetto, avendo esplorato accuratamente una virtù, una passione, un’emozione. A che servirà sapere tutto della giustizia, se non sapremo essere giusti? A che servirà esaltare il Bene, se non saremo capaci di vivere una vita buona? A che servirà conoscere il Male nelle sue astrazioni, se non sapremo riconoscere le sue apparizioni e combatterlo?
Nemmeno una teoria delle emozioni, un trattato delle passioni, una teoria generale della coscienza basteranno a dire i mutamenti della sensibilità. I filosofi tutti hanno imparato a regolare i discorsi sulla vita delle passioni a partire dalla conoscenza delle neuroscienze. In questo modo, siamo al sicuro. Il sostrato scientifico è assicurato. Resta, poi, da dire cosa sia dover scegliere oggi e se sia certo che quello che sceglierò è esattamente ciò che era giusto scegliere. Non soltanto le vicissitudini della coscienza – della psiche – interverranno ad occupare la scena. Svegliandomi al mattino, non so se mi guiderà un demone buono o un demone cattivo. Nè la filosofia sistematica né le neuroscienze mi aiuteranno a scegliere.
Soltanto la mia phronesis mi sosterrà. E averne una, agire secondo ‘scienza’ vorrà dire possedere un habitus, essere capace di assumere atteggiamenti corretti e adeguati alla situazione, mostrare un vero sentire, esprimere con esattezza sentimenti autentici.
Soltanto un lungo esercizio rende possibile tutto ciò. La vita buona è lo specchio della trasparenza della coscienza. Onestà intellettuale e autentico sentire soltanto aiutano a compiere scelte consapevoli.

Se è diventato difficile discorrere di moralità, propugnarne una, con il necessario corredo di principi, regole, prescrizioni per l’azione, non dipenderà soltanto dalle derive del tempo, dai vecchi peccati e dai nuovi vizi. I mutamenti del costume e delle mentalità, il venir meno delle censure etico-sociali avranno contribuito a indebolire l’edificio della morale comune. Resta, tuttavia, intatto il bisogno di dare voce, una voce articolata, alla propria esperienza morale.

Si tratta di ordinare in una visione unitaria il posto che occupano nella nostra esperienza i moti dell’anima e i procedimenti argomentativi della mente. I tempi per farlo sono maturi.

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Il corpo in Occidente

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Venerdì 20 luglio 2012

Idee per una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (400): Ascoltare Umberto Galimberti, Il corpo in Occidente

 Pistoia, 27 maggio 2011 – Audio e Video – Durata: 41′

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Il rifiuto del corpo in adolescenza

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Venerdì 20 luglio 2012

Idee per una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (399): Ascoltare Gustavo Pietropolli Charmet, Il rifiuto del corpo in adolescenza

 Pistoia, 29 maggio 2011 – Audio e Video – Durata: 42′

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La fatica di crescere

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Venerdì 20 luglio 2012

Idee per una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (398): Ascoltare Roberta De Monticelli, Sulla fatica di diventare adulti. Corpo sociale e identità personale

 Pistoia, 28 maggio 2011 – Audio e Video – Durata: 43′

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Ma chi vorrete biasimare

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Domenica 1° luglio 2012

CAMMINARSI DENTRO (397): Ma chi vorrete biasimare…

Vista da fuori la condizione tossicomanica non appare priva di uscite a chi è saldamente ancorato alla realtà e dispone di soluzioni varie per affrontare i problemi della vita: è forte la tentazione di ‘proiettare’ sull’altro le innumerevoli ‘possibilità’ che si presentano e che appaiono addirittura evidenti. Sembra che tutto ciò che viene offerto nelle strutture del tempo libero sia percepito in eguale misura da tutti, mentre non è così! La realtà appare drammaticamente diversa a una mente che non sia aperta a quella evidenza. Le cose stanno lì, davanti a noi, ma ci accade di non vederle. Stare nella misura di ciò che è possibile fare con le risorse disponibili è la regola di vita dei più. E’ un po’ quello che chiamiamo ‘normalità’.

Per le persone ‘comuni’ che si ritrovino a parlare con un ragazzo che abbia imboccato da tempo la strada della dipendenza non è impresa facile: si tratta di comprendere la situazione bloccata di chi non ha risorse sufficienti per uscire dalle difficoltà in cui si è cacciato o che la vita gli ha riservato. Si potrebbe semplificare il ragionamento dicendo che la ‘mente tossicomanica’ è alterata gravemente, fino al punto che non riesce a percepire ciò che pure esiste, ha una sua consistenza, a causa di un ‘interesse’ che è tutto concentrato ormai sugli effetti procurati dalle sostanze. E gli effetti non sono dati solo dal piacere solitario ricercato: il potere analgesico, lenitivo delle sostanze stupefacenti è noto. Esse svolgono una paradossale funzione ‘terapeutica’, come attestato da tutta la letteratura scientifica.
Ci interessa, invece, orientare lo sguardo verso la tendenza del senso comune a ‘ricordare’ le possibilità di vita che offre l’ambiente, per rendere più chiari i termini di una condizione che non consente (più) di ‘ricordare’, di ‘vedere’ le possibilità che si aprono per noi al mattino, quando usciamo di casa, ma anche prima di farlo. Dire che siamo di fronte a una patologia della libertà può sembrare ‘ideologico’, ma non lo è: non diremo mai a un ragazzo cosa sia la libertà, come se fosse una nostra ‘visione del mondo’, ma, d’altra parte, quando ci si inoltri con lui nella considerazione delle cose possibili da fare per uscire da una condizione dalla quale egli dichiara di voler uscire, affidandosi a noi, dovremo forse rinunciare a mostrargli – con il ricorso all’efficace dissonanza cognitiva data dal confronto tra una vita che si esplica attraverso il godimento di numerose possibilità e quella che ne ‘possiede’ solo una – il possibile come campo della nostra libertà?

Noi finiamo anche per elencare le occasioni e le risorse disponibili nella città, oltre ai modi per avvicinarsi alle persone che non abbiano problemi di sorta, per ‘rimettere in moto la vita’. Interi colloqui vengono dedicati al suggerimento fiducioso di cose che si potrebbero fare – come andare ogni giorno nella Biblioteca comunale a leggere i quotidiani o le riviste esposte per i ‘passanti’ -, per verificare ad ogni esempio che il ragazzo non risponde alle nostre sollecitazioni. Eppure, a noi sembra che si tratti sempre di consigli pratici di facile attuazione! 

Dagli esponenti maggiori della scuola lacaniana abbiamo appreso che “la realtà è piena”: non diremo, allora, che la nostra città offre questa o quella opportunità, come se un paese vicino, senza le nostre ‘occasioni’ per il tempo libero, per le sue piccole dimensioni fosse ‘vuoto’. Anche di quella piccola realtà diremo che è ‘piena’. 

Perché ‘pieno’ e ‘vuoto’ non ci servono per designare una quantità. Dire che la realtà è piena costituisce un potente paradosso dell’esperienza, che ci guida fino alla consapevolezza di come dipenda da noi, solo da noi, ‘prendere’ da essa tutto quello che (ci) offre di buono. Per illustrare meglio cosa sia il ‘pieno’ che mi preme esaltare qui, riferirò un episodio di tanto tempo fa a cui ho assistito, che conserva tutta la sua ‘attualità’. Nel corso di un’assemblea di istituto degli studenti del Biennio della mia scuola – un Liceo Scientifico – i ragazzi si avvicendavano al microfono per elencare tutto ciò che mancava nella città. In sostanza, c’erano buone ragioni per concludere che in essa c’era (c’è) poco… A un certo punto, mi chiese la parola una ragazzina che dal fondo aveva alzato la mano. Si avvicinò e prese subito a dire con voce ferma e sicura, ma con dolcezza: “Non sono d’accordo con nessuno di voi. Anche io con i miei amici mi sono ritrovata spesso a dire che nella nostra piccola città non c’è niente. Fino a quando, un bel giorno, ci siamo guardati tutti in faccia e ci siamo detti: ma come non c’è niente! Ci siamo noi!” – Il seguito del ragionamento è facile da sviluppare. 

Gli antichi avevano detto “Tutto è pieno di dei”. Oggi potremmo dire: “Tutto è pieno di noi”. La realtà è piena di persone dotate di una consapevolezza di sé più o meno grande. Dipende da noi ‘prendere’ da esse ciò di cui abbiamo bisogno per vivere bene.

Se le vicissitudini della nostra esistenza ci portano ‘fuori della realtà’, solo ad essa bisognerà tornare per ritrovare il senso che non riusciamo più a dare alle cose.

Calvin Campbell

Voi che recalcitrate contro il Destino,
ditemi come avviene, su questo pendio
che precipita al fiume,
esposto al sole e al vento del Sud,
come avviene che una pianta
trae dal suolo e dall’aria
del veleno e si fa edera amara,
mentre un’altra dal suolo e dall’aria
trae dolci elisiri e colori,
e prosperano entrambe?
Voi potete biasimare Spoon River per ciò che è:
ma chi vorrete biasimare per la volontà in voi
che si nutre e vi rende gramigna,
dente di leone o verbasco,
e che non sa mai servirsi dell’aria o del suolo
per rendervi gelsomino o wistaria?

EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River

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Stelle sulla terra

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Domenica 17 giugno 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (395): Stelle sulla terra 

Dal sito Tutti a bordo – dislessia: Versione integrale del film “Stelle sulla terra” su Youtube! Un grazie a Carlo Folli che ha curato i sottotitoli e ci ha permesso la visione completa del film. 

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