In absentia

Domenica 15 febbraio 2015

DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D’AMORE : Elaborare abbandono e perdita in absentia, cioè riconoscere che di abbandono e perdita si tratta

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Sarà pensabile come  paradosso dell’esperienza  il fatto di ritrovarsi ad elaborare il significato di un’esperienza sentimentale senza poter contare sul ‘contributo’ dell’altro o è destino di ogni relazione consumata dal tempo e dalle circostanze che spetti a chi resta il compito di decidere cosa ne vada di sé, delle proprie ragioni, del tempo che resta? Quando ormai si sia scoperto che un accordo sulle cose non è più possibile e il tasso di litigiosità oscura ogni buona intenzione, sarà sufficiente riguardare la cosa, la relazione, come compromessa e basta, al punto che non si dia in nessun modo la possibilità di dare un senso a ciò che resta, per fare in modo che sia un resto che dura oltre ogni insanabile contrasto?

Il tono stesso di questa riflessione forse è sbagliato: se l’asimmetria costitutiva di ogni relazione sentimentale è già problema, cosa dire di una relazione in cui l’altra parte è afasica, non parla, non può parlare, perché non sa di sé, non avendo mai avuto il linguaggio dei sentimenti per dire chi e cosa. Forse tutto si riduce prosaicamente a una psicopatologia dell’esperienza amorosa. Ostinarsi a chiedere e a cercare e ad aspettare non ha senso, se non si siano avute già risposte, se non si sia già trovato ciò che si cercava, se il tempo dell’attesa non sia mai stato definito. L’assenza dell’altro, allora, andrà riguardata e vissuta correttamente come abbandono e perdita. L’elaborazione richiesta sarà quella del lutto, perché di ciò che non vive non si può dire altro, se non che non è più vera presenza, non è più presenza.

Se è sempre vero quanto segue

E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo. – PAUL VALERY

 

allora dovremo lasciare l’ultima parola al nostro cuore e alle sue ragioni: in questa parte della nostra vita, siamo disposti a credere solo alle parole del nostro maestro Jacques Lacan: “L’amore è sempre ricambiato”. A chi si ostina a credere che il vero amore o l’amore puro o l’amore bello o l’amore sincero o l’amore sia amare comunque e chiunque, perché conta solo amare, posso solo augurare un rapido risveglio: capire dopo decenni di aver vissuto un amore inutile, ché magari non è mai stato ricambiato, non aiuta a sentirsi bene. Non esistono, tuttavia, strade brevi o scorciatoie: nessuno apprende facilmente la lezione della realtà. Un sano sentire incorpora quotidianamente nell’esperienza personale ‘dosi’ crescenti di realtà: è lo sguardo benevolo dell’altro la conferma di essere nella realtà. Se non si è corrisposti, l’unica realtà possibile è quella ‘sognata’.

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Epifanie mondane (1): Il primo apparire

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Epifanie mondane (1): Il primo apparire

Aver cura del vivente richiede tempo, attenzione, attesa: in una parola, pazienza. (Gabriella Caramore)

Ad ogni nuovo ingresso nella stanza, tutte le volte che si presenta qualcuno per la prima volta nella sede del Centro di ascolto lasciamo che la cosa accada, come se non stesse accadendo niente di sconvolgente, niente che non ci sia già noto, per aver visto nella nostra lunga vita apparire cose e persone: alla prima volta non abbiamo attribuito significati speciali; la particolarità di ognuno, la novità di ognuno ci è sempre parsa in qualche modo scontata. Si è trattato sempre di catalogare immediatamente la persona come utente interessato ad una richiesta di aiuto. Qualche volta siamo stati colpiti più del solito dalla drammaticità del racconto, ma anche questo aspetto della cosa è stato riassorbito all’interno della consuetudine dell’ascolto: ciò che si presenta drammaticamente cessa di esserlo quando si siano inquadrati i problemi e si sia stabilita la relazione. 

Se questo è ciò che ci appare di noi stessi, se restiamo alla superficie delle cose, ben più intenso e profondo risulterà lo sguardo che accoglie, se leggiamo più attentamente la scena: gentilezza e disponibilità umana non sono qualità private, caratteristiche di personalità che appartengano a pochi! La formazione professionale degli ascoltanti è formazione permanente che mira a educare all’ascolto attivo ogni persona che sia interessata ad aprirsi alle voci del mondo: si tratta di dare valore alle molteplici presenze che si accampano sulla scena, per cui è l’infinito trascorrere da una persona all’altra che è in questione. Bisogna apprendere a percorrere il ponte che avremo gettato tra noi e l’altro, perchè sia possibile trascorrere da una direzione all’altra indifferentemente. Accogliere ed essere accolti è accettare ed essere accettati, riconoscere dignità all’altro e vedersi riconosciuti nella propria dignità. Nel momento in cui l’altro avverte che le sue parole hanno peso non può fare a meno, a sua volta, di aprirsi, di accogliere, di accettare, di ricambiare le attenzioni, di offrire le personali risorse per favorire la conoscenza di sé. Lo scambio di risorse e la reciprocità, assieme all’interazione emozionale, generano il legame. 

La marcia di avvicinamento progressivo, che è apertura alle ragioni dell’altro, l’esplorazione della sua ambivalenza, la possibilità offerta all’altro di elaborare i due lati dell’ambivalenza fanno dell’ascoltante un camminante. L’accesso all’invisibile dell’esperienza dell’altro non è ingresso in una zona dell’anima paragonabile a un luogo ideale: è, piuttosto, il momento in cui emerge un vissuto personale a costituire di fatto la possibilità del contatto emotivo: il nostro sistema di significati – la nostra mente – incontra un altro modo di declinarsi nel mondo, che è ancora sconosciuto per noi. La terra incognita che ci si para davanti è propriamente l’esperienza dell’altro. Avvertire di essere dislocati altrove, di essersi allontanati per un po’ dalle proprie ragioni per conoscere altro – per amore di altro – è già essere partiti in direzione dei sei lati del nondo: dovremo stabilire con l’altro il significato di alto e basso, avanti e indietro, destra e sinistra: è ciò che chiamiamo Kairós, cioè tempo debito, il momento opportuno per poter dire che siamo qui e ora, che occupiamo lo stesso spazio e ci moviamo nello stesso tempo; è la qualità dell’accordo a cui si arriva dopo aver camminato insieme guardando nella stessa direzione. 

Il movimento verso se stessi, verso gli altri, verso il mondo costituiscono i tre fondamenti dell’autoeducazione, il costituirsi dell’esperienza come Erfahrung, ‘viaggio’, ‘cammino’. Da Erlebnis a Erfahrung. 

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Il “paradosso fondante” della filosofia ma anche dell’esperienza comune

Domenica 22 giugno 2014

L'esperienza estetica (1): I paradossi dell'esperienza

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«Il 'referente' non è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l'‘operazione’ a sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne» (EMILIO GARRONI, Ricognizione della semiotica. Tre lezioni, OFFICINA EDIZIONI 1977, pag.69)

STEFANO VELOTTI, La "facoltà dell'immagine" di Emilio Garroni e il suo contributo alla ricerca contemporanea sulla percezione, i "contenuti non concettuali" e l'immaginazione, www.filosofia.it (2013)  è un saggio dedicato all'ultimo libro di Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, LATERZA 2005, che per lui è una ripresa e un ripensamento di temi già trattati in Ricognizione della semiotica. I rapporti tra sensibilità e intelletto kantiani sono chiariti in termini di «facoltà dell'immagine» e di linguaggio e concetti. Nell'opera del 2005 Garroni affronta lo statuto del linguaggio solo in relazione all'«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio» (p.57). Nel 1998, con L'indeterminatezza semantica, una questione liminare – poi rifluito ne L'arte e l'altro dall'arte. Saggi di estetica e di critica (Laterza 2003, pp.89-115) – incontriamo quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che Garroni ha pensato più a fondo: il «paradosso fondante» della filosofia, ma anche dell'esperienza comune, di cui si era occupato già ne I paradossi dell'esperienza, in Enciclopedia Einaudi, vol.XV: Sistematica (Einaudi 1982, pp.867-915) e in Senso e paradosso. L'estetica, una filosofia non speciale (Laterza 1986).

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Ci troviamo di fronte a uno dei vertici della Filosofia contemporanea, per la quantità e la profondità delle questioni poste dall'opera di Garroni. Le parole chiave sono 'paradosso' ed 'esperienza'.

Esperienza personale ed esperienza estetica, ma anche il modo in cui l'esperienza estetica influenza l'esperienza personale, cioè il personale modo di sentire, e il modo in cui la profondità e l'esattezza del sentire favoriscono la percezione delle cose belle.

Perché tra sentire privato ed emozione estetica non corre una linea di confine che oltrepassiamo, quando ci accingiamo a leggere una poesia, a fruire delle opere dell'arte figurativa, musicale, cinematografica… Tra un sentire e l'altro non c'è 'passaggio', né in un senso né nell'altro, perché si tratta di un unico territorio. L'educazione sentimentale ricevuta, le inclinazioni personali, la qualità impressa alla vita morale, la grana della voce, la percezione dell'esistenza altrui, lo sguardo che si posa sulle cose, il gusto che proviamo di fronte al brutto e al bello… La solitudine e l'azione, i gesti e gli atti liberi, la capacità di dare e di ricevere… Compassione, gentilezza, magnanimità, autenticità… L'amicizia e l'amore, la valorizzazione delle qualità altrui, la disponibilità disinteressata, l'attaccamento interessato… La riflessione, la meditazione, l'esercizio, la lettura, l'ascolto, l'osservazione ininterrotta…

Tutta la nostra esperienza di noi stessi, degli altri, del mondo acquista immediatamente rilevanza estetica nel momento in cui ci poniamo il problema della sua dicibilità, di ciò che ne faremo, se diventerà materia di racconto, se si farà discorso, storia, biografia, socialità larga.

Tra esperienza e comportamento si gioca tutta la nostra vita. E chiameremo esperienza l'indicibile, l'ineffabile, l'inesprimibile, l'inconfessabile, il sottaciuto, l'inespresso, il presupposto, l'implicito, il non verbale, l'immateriale: tutto l'invisibile dell'esperienza personale. I nostri invisibilia. In questo senso, accedere all'esperienza altrui equivale ad 'entrare' nell'esistenza stessa, istituire file di continuità, stabilire una relazione, curare un rapporto interpersonale, riconoscere la realtà di legami, sentirsi legati, chiamare libertà ciò che lega non ciò che scioglie.

Aprirsi all'evidenza della presenza altrui e trascorrere oltre le mere apparenze da ciò che appare a ciò che costituisce la sostanza di una persona facendosi guidare sempre dal modo di darsi delle cose e delle persone, il personale modo di consistere e di protendersi nella realtà mondana da parte dell'altro, per sentirne le voci, per farsi occhi capaci di sentire la segreta armonia di un'esistenza è giusto come il pane, è vero amore per la creatura.

Scoprire il problema della dicibilità dell'indicibile e sapere che nell'esperienza amorosa non facciamo altro che divinare da un fondo enigmatico e buio equivale a vivere l'amore come esperienza che solo per metà ci vede consapevoli di ciò che siamo, perché stiamo lì, accanto ad una persona e non ad altre: interroghiamo perennemente la nostra interiorità, per restituire i sensi del nostro umano consistere accanto a un partner, ma incontriamo soltanto indeterminazione e approssimazione, timore e tremore, in mezzo a qualche certezza acquisita.

Occorre dare voce a tutto il non detto, che per definizione non può essere espresso, perché in quel territorio si gioca quel che ne sarà di noi, se saremo persone consapevoli oppure no.

La ricerca di Emilio Garroni è tutta protesa alla comprensione della realtà di quella zona nevralgica dell'esperienza umana – kantianamente, un nuovo 'condizionato' – in cui si produce immagine, al di qua del parlato e dello scritto, di ogni compiuta espressione di sé.

Il paradosso dell'esperienza, di fronte al quale perennemente ci ritroviamo, è innanzitutto il paradosso del linguaggio, che è nello stesso tempo unico/molteplice, unitario/plurimo, «punto di partenza»/«punto di arrivo». 

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Il coraggio di educare

Domenica 22 giugno 2014

CAMMINARSI DENTRO (486): Il coraggio di educare

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«Se la madre non sa che il figlio si droga allora si suicidi» (Antonio Reppucci, Prefetto di Perugia. 

Esso non sa che nessuna madre sa quello che combina un figlio, quando questi esce di casa, perché nessuno ha mai visto quello che da ragazzi facciamo di nascosto. 

Altra cosa è dire che una madre dovrebbe accorgersi di quello che il figlio combina, quando esce di casa: dovrebbe controllare, nei limiti del possibile, i luoghi e le persone che frequenta – il contagio emotivo è fenomeno accertato scientificamente: però ci dice chi siamo, non che non dovremmo frequentare questo o quello: se cerchiamo questo o quello, che buoni non sono, il problema è in noi. Una madre, poi, dovrebbe parlare con suo figlio, non smettere mai di parlare; dovrebbe preoccuparsi, se non ci riesce, perché è proprio questo il momento in cui le cose stanno cambiando. Che un ragazzo si sottragga ai controlli è 'normale'. Che non voglia dire tutto di sé è 'normale'. Non è normale che una madre si rassegni a ogni cambiamento come se fosse inevitabile: è sempre possibile 'contrattare' spazi di libertà e comportamenti. 

In tutte le nostre relazioni siamo quotidianamente impegnati a contrattare il significato da attribuire alle cose. I genitori scoprono, così, la fatica dell'educare. I ragazzi che crescono richiedono da parte nostra il coraggio di educare. Dobbiamo interpretare correttamente i segni. L'unica cosa che si possa rimproverare a un adulto educatore è proprio questo, di non comprendere quello che accade in un figlio, negli anni cruciali della crescita. 

Gustavo Pietropolli Charmet ha scritto un libro intitolato "Non è colpa delle mamme", in cui si descrive quello che accade quando un ragazzo di 12-13 anni incomincia ad esplorare da solo la realtà, allontanandosi necessariamente da sua madre. I processi di individuazione della persona sono resi possibili solo se la madre "lascia andare" il figlio, permettendogli di crescere. Si capisce che il figlio, a sua volta, non dovrà allontanarsi "troppo" da sua madre. Questo è anche il tempo in cui – secondo Claudio Risé – le madri dovrebbe affidare i figli ai padri. 

In questo territorio nevralgico della vita nostra e dei nostri figli si gioca tanta parte di quello che saremo tutti, genitori e figli. Crescono i figli, cresce la responsabilità dei genitori. Libertà dei figli e libertà dei genitori sono il terreno su cui ci si incontra oppure no. 

Per esperienza posso dire che tutti i genitori scoprono anche dopo 10-20 anni quello che i figli facevano fuori di casa a loro insaputa. Nei Centri di ascolto chiamiamo errore educativo questa 'cecità'. Con i genitori lavoriamo perché non ripetano più lo stesso errore. Altro la vita non ci concede. 

Le agenzie di socializzazione esistenti potrebbero aiutare la famiglia a guidare i ragazzi che crescono, ma non lo fanno. La politica non educa alla trasparenza e all'onestà. I genitori sono sempre più soli nella barbarie liberista. I ragazzi sono spesso 'merce' televisiva e pubblicitaria. 

I Prefetti farebbero bene a leggere, soprattutto testi che parlino di Educazione e dei modi in cui aiutare la famiglia a crescere in modo sano.

 
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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Emozione, sentimento, coscienza secondo Antonio Damasio

Lunedì 24 marzo 2014

CAMMINARSI DENTRO (485): Emozione, sentimento, coscienza secondo Antonio Damasio

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Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. Aristotele

I sentimenti sono il fondamento
della nostra mente.
Damasio

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Qual era […] l'errore di Cartesio?
Si potrebbe cominciare con una rimostranza: rimproverandogli di aver convinto i biologi ad adottare (fino ai nostri giorni) meccanismi simili a orologi per i processi della vita. Ma questo forse non sarebbe proprio corretto; e allora si potrebbe continuare con il "Penso, dunque sono". L'enunciato, il più famoso di tutta la storia della filosofia […], esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero riguardo alle origini della mente e riguardo alla relazione tra mente e corpo; esso suggerisce che il pensare, e la consapevolezza di pensare, siano i veri substrati dell'essere. E siccome sappiamo che Cartesio immaginava il pensare come un'attività affatto separata dal corpo, esso celebra la separazione della mente, la "cosa pensante" (res cogitans), dal corpo non pensante, dotato di estensione e di parti meccaniche (rex estensa). Antonio Damasio, L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995

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L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi 1995, 400 pagine

Risale a Cartesio quella separazione drastica fra emozione e intelletto che per secoli è stata un criterio ispiratore della ricerca, nonché un principio speculativo da non violare. Ma la realtà si sta rivelando diversa. In particolare, le affascinanti indagini sul cervello attualmente in corso muovono in tutt’altra direzione. Damasio è stato forse il primo a porre sotto attento esame le infauste conseguenze della separazione di Cartesio, e oggi è possibile circoscrivere quell’errore sulla base non soltanto di argomentazioni speculative, ma anche dell’analisi di casi clinici – che Damasio presenta con vivacità narrativa comparabile a quella di Sacks – e della valutazione di fatti neurologici sperimentali. Tutte le linee sembrano convergere verso uno stesso risultato: l’essenzialità del valore cognitivo del sentimento. Forzando l’espressione linguistica corrente, Damasio usa «sentimento» per denotare qualcosa di concettualmente nuovo, e introduce una distinzione importante e finora non rilevata fra il sentire di base e il sentire delle emozioni: distinzione che qui è fondata su osservazioni di architettura anatomico-funzionale del sistema nervoso centrale e non su motivazioni di solo funzionalismo psicologico (come per esempio in Johnson-Laird). Si compie così un grande passo in avanti verso il chiarimento neurobiologico della funzionalità emotiva e dei suoi strettissimi intrecci con l’agire razionale. Proprio qui si addensano le principali novità, che fanno di questo libro una delle letture più appassionanti in un campo – quello del rapporto tra cervello e coscienza – dove ancora moltissimo è da scoprire. L’errore di Cartesio è apparso per la prima volta nel 1994.

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Emozione e coscienza, Adelphi 2000, 468 pagine

Sento, quindi sono». Potrebbe essere il motto di questo importante libro, dove Damasio prosegue sulla via intrapresa con L’errore di Cartesio. Qui si tratterà di avvicinarsi alla coscienza, nel senso di «consapevolezza», attraverso l’emozione. Ma come farlo con rigore scientifico? Come sottoporre l’esperienza più volatile e multiforme, tutta in prima persona, ai più sottili criteri della scienza, che sono tutti in terza persona? Tale interrogativo si pone oggi a legioni di scienziati che hanno collocato la coscienza al centro delle loro ricerche, con una convergenza simile a quella che si era data, qualche decennio fa, sulla struttura atomica della materia. Si può dire che alcune delle risposte più convincenti si siano manifestate proprio in questo libro, anche per la straordinaria capacità di Damasio di mescolare, sovrapporre e giustapporre l’analisi al livello neurofisiologico e quella al livello psicologico, affrontando alcuni impressionanti casi clinici con una penetrazione che ricorda Oliver Sacks. Mentre, via via che l’indagine procede, si delineano con chiarezza i tratti di una teoria generale della coscienza, che è anche una teoria dell’identità, articolata in una gerarchia di livelli del sé, con i rispettivi supporti anatomici e correlati mentali. Emozione e coscienza è apparso per la prima volta nel 1999.

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Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi 2003, 424 pagine

Completando la trilogia iniziata con L’errore di Cartesio e proseguita con Emozione e coscienza, Damasio inserisce nell’arco che si tende fra Cartesio e Spinoza la sua interpretazione della coscienza, fondata sulla distinzione tra le emozioni, quali manifestazioni comportamentali di natura fisiologica e materiale, e la loro percezione consapevole, i feelings, o sentimenti, di carattere mentale (qualsiasi cosa questo voglia dire). Laddove Cartesio separava l’intelletto dalle passioni, giudicate di natura inferiore, Spinoza, in una premonizione biologica di inquietante modernità, vi riconobbe una medesima sostanza: «La mente è l’idea del corpo». Per usare il linguaggio di Damasio: dietro la mente vi è unfeeling brain, un cervello che «sente» i messaggi del corpo.Attingendo ai risultati più recenti delle neuroscienze cognitive – in parte conseguiti dal suo stesso gruppo di ricerca allo University of Iowa Medical Center –, Damasio propone una risposta a vertiginosi interrogativi: da dove nascono i sentimenti? A che servono? E infine: che cosa sono? In questa analisi, insieme fenomenologica e neurobiologica, l’esperienza clinica e scientifica di Damasio si fonde, soprattutto nella esposizione dei casi clinici, con una vena narrativa affine a quella di Oliver Sacks.Summa della più avanzata ricerca sulla coscienza, questo libro sposta su un nuovo terreno il dibattito mente-corpo, che è la prima sfida del pensiero scientifico in questi anni. Avviata quasi per caso con il controllo di una citazione, relitto di ormai offuscate letture giovanili, la «ricerca di Spinoza» consente al Damasio maturo di rimeritare la metafisica spinoziana: e dalle insondabili ambiguità del Deus sive natura nasce per lui – e per tutti noi – un quadro interpretativo affascinante, che comprende la totalità della natura, includendovi la mente che la osserva. Alla ricerca di Spinoza è stato pubblicato per la prima volta nel 2003.

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.Il sé viene alla menteA lungo la coscienza è stata sovrapposta a nozioni quali «spirito» o «anima», quasi che l'ultima parola sull'argomento spettasse di necessità alla filosofia o alla teologia. Da qualche tempo, tuttavia, i neuroscienziati hanno fatto della coscienza – che insieme alla natura profonda della materia e dello spaziotempo costituisce l'ulti­mo baluardo del sapere occidentale – uno dei loro oggetti di indagine prediletti: e si vanno profilando acquisizioni sorprendenti e controintuitive. Fra i massimi neuroscienziati spicca Antonio Damasio, che in questo densissimo libro approda a una sorta di summa della sua ricerca trentennale, dove i fondamenti di quella prospettiva antidualistica che lo ha reso celebre (si pensi al legame tra regioni cerebrali «arcaiche», come l'amigdala, e più recenti, come la corteccia prefrontale, nella genesi delle scelte morali e dei processi decisionali) sono integrati da nuove e complesse sequenze: quella sull'inciden­za delle emozioni e dei sentimenti primordiali (il piacere e il dolore) come ponti connettivi tra il proto-sé e il sé; quella sul discrimine tra percezione e rappresentazione degli eventi interni ed esterni al nostro corpo come base biologica, unitamente alla memoria, nella costruzione dell'identi­tà individuale; e in particolare – frutto di una personalissima ricerca di unità ispirata alla rilettura di Spinoza – quelle sulle varietà fenomeniche di coscienza, che nella comparazione tra gli esseri umani e gli altri animali (a cominciare dai primati) o nelle differenze tra lo «stato» dei bambini nati senza corteccia e quello del coma vegetativo degli adulti mostrano un'infinita gamma di sfumature percettive e cognitive, insieme avvincenti e inquietanti. L'e­sito, a conclusione di un ciclo avviato da L'errore di Cartesio, è un'idea della coscienza come «processo», geniale elusione del dualismo e insieme del monismo che sfrutta e porta magistralmente a compimento un’intuizione di William James.

Antonio Damasio e la funzione della coscienza

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Di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere

Lunedì 24 marzo 2014

CAMMINARSI DENTRO (484): Di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere

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«Di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere». Sono parole di Francesca Rigotti, contenute nella sua presentazione a L’ansia si specchia sul fondo di Hans Blumenberg. Paradosso affascinante quello che le parole nascondono: non siamo sempre portati a pensare ‘wittgensteinianamente’ che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, se non altro per il fatto che siamo di fronte all’ineffabile, cioè a qualcosa per cui non ha senso cercare le parole per dirlo? 

Andare in cerca di sempre nuove metafore non è solo compito dei ‘metaforologi’: nella vita di relazione, dentro tutte le relazioni umane, ma soprattutto dentro le relazioni d’aiuto, il ricorso al parlar figurato è d’obbligo. Metalinguaggio e primato della voce accompagnano spesso il quotidiano lavoro di ‘traduzione’ e il commercio con il parlare dell’altro, quando si dia il suo contributo alla comunicazione emozionale.

«Ciò di cui non si può parlare», allora, potrà essere riguardato come un fondo da bonificare, fin dove possibile, lasciando che il resto di inesplorato continui a costituire per noi l’inattingibile che è proprio della realtà umana di ognuno di noi, specialmente quando si tratti di quell’Inconfessabile che costituisce l’essenza del pudore, il ‘meccanismo’ morale a cui ricorriamo per proteggere dalle incursioni esterne il nucleo fragile della nostra anima.

Non tacere su ciò di cui non si può parlare è indispensabile, se si tratta del «fondo enigmatico e buio» di cui parla Platone a proposito delle cose d’amore. Da quel fondo non facciamo altro che «divinare», per dare voce all’ordine del cuore. Non possiamo non rispondere alla domanda di senso che proviene dal desiderio dell’altro che incessantemente interpella il nostro desiderio. Il nostro parlare si staglia sempre su uno sfondo aperto che chiede risposte, anche quando apparentemente “nessuno parla”.

«Ciò di cui non si può parlare» può configurare talvolta la presenza di un indecidibile, quando il concatenarsi delle circostanze ci mette di fronte a qualcosa che non possiamo nominare, perché, se lo facciamo, lo lasciamo esistere. Nelle cose umane non siamo quasi mai di fronte al ‘nodo di Gordio’: non si decidono i destini universali, quando siamo di fronte a una scelta difficile. Talvolta, occorre rimandare la scelta o addirittura rinunciare ad essa. È importare riconoscere questi momenti e viverli per quello che sono: non è prudente pensare ogni volta che sia doveroso ‘rispondere’ alle sfide della realtà. Non tutte le sfide vanno raccolte. Quando, in particolare, sia confuso e ambiguo il quadro della situazione dell’altro, non spetta sempre a noi ‘sciogliere’ le ambiguità e diradare le nebbie che offuscano la coscienza dell’altro. Possiamo decidere che non valga la pena di inoltrarsi nella terra incognita dell’esperienza dell’altro, se non siamo stati ‘invitati’ a farlo o se il nostro sguardo suggerisce a noi per primi prudenza e attenzione: esso è punto di vista personale, sempre prospettiva parziale, animato da interessi anche esclusivi, scopi privati, ragioni imperscrutabili. Perché l’altro dovrebbe ‘coincidere’ con le nostre ragioni, i nostri interessi, i nostri scopi?

Al di là di tutto ciò che precede, tuttavia, ci preme esaltare le situazioni in cui «di ciò di cui non si può parlare non si deve tacere». Quando ci sentiamo in pericolo, nessun indecidibile, non l’ineffabile né un inconfessabile ci fermeranno. Attraverseremo tutti i confini, spezzeremo tutti i ‘nodi’ intricati, non ci spaventerà né ci scoprirà timidi la terra incognita, l’abisso stesso della nostra libertà non costituirà motivo di insicurezza. L’incertezza della realtà personale come quella dell’altro non ci paralizzerà.

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La difficile arte di perdonare

Lunedì 10 marzo 2014

CAMMINARSI DENTRO (483): La difficile arte di perdonare

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imageIn libreria dal 12 marzo, il nuovo libro dello psicoanalista sui rapporti di coppia nell’epoca del consumo della felicità “tutta e subito” è stato recensito da Concita De Gregorio su Repubblica del 10 marzo: Manuale del perdono. Così l’amore sopravvive al tradimento. 

Questo libro si interessa dell’amore che dura, delle sue pene e della sua possibile redenzione. Indaga gli amori che lasciano il segno, che non vogliono morire nemmeno di fronte all’esperienza traumatica del tradimento e dell’abbandono. Cosa accade in questi legami quando uno dei due vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade poi se il traditore chiede perdono e, dopo aver decretato che non era più come prima, vuole che tutto torni come prima? Dobbiamo ridicolizzare gli amanti nel loro sforzo di far durare l’amore? Oppure possiamo confrontarci con l’esperienza del tradimento, con il dolore inflitto da chi per noi è sempre stato una ragione di vita? Questo libro elogia il perdono come lavoro lento e faticoso che non rinuncia alla promessa di eternità che accompagna ogni amore vero.

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L’amore è sempre ricambiato

Sabato 8 marzo 2014

CAMMINARSI DENTRO (482): «L’amore è sempre ricambiato» (J.Lacan)

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Mettiamo insieme due ragazzi o due adulti che siano espressione di due stili di attaccamento diversi, ad esempio, insicuro l’uno, evitante l’altro, cosa verrà fuori?

‘Da sempre’, la nostra ‘percezione’ dell’altro/a nelle relazioni sentimentali è influenzata da fattori estetici, materiali, qualche volta morali. Nessuno si è mai sognato di andare a vedere che tipo di madre avesse il partner. Chi può dire di avere ben chiaro cosa significhi “trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento”? E se pure abbiamo scoperto, per la stessa esperienza diretta – per aver conosciuto la madre del nostro partner -, che tipo di attaccamento abbia segnato la vita del partner, non abbiamo attribuito importanza alla cosa, magari convinti del fatto che non siamo ‘tutti uguali’, che le persone cambiano, saltando da un’illusione all’altra.

Ma torniamo all’ipotesi peggiore che ci è venuta in mente oggi: l’incontro tra una persona che abbia ‘appreso’ lo stile insicuro e una persona che abbia ‘appreso’ lo stile evitante. Se l’‘insicuro’, ad esempio, è un maschio che si scontri con i codici d’accesso dimenticati e ‘aspetti’ sempre di essere ricambiato senza ricevere ‘risposte’ sentimentali, molto probabilmente non attribuirà al partner ‘evitante’ la ‘responsabilità’ della propria infelicità: se non sa ‘risalire’ agli stili di attaccamento personali, non importa quanto ereditati, continuerà ad illudersi, ad aspettare, a chiedere, a immaginare un cambiamento che non arriverà mai.

Bisogna ringraziare il “discorso del capitalismo”, con l’ideologia pubblicitaria e l’estensione del suo dominio a tutta la vita privata delle persone, se l’inebetimento generale di individui sostanzialmente eterodiretti ci riporta sempre all’analfabetismo emozionale delle persone! Quello che credevamo ci appartenesse di più è proprio ciò che ci sfugge, perché non sappiamo: nessuno ci ha insegnato cosa siano emozioni e sentimenti, e nessuno sembra intenzionato a farlo. Questa umanità inconsapevole che noi siamo cos’altro può fare, in mezzo a tanta inattendibilità e ignoranza?

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Un’altra nascita?

Lunedì 10 febbraio 2014

CAMMINARSI DENTRO (481): Un’altra nascita?

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Ripensare intere porzioni della propria vita recente e dislocarsi su nuove posizioni, assumere una nuova posizione, occupare una posizione diversa da quella occupata magari per venti anni, non è facile. Non basta ‘pensare’ le cose, se restiamo fermi nel posto in cui pensavamo ciò che oggi non ci convince più o non è più conveniente, funzionale. Dev’essere accaduto qualcosa nel sottosuolo. Non pretendo di spiegarmi tutto oggi. Probabilmente, le spiegazioni non basteranno a guidare il ‘nuovo corso’ delle cose. Sarà utile restare in ascolto, osservarsi vivere, per cogliere il senso di questo nuovo che avanza.

E’ un atto fortunato quello che si è ‘innescato’ qualche ora fa. Mi sono ritrovato a pensare più cose contemporaneamente. Ognuna contribuiva a chiarire l’altra. Ma, soprattutto, una di esse sormontava le altre, contribuendo a suscitare in me una leggera allegria, come se qualcosa si mettesse a posto. Assegnare un significato nuovo ad una persona che ne ha avuto uno sempre uguale per venticinque anni non è cosa di poco conto. Di qui, l’allegria che provo. Naturalmente, è una sorta di ‘liberazione’, perché ora mi sento veramente libero dall’influenza assoluta esercitata su di me da una persona lungamente amata.

Non è scomparso del tutto l’affetto che mi lega(va) a lei. Diciamo che ha un significato nuovo. Simpatia, amicizia, compassione…? Il senso che assumerà questo nuovo sentire in parte dipenderà dall’accoglienza che gli sarà riservata. Ogni volta di nuovo è così. Può sussistere un’amicizia non condivisa? Può darsi un amore non ricambiato? Sicuramente, potremo provare umana simpatia e forse compassione per una persona di cui avvertiamo in modo irrimediabile i limiti fino al punto che potremmo parlare di una forma di esistenza mancata. Un manierismo?

L’emozione positiva che provo coincide con la chiara sensazione che sono ‘libero’ di prendere decisioni personali e su questioni legate al ruolo sociale condiviso con lei senza sentirmi più condizionato dal suo umore irascibile e dai suoi ‘capricci’.

Umore e ‘capricci’ possono costituire ‘tutta’ la vita di una relazione, al punto che nessuna razionalità, ragionevolezza, equilibrio, misura, prudenza debbano mai prevalere su un primato che si riduce alla risposta, alla risulta, al rilancio e basta? Vivere di risulta significa che lei si esprime solo ‘dopo’, mai in prima persona e subito: l’ultima parola spetta sempre e solo a lei. Io debbo esprimere i miei sentimenti e difendermi ogni giorno da tutte le accuse, le insinuazioni, i sospetti; lei è al di sopra del bene e del male. Se faccio una domanda, non ricevo mai una risposta ma un’altra domanda. Se sono di buonumore, debbo giustificarmi, quando non vengo apostrofato con espressioni volgari e offensive. Tutto poggia sul ‘rilancio’: lei non fa altro che ribattere ad ogni cosa, fino alla mia resa incondizionata.

Questo presente immobile ed eterno nella sua sterilità è finito. Le ceneri infeconde dell’impiegata lava sono lì, a testimoniare che forse un tempo c’è stata vita nelle regioni attraversate, ma il risultato del passaggio dell’onda pestifera è solo distruzione e morte.

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Quel giorno sono stato imperdonabile

Martedì 7 gennaio 2014

CAMMINARSI DENTRO (480): Quel giorno sono stato imperdonabile

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La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, l’attimo, fatale in ogni vita, del «generale orrore» del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione.
In un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all’uno o all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore della vita.
E’ prudente dimenticare che, secondo la cronaca, quell’uomo dovette a ciò la sua testa: l’ufficiale tedesco di scorta ai condannati non resse alla sua compostezza e gli fece grazia. E’ decente ritenere le parole che il cinese proferì, interrogato, prima di perdersi tra la folla: «Io so che ogni riga letta è profitto». E’ lecito immaginare che il libro che egli teneva tra le mani fosse un libro perfetto. – Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi 1987, pp. 73-75  

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Era il 10 agosto dell’anno 2000 e niente lasciava presagire che la mia vita sarebbe cambiata, se si esclude quel fastidioso dolore al braccio sinistro che correva fino alla mano, che poi si sarebbe rivelato infarto coronarico. I medici dissero che si trattava di un infarto insidioso, perché di tipo non-Q, cioè senza sintomi, la quale cosa mi permise di sottovalutare la gravità della situazione, fino al punto che al Pronto Soccorso dell’Ospedale della mia città rifiutai il ricovero immediato, suggerito, in verità con atteggiamento alquanto burocratico, dal Medico di turno, per potermene andare comodamente a casa a preparare la valigia. Le rimostranze del Medico furono inutili: non avevo nessuno che potesse preparare la valigia per me. Non volevo allarmare nessuno in casa. Un po’ come faceva mia madre, quando nascondeva i suoi mali, «per non disturbare». Sarebbe stato più facile dire, poi: «Sono al Pronto soccorso… Va tutto bene. Mi portano al reparto Cardiologia».

Avevo avuto tutto il tempo, a casa, di decidere cosa portare con me, come quando si stanno per lasciare le cose più care e bisogna decidere. Detti una rapida occhiata alle quattro pareti del mio studio e scelsi soltanto Moby Dick di Melville e Danubio di Magris. Soprattutto la prima opera mi accompagnò nei momenti critici, quando mi sistemarono in un letto, con aghi nelle vene che dovevano servire a monitorare e a curare.
Ai Medici che si affacciavano spesso a chiedere: «E’ passato il dolore?» rispondevo tranquillamente: «Non ancora», essendo preso dalla lettura preziosa della prima parte di Melville. Andò avanti così per un bel po’, sinceramente preoccupato di non essere interrotto nella lettura. Avevo ben chiaro che fin dall’ingresso nell’Ospedale ero diventato oggetto di attenzioni particolari: fu consultato il reparto Cardiologia, mentre aspettavo al Pronto Soccorso, dunque doveva trattarsi di cosa seria. Non riuscivo, tuttavia, a disperare di me. Non che avessi fiducia nei Medici! Quando tornai da casa con il mio bagaglio, mi fecero addirittura aspettare per una buona mezz’ora prima di decidersi a farmi ricoverare in Cardiologia. Guardavo l’orologio appeso alla parete e pensavo: «Chissà se arriverò vivo al quarto piano!» Quando fu il mio turno, mi chiesero se volevo andare su da solo. Naturalmente dissi di sì. Arrivato al quarto piano, mi vidi venire incontro alcuni sanitari perplessi. Chiamarono il Pronto soccorso e concitatamente li rimproverarono così: «La prossima volta, fateci sapere che sta salendo un nostro paziente. Scendiamo noi a prenderlo!». Quello che li aveva allarmati era il fatto che io sopportassi il peso dei due bagagli con un infarto in corso. Mi fecero sedere delicatamente su una sedia a rotelle e mi trasferirono in una stanza confortevole in cui potei riprendere la mia lettura, una volta sistemato nel letto.
Per il tempo della ‘stabilizzazione’ nell’Ospedale della mia città e poi a Roma, per la coronarografia e poi per l’intervento al cuore, non feci altro che leggere. Se non leggevo, dormivo placidamente.
Successivamente seppi da mia figlia che un amico medico si era ‘battuto’ perché mi dessero morfina, per consentirmi di affrontare meglio il dolore, ma io non lo ritenni necessario.
Nell’Ospedale di Roma in cui mi fu praticato l’intervento chirurgico accadde la stessa cosa: un giorno sentii la Caposala discutere animatamente con mia figlia: si giustificava affannosamente dicendo: «Ma lui non chiede niente!». Anche lei, forse, si aspettava da me che chiedessi morfina. Io non lo ritenni necessario.

Il libro che mi aveva accompagnato per tutto il tempo della crisi, della degenza ospedaliera, dell’intervento, della convalescenza era veramente perfetto: riassumeva i bisogni spirituali di quell’epoca della mia vita. Alcuni dei miei ex alunni, a distanza di tempo, mi scrissero per esprimere la loro ammirazione: erano convinti che avessi impartito loro un’altra lezione di vita. Perché non mi ero lamentato della mia condizione e perché avevo affrontato la prova serenamente, essendo pronto a tutto.

Di quello che pure accadde di importante in quei mesi ricordo nitidamente solo il libro che avevo con me. Ogni riga letta fu letta con profitto.

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Accade sempre qualcosa, se cerchiamo persone (invece di cercare sempre e soltanto maschi o femmine)

Lunedì 23 dicembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (479): Accade sempre qualcosa, se cerchiamo persone 


 

Accade sempre qualcosa tutte le volte che abbandoniamo le ferree certezze ‘ideologiche’ su ciò che è maschio e ciò che è femmina per tentare di avanzare nella terra incognita dell’esperienza dell’altro. E’ una persona che incontriamo.

Siamo convinti del fatto che il Maschio e la Donna non esistano più, che sia passato il tempo in cui era possibile assegnare a un campo o all’altro in modo esclusivo capacità e competenze, abilità e attitudini: si trattava di vere e proprie nature. Non si avevano dubbi sulla razionalità di una parte e sulla sensibilità dell’altra. Come se la prima fosse appannaggio esclusivo di un genere! Come se lo stesso genere non possedesse sensibilità alcuna!

Abbiamo anche avvolto di un alone di mistero un’esistenza – quella femminile – che in realtà possiede la stessa ‘dose’ di mistero che avvolge tutte le creature, se mistero, poi, significa incognito, sconosciuto, ma non impenetrabile.

E se ogni nostra difficoltà dipendesse per intero dalla nostra attitudine a sostare senza impazienza presso la realtà dell’altro, a dare valore a sguardi, sorrisi, disponibilità umana, gentilezza, udienza?
Non dipende per intero dal tempo che ci viene concesso la possibilità di ‘entrare’ nella vita di una persona, nell’invisibile dell’esperienza personale, fino a cogliere quanto di più ‘nascosto’ si possa immaginare e che non è mai il segreto ultimo, il cuore della cosa stessa?
Cosa chiameremo vita ed esistenza, anima ed esperienza, se non sapremo sentire sulla superficie delle cose la traccia che conduce oltre la superficie stessa? e perché poi si dovrebbe di necessità abbandonare la superficie per guadagnare un grado di realtà più grande, quando occhi e sguardo, bocca e voce, viso e volto, assieme ai movimenti del corpo che non sono mai disgiunti dai moti dell’anima ci parlano e non da azzurre lontananze ma da una viva presenza che si staglia sempre lì di fronte a noi?
Vorremo opporre occhio a sguardo, bocca a voce, viso a volto, vita ad esistenza, a vantaggio di occhi, bocche, visi, vite, dimentichi di quanto dipenda da noi saper toccare i confini dello sguardo altrui, farsi guidare dalla voce alle soglie dell’anima, rinvenire segni, tracce, semi che diano senso all’umano consistere di chi è viva presenza, senza cessare mai di essere al contempo chiara trascendenza? e cosa vuol dire non abbandonare mai la superficie delle cose se non che su di essa è depositato il senso? E’ lì che si ‘nasconde’ il senso delle cose, non in insondabili profondità ancestrali o personali.

Solo se ci faremo guidare dall’apparenza della cosa – della persona – potremo cogliere il senso dell’esistenza altrui, senza nulla trascurare di ciò che pure si mostra a noi. Dare un volto alle persone è compito nostro. Fare di una vita una biografia è compito nostro. Lasciar esistere e favorire il consistere di una persona è compito in parte nostro.

Sicuramente, rappresentarsi una donna in un modo che sia accettabile per lei può sembrare cosa facile. Eppure, questo è compito.
Crescono a dismisura nella società separazioni e divorzi. I single costituiscono un terzo della popolazione adulta. Le relazioni sentimentali tra maschi e femmine, al di là del frastuono sessuale, sembra siano difficili, sempre più difficili.
Di tutti i maschi giovani che conosco e frequento da anni quasi tutti sostengono che le donne ‘non si trovano’, che è difficile trovarne sane di mente, che ‘vogliono comandare solo loro’, che ‘ballano da sole’ e così via. Altrettanto grande è il numero delle ragazze che lamentano la difficoltà di costruire relazioni durature con maschi che a quarant’anni non hanno ancora finito di smaltire le smanie dell’adolescenza.
Torniamo al punto di partenza: codici d’accesso smarriti? In realtà, occorre ripartire sempre dalla presenza, dal rapporto concreto con persone concrete, con le quali instaurare rapporti basati su chiarezza e onestà di intenti. Non è pensabile che sulla base della chiarezza non ci sia altrettanta chiarezza. Non è pensabile che ad un chiaro sentire non corrisponda un sentire altrettanto chiaro.

Se ci ritroviamo dentro rapporti ‘asimmetrici’, in cui non ci sia risposta soddisfacente alle attese personali, è cosa buona e giusta far partire l’orologio, darsi il tempo necessario per stabilire se valga la pena oppure no continuare a cercare ciò che nell’altro non si trova. Possiamo accontentarci anche del poco che riceviamo. C’è chi si accontenta anche del nulla che riceve! C’è perfino chi riceve solo violenze! Quando l’amore si ammala, non è più amore. Se non c’è reciprocità e rispetto, non è amore. E’ altro.
E’ tempo di approdare a una visione ‘laica’ dell’amore, per arrivare a comprendere nel suo ‘campo semantico’ anche le patologie dell’amore.

Urge non una riforma intellettuale e morale, come suggeriva Gramsci, ma più modestamente una educazione sentimentale, per uscire dall’analfabetismo emotivo che ci opprime.
Dante esaltava le trenta donne in Firenze che avevano intelletto d’amore. C’è da chiedersi, al riguardo, se si tratti di sensibilità personale coltivata ed ‘educata’ dalla famiglia e dalla scuola che invochiamo o di una personale phronesis, di nativa saggezza,  accresciuta con l’esperienza e con lo studio.
Di certo, ci aspettiamo reciprocità, uno ‘scambio di risorse’ anche dentro le relazioni sentimentali, perché la mancanza da cui proveniamo non si faccia solitudine gratuita e incomprensione.

In questo umano consistere si giocherà la nostra capacità di fare ‘manutenzione degli affetti’, perché il sentire personale duri oltre il godimento di un giorno. C’è differenza tra le vive emozioni che pure ci animano e il durevole sentire che è proprio dei sentimenti! Non è più tempo di ridurre tutto a stato emozionale, per dare voce e spazio finalmente allo strato personale della sensibilità, il luogo della nostra umanità e il tratto distintivo della nostra personalità: il sentimento. La vita della nostra mente ‘proviene’ dalla vita delle relazioni e si nutre di essa. Perché è così difficile mettere al centro i sentimenti? 

 


 

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Un’altra corte

Domenica 22 dicembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (478): L’altra corte

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Sono stati chiamati codici d’accesso. Pare che siano stati smarriti. In altre parole vuol dire che gli uomini non sanno più come corteggiare le donne. Non corteggiano più le donne.

A parte il fatto che l’autrice del libro in cui è illustrata la tesi passi sbrigativamente a dire che tocca alle donne corteggiare ora, che le donne inspiegabilmente non lo fanno, non hanno ancora iniziato a farlo, è bello ‘abbordare’ un maschio, magari per bere un drink insieme, resta da capire perché mai una donna che offre un drink, magari per arrivare a farsi una scopata con voi, è chic, mentre un maschio non ha più i codici d’accesso al cuore – pardon, alla vagina di una donna! – e questo è cosa buona e giusta.

Il difetto del dotto argomentare dell’Autrice del libro sta proprio nel fatto che tutto per lei si riduce a sesso e seduzione. Sembra che le donne non accettino più di essere corteggiate: tanto è vero che si rifiutano di far conoscere le chiavi d’accesso a non so più bene cosa. Toccherebbe a loro corteggiare ora, salvo decidere di non farlo. Una prima conclusione a cui è facile arrivare è questa: un uomo che decida di comprare il suo libro o è un masochista o spera di trovarci qualcosa di utile per un maschio.

La verità è che le donne sono scomparse. La loro voluptas castrandi ha raggiunto vette ineguagliate prima nella storia della presenza dell’uomo sulla terra.

Dopo aver concesso alla metafisica dei sessi un ultimo tributo, resta da dire soltanto che restano le donne concrete con cui è facile parlare. Non resta che aprire ad esse il proprio cuore e ogni volta che lo riterremo opportuno per noi, se mossi da sinceri sentimenti, proporre la conoscenza reciproca. Amore è desiderio di conoscenza.

Nell’arrischio della relazione scopriremo se e fino a che punto sia possibile procedere insieme, se si tratti di un incontro oppure no, se sia vera presenza oppure no.

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Ho sempre sperato che esistesse qualcuno come Lei

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Martedì 10 dicembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (477): Ci dev’essere qualcuno come Lei

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Hannah_Arendt1
 Accade qualcosa:

Non ho mai dubitato
che ci dovesse essere
qualcuno come Lei,
ma ora Lei c’è realmente,
e la mia gioia straordinaria
per questo durerà sempre.

Lettera di Ingeborg Bachmann
a Hannah Arendt
16 agosto 1962


Questo breve testo compare in esergo nell’opera di Laura Boella Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Tre Lune Edizioni 2000.

Potrebbe far pensare ad un’emozione e basta. Un trasalimento. In realtà, dice un sentimento, la scoperta dell’esistenza dell’altro, una gioia quasi incontenibile, come siamo soliti dire quando ci accade qualcosa di grande, che ci supera.

E’ apparsa Lei, figura grande di qualcosa che era sepolto nel nostro cuore. Lei ha dato voce a un bisogno inespresso. La sua epifania mondana crea uno spazio inedito. Venerazione, Amicizia, Devozione, Amore.

Abbiamo bisogno di credere che esista qualcuno che sia più grande di noi. Qualcuno che non dobbiamo sforzarci di amare, perché la sua esistenza ci viene incontro con il suo semplice apparire. Del genere delle cose perfette, è vera esistenza, pronta a farsi vera presenza nella nostra vita. Coltiviamo una segreta speranza, grati del privilegio ricevuto. Immaginiamo già beni preziosi nascosti nelle piccole cose che accadranno.

Proclamiamo di essere sempre disposti a riconoscere a tutte le creature lo statuto dell’esistente, assegnando nello stesso tempo ‘gradi’ di trascendenza personale, livelli di consapevolezza di sé più o meno alti a poche persone speciali.

Deve trattarsi d’altro, quando esprimiamo questa chiara gratitudine. L’oggetto del nostro sguardo è riserva inesauribile di bene, tesoro di fedeltà, sorpresa ripetuta.

Abbiamo incontrato raramente persone che potessero farci provare un sentimento dell’altro così grande. Se non siamo disposti a credere che si tratti di persone che appartengono a un genere superiore, riusciremo ad inchinarci con la stessa umiltà di fronte alle altre creature?

La gioia provata all’atto della scoperta di questa esistenza speciale per noi durerà sempre. John Donne ha scritto: Tu così viva / che pensarti basta / a fare veri i sogni / e le favole storia! Estrema forma di platonismo dello sguardo, basta pensare Lei perché quella gioia si rinnovi.

E’ quasi un amore quello che ci prende in ogni atto di empatia, ché non è riducibile a pura immedesimazione o partecipazione comprensiva. Quell’esistenza si staglia corposa nella sua misteriosa consistenza davanti a noi, promessa di quel retto conversare cittadino di cui sentiamo così spesso la mancanza.

Certo, si tratta di qualcuno con cui poter parlare! Ritrovarsi l’uno di fronte all’altro e guardarsi negli occhi e sorridere amabilmente dell’immortale volgarità umana. Tutto considerare, niente giudicare tale da non potersene distaccare senza affanno.

Quello che desideriamo per noi, oltre ogni immaginabile godimento, è stare in quel dialogo che non ‘cade’ mai, perché Lei non smetterà di essere fonte di nuove scoperte. Più dell’amore, perché esperienza delusoria, aspettiamo un incontro.

Chi ha abitato lungamente la vita senza nulla disprezzare di ciò che è umano accetterà di buon grado anche la nostra conversazione, forte della consapevolezza che ogni cosa che sia stata creata è buona e santa, se contemplata dall’alto della collina.

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Strategie di apparizione

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Giovedì 7 novembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (476): Strategie di apparizione

LE COSE NASCOSTE DALLA FONDAZIONE DEL MONDO  – E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo. PAUL VALÉRY, Cattivi pensieri 

Degli Esercizi spirituali tipici della cultura pagana, scoperti da Pierre Hadot, Imparare a vivere sembra il più scontato, ma anche il più complesso da ‘costruire’. Per lungo tempo, ho ricondotto la meditatio mortis foscoliana – la meditazione sulla morte del carme Dei Sepolcri – a meditatio vitae (meditazione sulla vita), forte dell’insegnamento di tanta critica letteraria e delle fonti rappresentate dalla sapienza greca e romana. ‘Imparare a morire’ per ‘imparare a vivere’. Eppure, a quest’ultimo Esercizio andrà riservato un suo spazio specifico. Lo stesso Hadot lo fa quando scrive Ricordati di vivere, dedicato agli Esercizi spirituali cari a Goethe: la presenza, vedere le cose dall’alto, la speranza.

Dalla mia esperienza più che trentennale di insegnante ho ricavato il compito dell’educazione dei sentimenti a cui mi sono sempre dedicato con l’aiuto della Letteratura e della Filosofia. Al centro della mia attenzione avevo messo la malinconia d’amore, perché convinto della necessità di far conoscere ai ragazzi, all’altezza del terzo anno di Liceo, con Petrarca, l’importanza di quel sentimento. Già allora proponevo lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita come termini chiave di un discorso da costruire con anni di studio, di riflessione, di meditazione sulla vita della propria coscienza. Ero convinto del fatto che «la realtà si comprende a partire dai suoi estremi» (S.Kracauer), dunque l’esperienza del dolore ci avrebbe consentito di realizzare il governo dei nostri sentimenti (M.Foucault). Tra purificazione dell’anima dalle emozioni e purificazione delle emozioni, ho sempre ritenuto che si dovesse seguire la seconda via, come poi hanno confermato gli studi che hanno messo in discussione l’errore di Cartesio (A.Damasio), cioè la separazione della ragione dal senso, e come hanno confermato tutte le filosofie che oggi non separano il sentire dal pensare. Di qui, la necessità di una conversio, di una conversione dello sguardo verso la propria interiorità, là dove avremmo trovato la verità.

Il primo compito grande che ci attende è imparare a vivere, imparando a dare senso alle cose, perché non ne hanno uno o tendono a precipitare nel non senso, nell’insensatezza, nell’inumano, se lasciamo che prevalgano le ragioni delle cose sulle ragioni dell’umano che è in noi.
Nel Trattato di semiotica generale (1975), Umberto Eco in apertura definisce i caratteri della cultura, distinguendo tra processi di significazione e processi di comunicazione. In quegli anni, avevo acquisito l’idea che l’uomo, oltre la sua natura di animale politico, cioè sociale (Aristotele), oltre la sua natura di animale razionale (Cartesio), può essere meglio definito come animal symbolicum, animale simbolico, cioè capace di produrre linguaggi. Dunque, la Sinngebung – l’attribuzione di senso – prima di tutto. Si potrebbe dire che questa sia la nostra attività più importante.
Se sperimentiamo lo smarrimento, lo spaesamento, il disagio e ‘subito dopo’ corriamo a cercare il senso, a restituire senso a ciò che non ne ha più; se l’esperienza del vuoto, conseguente al nichilismo tipico del nostro tempo, ci porta a ritenere che essa debba essere ‘curata’ aiutando i ragazzi che ne cadono preda insegnando loro a ‘riempire il vuoto’, cioè a restituire senso alla loro esistenza, è perché sappiamo bene come la mancanza sia costitutiva del nostro essere, dunque dobbiamo imparare a consistere a partire da essa, senza immaginare scorciatoie o facili ‘sublimazioni’ e idealizzazioni della nostra condizione naturale e storica.

Imparare a vivere è possibile, innanzitutto, riconoscendo come l’esperienza dell’assenza dell’altro costituisca l’entrata inaugurale della morte nella vita. Fin da bambini, di questo facciamo subito esperienza. Il nostro pianto è conseguente a tutti i rimproveri, le separazioni, le assenze, gli ‘abbandoni’.
Il primo documento scientifico  di questa esperienza precoce è in una pagina di Freud nota come il gioco del rocchetto.

Sul gioco del rocchetto, riferito da Freud, è stato detto a sufficienza. Recentemente, i lacaniani sono tornati a scrivere, sottolineando, tra le altre cose, l’importanza della seconda parte del ‘gioco’: le strategie adottate dal bambino per esorcizzare l’assenza della madre, con il ricorso alla produzione di adeguati fantasmi della mente.
D’altra parte, non è la strada che dobbiamo percorrere tutti infinite volte nel corso della nostra vita, quando ci ritroviamo a sperimentare lontananza, assenza, mancanza, abbandono, perdita? Tra lutto e malinconia non si gioca una parte grande della nostra vita? Dal semplice fatto che una persona a noi cara si allontani per un po’ fino alla sua morte, noi passiamo attraverso infiniti gradi di ‘abbandono’, che sono vissuti tutti da noi allo stesso modo, se non sappiamo come esorcizzare la lontananza, perché ogni volta vorremmo rimproverare l’altro della mancanza che ci viene ‘imposta’. Ciò che è comune a tutti e ricorrente ci risulta esclusivo – accade solo a noi – e definitivo – temiamo di essere stati abbandonati. Quell’assenza ci fa sentire veramente soli, privi di un bene essenziale. Solo noi sappiamo quanto grande sia la pena in cui precipitiamo, che potrà sembrare anche piccola ad altri, ma per noi è ferita che sanguina. È stata chiamata “la ferita dei non amati”. È un giacere sconfitti nell’attesa.
Il mistero di questa condizione comune è nel fatto che ci ritroviamo a vivere come se non ricordassimo il bene che abbiamo ricevuto. Dunque, non speriamo. Ci convinciamo per un po’ del fatto che la persona amata non tornerà: è come se l’avessimo perduta, anche se è uscita solo per andare a fare la spesa! Noi ‘sappiamo’ che tornerà, ma ci comportiamo come se non dovesse tornare, ‘come se non sapessimo’!
La risoluzione del mistero è tutta nel ‘gioco’ stesso: il nostro errore è nel fatto che ci limitiamo ad elaborare il Fort, trascurando il Da: il bambino di cui ci parla Freud non si limita a lanciare il rocchetto sotto un mobile, per simulare la sua sparizione! Egli non si limita a constatare che la madre si sia allontanata. Fa di più: immagina che possa tornare. La fa tornare. Tira il filo del rocchetto e la fa apparire di nuovo. Giustamente, è stato osservato che la parte più importante del gioco è quest’ultima. La nostra attenzione, allora, per iniziare a definire l’esercizio dell’imparare a vivere, dovrà concentrarsi sulle strategie di apparizione, cioè su tutto ciò che mettiamo in opera per fronteggiare la mancanza, che costituisce la nostra condizione generale, immaginando tutto ciò che si richiede per sopperire ad essa.
Dai modi della risposta alla mancanza e dal loro successo dipende il corso che imprimeremo alla nostra esistenza, la qualità della nostra vita, l’esito del processo di costruzione del nostro carattere, il grado di ‘compiutezza’ della nostra crescita, la possibilità di vivere in armonia con noi stessi oppure no.
Tutti gli ‘aggiustamenti’ che interverranno a correggere il corso delle cose – anche attraverso processi riparativi e ricostruttivi – hanno di mira la marca della mancanza, il significante per eccellenza: il segno della nostra incompiutezza e della nostra finitudine, della nostra infondatezza e del vuoto da cui proveniamo.
Tutte le cure materne, assieme a quelle che interverranno successivamente per farci sentire amati, contribuiranno a colmare il senso della mancanza che non ci abbandonerà mai.

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IL GIOCO DEL ROCCHETTO: «… ho sfruttato un’occasione che mi si è offerta per chiarire il significato del primo giuoco che un bambino di un anno e mezzo si è inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di una fuggevole osservazione, perché sono vissuto per alcune settimane sotto lo stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli ripeteva continuamente. Lo sviluppo intellettuale del bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era elogiato per il suo “buon” carattere. Non disturbava i genitori di notte, ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto un filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o-“; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a se stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto1. L’interpretazione del giuoco divenne dunque ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparir e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere. È ovvio che per dare una valutazione del significato affettivo di questo giuoco non ha importanza sapere se il bambino lo aveva inventato da sé o se esso gli era stato suggerito da altri. Il nostro interesse è diretto ad un altro punto. È impossibile che l’andar via della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino. Come può dunque accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di giuoco di questa penosa esperienza? Forse si risponderà che l’andarsene doveva essere necessariamente rappresentato, come condizione che prelude alla piacevole ricomparsa, e che in quest’ultima risiedeva il vero scopo del giuoco. Ma questa interpretazione sarebbe contraddetta dall’osservazione che il primo atto, l’andarsene, era inscenato come giuoco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente più spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale. L’analisi di un caso singolo come questo non permette di formulare un giudizio sicuro e definitivo; se si considera la cosa in modo imparziale, si ha l’impressione che il bambino avesse trasformato questa esperienza in un giuoco per un altro motivo. All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva la parte attiva. Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia piacevole o meno. Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: “Benissimo,vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via”. (Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere vol.9, Boringhieri, Torino, p. 200-202).

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Tacere il silenzio

Lunedì 30 settembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (475): Tacere il silenzio

Tra i compiti maschili, tra i doveri taciti che ogni maschio dovrebbe imparare a riconoscere e praticare c’è il silenzio su di sé, su quella parte d’esperienza difficile e dolorosa che si richiede per conservare dignità e rispetto di sé: mi riferisco alla conduzione di sé nella lunga fase dell’elaborazione dell’abbandono.

Arrivare a concepire tanto non è facile, e non è detto che ci si arrivi. Si passa attraverso atteggiamenti contrastanti e diversi, dalla recriminazione al mugugno al lamento accorato, alla domanda sterile.

Si fanno prove a non finire, per arrivare alla certificazione certa della fine di una storia d’amore. Si richiede forse un prolungato estenuarsi in pratiche residuali perché dall’altra parte non si vede un chiaro distacco e un esplicito congedo con dichiarazioni verbali del disamore ormai compiuto.
Anche se esperti di illusioni e competenti in materia, per aver lungamente lavorato su di sé, si prolunga all’infinito la coda sentimentale: non è sufficiente ricevere chiari segni della fine del sentimento dall’altra parte: il ‘disinvestimento’ non è semplice ritiro, un ritrarsi e basta. Occorre ridefinire porzioni spesso grandi della propria esistenza, perciò si prende tempo.

Abbiamo già discusso la falsa alternativa sempre supposta vera tra brusche rotture e strascico infinito di domande senza risposte e compagnia bella, come direbbe il giovane Holden.
Chi preferisce la rottura improvvisa e traumatica è convinto del fatto che finirà lì, che non ci sarà un lungo seguito di recriminazioni e tutto il resto. 
Chi abbia sperimentato l’una e l’altra cosa sa bene che comunque si richiede una ‘cura’ lunga anni, anche decenni.

Solo chi non sa delle cose d’amore e non abbia conosciuto l’abbandono sposa la tesi della bontà degli abbandoni secchi, senza contatti ulteriori e lunghe spiegazioni e accompagnamento funebre. Da noi si chiama accompagno.
Non che sia indispensabile l’accompagno del partner, per carità! Alla bisogna può andar bene chiunque, anche uno sconosciuto che si riveli curioso di noi e voglia darci buoni consigli, non potendo dare cattivi esempi.

Provvede sempre il tempo a condurci nella zona importante che ci preme qui registrare e descrivere.

Il lavoro più importante è quello che si fa da soli, al riparo da sguardi indiscreti, ma soprattutto poco attenti.
Magari si confida a persone diverse, amici ‘alla lontana’, il fallimento della propria vita sentimentale – perché non si tratta soltanto della fine della storia più recente – con lucidità e voce ferma, per scoprire volta per volta quanto sia inutile farlo.

L’esercizio più importante è quello che si riesce a portare a buon fine con il partner involato.
Non basta equilibrio, misura, distacco, serenità e compagnia bella. Traspare sempre, nei momenti più impensati, la tendenza evidente a provare fastidio, quando non risentimento, per antichi vizi del partner che, magari, non riesce a correggere davanti a noi.

La soluzione più efficace è il silenzio, ma soprattutto la capacità di tacere il silenzio, cioè di non stare ancora lì a dire “non rispondo per questo motivo…” e “non telefono per quest’altro motivo…”. Bisogna ricorrere alla dissimulazione onesta, cioè alle bugie inventate a fin di bene, per nascondere ogni più piccola emozione che possa innescare ancora i circoli viziosi che hanno generato la lunga coda che non finisce mai.
Il partner involato continuerà a stuzzicare e ‘provocare’ in noi emozioni negative, quando non distruttive – come ira, desiderio, illusione -, ma è proprio questo che occorre imparare a fare: tacere senza dire nulla a nessuno del proprio silenzio.

Ci apparirà chiara la ragione e l’utilità di questo tacere quando avremo provato stanchezza per l’umiliazione in cui ci siamo cacciati ogni volta che avremo mostrato la nostra vulnerabilità a chi non la rispetta più, ammesso che l’abbia mai rispettata.

Tacere sul nostro silenzio è il modo più efficace per tornare a prendersi cura della propria dignità: se amore è scoprire la fragilità dell’altro e non approfittarsene (Hegel), solo con un estremo atto di pudore – cioè rendendo ‘inconfessabile’ ogni più personale moto dell’anima – riusciremo a credere alla timida ala della speranza, che ci fa scorgere come desiderabile una più respirabile aura intorno a noi, anche se non si intravvede all’orizzonte alcuno sguardo benevolo che non renda vana l’attesa.

Il compito più difficile è restituire valore alla propria dignità, dopo aver lungamente condiviso quanto di più personale e di più intimo possediamo, convinti che solo dall’amore e da un’intensa vita di relazione potessero derivare tutte le ragioni per sentirsi vivi e utili.

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