Fini e le amnesie delle stragi fasciste
Michele Prospero
l’Unità 14 agosto 2008
Poche sono le tradizioni politiche che, al pari della destra radicale, mostrano un attaccamento quasi feticistico a nomi, simboli, riti. Non è un caso che, a ormai 15 anni di distanza dalla svolta di Fiuggi, Alleanza Nazionale conservi ancora l’imbarazzante richiamo identitario alla fiamma tricolore, accesa sessant’anni fa in onore del corpo defunto del duce. Un omaggio oggi forse solo formale alle vecchie credenze che crea però troppi incidenti di percorso per non dare nell’occhio. Già nel suo discorso di insediamento alla presidenza della camera, Fini fece ricorso ad acrobazie verbali piuttosto evidenti pur di non pronunciare, tra i malanni storici del secolo scorso, la parola fatidica di fascismo. Per non parlare delle soluzioni lessicali alquanto infelici adoperate di recente per la strage fascista di Bologna. E ora la reticenza prosegue con questa omissione linguistica sulle colpe terribili dei “ragazzi di Salò” che, insieme ai nazisti, a Sant’Anna, in provincia di Lucca, bruciarono vive centinaia di persone, squartarono viva una donna incinta e colpirono il suo feto a pistolate. Perché un partito inserito ormai a pieno titolo nella dinamica istituzionale, riconciliato in apparenza con la legalità costituzionale, presenta queste amnesie? Il problema è che non si tratta affatto di semplici contrattempi o dimenticanze. No, per An la memoria, e soprattutto la rivisitazione della storia repubblicana per alterarne i suoi fondamenti costitutivi, riveste una importanza strategica. Più importante di tante altre cose, per An è proprio la questione dei simboli. La destra si può certo riconciliare con la repubblica purché però la repubblica rinunci ai suoi momenti simbolici più forti e riconosca, accanto a quelli riconosciuti e celebrati, altri padri. La proposta di Fini di fare anche Almirante un padre della patria repubblicana rientra appunto in questa proposta di scambio indecente. Con Almirante si cerca di archiviare gli anni di Salò, condotti all’insegna della comunione di ideali con il nazismo. Non si calcolano le stragi compiute insieme da tedeschi e da repubblichini. A Monticano l’11 marzo del 1944 ci fu un eccidio, dopo un processo sommario. A Montalto di Cessapolombo, 27 ragazzi, avevano poco più di vent’anni, furono fucilati dai miliziani fascisti. Lo stesso avvenne a Montemaggio, a Cumiana. A Monteriggioni 147 civili furono massacrati, altri 400 deportati in Germania, la metà vi morì. 269 civili caddero sotto il fuoco fascista a Lipa, i loro cadaveri furono fatti esplodere con la dinamite. Eccidi ci furono a Turchino, a Milano, a Borgo Ticino, a Tavolacci, dove la polizia repubblichina arse vivi 64 civili. Un’esperienza di sangue e di terrore, quella di Salò, che è difficile annacquare oggi con la retorica della pacificazione nazionale. Con i ragazzi di Salò (gerarchi, prefetti, membri dei tribunali straordinari repubblichini, ufficiali) che combatterono a fianco delle forze militari germaniche di occupazione in verità si mostrò più che comprensiva già la Corte di Cassazione nelle sue vergognose sentenze emesse tra il 1946 e il 1947. La suprema corte ricostruì con dovizia di particolari l’enorme quantità di omicidi, rappresaglie, eccidi, depredazioni, saccheggi, stragi, torture, deportazioni, rastrellamenti operati dalla guardia repubblichina. Ma, con un colpo di bacchetta magica, accertati i reati, assolse i colpevoli, quasi tutti fatti rientrare con manica larga nei casi di amnistia. Indenni se la passarono così i militi che trasformarono una canonica in un bordello e trucidarono il parroco. I solerti membri dei tribunali che ordinarono le fucilazioni di ostaggi, di civili, di partigiani se la cavarono perché, per la Cassazione, non valeva il principio della responsabilità collegiale dell’organo e del tutto impossibile era appurare i nominativi di chi aveva materialmente votato a favore della sentenza di morte. I componenti dei plotoni di esecuzione ebbero riconosciuta anch’essi dalla Cassazione lo stesso trattamento con i guanti. Per i supremi giudici infatti tutti i componenti delle squadracce erano da amnistiare poiché era impossibile acclarare da quale arma fosse effettivamente uscito il fuoco omicida. La suprema corte scrisse persino che torturare e far morire i prigionieri soffocandoli con i propri capelli oppure costringere i catturati, in pieno inverno, a farsi una doccia fredda onde causare la morte, così come uccidere i prigionieri colpendoli con i calci di fucile o finirli con supplizi e percosse non erano episodi di violenza così efferati da rientrare nella speciale casistica di atti che “sorpassano ogni limite”. E quindi anche per i torturatori fu riconosciuta l’impunità e il diritto alla amnistia. Ma la pagina più esemplare di giustizia per i ragazzi di Salò è stata scritta dalla Cassazione nella sentenza del 12 marzo del 1947. Così si legge nella sentenza: “è applicabile l’amnistia ad un capitano di brigate nere, che dopo aver interrogato una partigiana, l’abbandona in segno di sfregio morale al ludibrio dei brigatisti che la possedettero, bendata e con le mani legate, uno dopo l’altro”. Per la suprema corte si tratta sicuramente di bestialità ma non certo di “sevizie”. Al più, contesta la Cassazione, si tratta di “offesa al pudore e all’onore, anche se la donna abbia goduto di una certa libertà essendo staffetta dei partigiani”. Così scriveva la suprema magistratura della repubblica: partigiana e dunque puttana! Altro che onore al sangue dei vinti. A quando un po’ di rispetto per la memoria del sacrificio dei vincitori?