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Lunedì, 28 marzo 2011
Il segno di mio padre, la ferita profonda che non si è mai rimarginata, che io porto in me, e che torna spesso a sanguinare, era in lui ferita profonda che non si rimarginò mai, e che tornò spesso a sanguinare.
Io ho percepito la sua ferita. Ho sentito il dolore che egli portava con sé. Esso ha accompagnato tutta la mia vita e continua a guidare tutti i miei passi. Mio padre mi parlava della sua ferita, del duro cammino di iniziazione della sua vita, delle fatiche e delle umiliazioni che doveva sopportare sul lavoro e nella vita di tutti i giorni, con i parenti e con tutti coloro che non lo stimavano, per realizzare il sogno di una famiglia che vivesse delle sue fatiche e del suo dolore.
Egli non chiamava dolore il suo dolore. Non chiamava iniziazione le tappe, tutte dolorose, che segnarono la sua vita e quella di mia madre. Però, mi parlava della ferita, della pena che portava ogni giorno con sé, quando usciva di casa, e senza il curriculum e lo status e il ruolo, nudo padre, senza nemmeno il più basso dei titoli di studio, per quarant’anni, tutte le mattine è uscito di casa ed è andato non semplicemente a lavorare oscuramente, ma a prendersi la dose quotidiana di umiliazioni, che non gli vennero risparmiate mai.
Egli ce le raccontava. Dunque, provvide a trasmettere la ferita. Ma non si trattava di recriminazioni o di lamenti. Non chiese mai di essere risparmiato. Sapeva bene che il ‘calvario’ quotidiano che gli era toccato in sorte era la sua piccola ‘Passione’. Egli doveva portare su di sé il peso di una sorte che era tutta sua.
Quando avevo appena quattordici anni, in quarto ginnasio, mentre studiavo, veniva discretamente in camera a trovarmi e mi diceva ogni volta di nuovo che io dovevo solo pensare a studiare: al resto avrebbe pensato lui. Mi ricordava le umiliazioni che doveva subire ogni giorno, ma sempre ringraziava perché da quel lavoro derivava il sostentamento della famiglia. Aggiungeva sempre, però, che quel denaro serviva soprattutto a farci studiare.
E’ stato chiamato il gesto dell’elevazione, in ricordo del gesto di Ettore alle Porte Scee, quando, prima di partire per la battaglia da cui non sarebbe più tornato, preso suo figlio in braccio, lo sollevò al cielo e pregò Giove che riservasse a suo figlio un destino più grande del suo. Egli chiese al cielo che suo figlio fosse migliore di lui. Allo stesso modo mio padre, nudo padre, chiedeva solo che io fossi migliore di lui.
Quando oggi sento dire dell’insufficienza dell’esempio, dell’evaporazione del padre, addirittura della sua morte, non posso fare a meno di pensare a quell’uomo semplice, o meglio, alla semplicità del suo sguardo, ché egli seppe vedere l’essenziale. Egli vedeva la vita, tutta la vita. Ne comprendeva il significato. E’ riuscito a raccontarmi tutta la vita. Senza sapere di narratologia e di testualità e di récit e di comunicazione efficace e di categorie dello spirito.
Il miracolo della sua vita risiede nel fatto che perse in guerra suo padre, nel 1915, all’età di due anni. Egli non poté godere del privilegio della ferita di suo padre. Non ricevette in dono il peso di quella ferita. Probabilmente, avrà cercato suo padre per tutta la vita. E lo avrà trovato, da qualche parte. Non riesco a spiegarmi come sia riuscito ad essere così grande. E’ certo che non si limitò a mostrare la sua ferita. Egli ne parlò, come cosa da portare con dignità. Questo era il nostro Segreto.
In un altro tempo ho scritto che l’evento più importante della mia vita è stato la voce di mio padre. Essa risuona ancora dentro di me, monito e anelito. Se oggi riesco a (sop)portare il peso dei dinieghi e degli accorti silenzi, è merito suo. Io lo so che questo è il mio significato. ➠
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