Questa volta non c’era Marscia a piangere suo figlio. Danilo non era suo figlio. Ma era stata Marscia a dirmi due anni fa, mentre da soli in cucina, seduti intorno al tavolo, ci chiedevamo come eravamo arrivati a quel punto: «Come si fa a seppellire un figlio?», e si trattava di quelle domande per le quali non c’è risposta. La risposta è nella domanda: è impossibile seppellire un figlio; un figlio non si può seppellire… Quando ci si ritrova nella necessità di farlo, non siamo noi a seppellirlo: noi ci rifiutiamo di farlo. Respingiamo l’idea che possa essere veramente morto, che la sua giovane vita ci sia stata strappata. Martedì notte è andata così. Un vento crudele si è portato via Danilo. Con i suoi 28 anni.
Tanto tempo fa – al tempo dell’Università – a Roma uccisero barbaramente due giovani fascisti. I loro amici scrissero sui muri del quartiere: Che idea morire di maggio!, quasi a voler lasciare sul loro viso per l’ultima volta una carezza.
A me sono venute in mente quelle parole, per pensare Danilo, con il quale avevo intrecciato questo inverno colloqui di motivazione, per aiutarlo ad uscire dalla sua dipendenza.
Sono accadute tante cose poi. La sua donna aspetta un bambino. Sembrava che con lei stesse aspettando l’arrivo di suo figlio, che nascerà a ottobre. Invece, se n’è andato in una notte calda d’agosto, mentre i frutti più dolci della stagione sono maturi, inspiegabilmente. Non siamo riusciti a capire!
Che idea morire in agosto, quando l’aria ferma lascia trascorrere nel cielo sentori di autunno, e sembra che le nostre passioni finalmente troveranno pace! La stagione che lentamente sarebbe venuta, pur in mezzo agli affanni di oggi, costituiva una promessa: la tregua desiderata. Perché andarsene così, senza un saluto, dimentichi della vita che pure germoglia ancora, che non smette mai di stupirci ad ogni alba e ad ogni tramonto, regalandoci sempre la certezza che verrà un altro mattino per noi?
Ieri sera abbiamo seppellito Danilo e con lui i pensieri di suo figlio, che non conoscerà mai suo padre. Dovremo trovare le parole per dire la sua giovane vita. Suo figlio vorrà sapere di lui. La madre inesperta saprà inventare per suo figlio la storia di suo padre? Non potrà, certo, confessare l’amore impaziente e capriccioso che pure lo ha fatto venire al mondo. Forse non saprà dirgli che l’amore non è più grande della vita. Il palpito breve di un amore – non importa quanto grande – può bastare a giustificare questo risultato?
Trent’anni fa un filosofo, parlando di Eros, lo definì l’arytmos, l’immensurabile, ché si abbatte sulle povere dimore che noi arrangiamo, portandovi scompiglio. Come insegnare ai nostri ragazzi che l’amore può essere forza che devasta, talvolta intervenendo ad alterare i fragili equilibri che fanno stare insieme le nostre povere case? E se non lo faremo, non saremo sempre di nuovo costretti a chiederci, quando il vento crudele ce lo porterà via: «Come si fa a seppellire un figlio?»