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Domenica 19 giugno 2011
Non le visioni sgomentano l’uomo – ma l’ombra che si muove / sul fondo di solitari specchi o nelle gravi acque d’attesa. / Non il gesto od il grido – ma nel deserto del cuore / le lente vibrazioni di un silenzio insondabile.
Margherita Guidacci
Quando pensiamo a noi stessi e ci ritroviamo a chiederci come dobbiamo pensarci, è at- traente la tentazione di identificarci con un’espressione sintetica, addirittura con una parola che da sola riassuma ciò che è stato: questa volta non si tratta di raccontarsi ma di fotografare un’intera esistenza.
Parole come ‘inattuale’, ‘postumo’, ‘imperdo- nabile’ mi sono venute incontro e mi hanno accompagnato per anni. La scoperta di Nietzsche, ad esempio, con il suo inattuale, risale agli anni Settanta. Nel 1974 lessi sul settimanale L’Espresso un servizio sulla Cina maoista, nel quale si riferiva la vicenda di una giovane studentessa che, per poter accedere all’Università, era stata costretta a prostituirsi presso il capo della Comune in cui viveva con la sua famiglia. Allora, cessai di essere comunista. Il disgusto e il disprezzo morale non mi hanno abbandonato più. Il 1975 era stato l’anno dell’esplosione femminista in Italia. Io leggevo tutti i libri e le riviste femministe che fiorirono poi in quegli anni. Nel 1976 scoprii Cacciari sulla rivista Critica marxista. Con lui imparai a non essere più marxista. O, almeno, imparai a rinunciare alla pretesa totalizzante propria del marxismo. Allora, mi ritrovai a mettere insieme marxismo e fenomenologia, con l’aiuto della rivista di filosofia aut aut. Negli anni Ottanta, dopo aver abbandonato anche il Partito per un episodio di violenza economica di cui fui vittima con la mia famiglia, all’interno di una cooperativa di abitazione a proprietà indivisa (!), mi ritrovai a soffrire il cosiddetto riflusso nel privato degli anni Ottanta. Dopo avere scoperto la partecipazione, mi sembrava che la mia anima avesse subito un’amputazione. Da allora, non mi sono ‘ripreso’ più. Nessuna nostalgia per la vuota vita di Partito, con i suoi riti inutili, ma in sofferenza sì, per la fine di una stagione di grande condivisione. L’inattuale niciano, in quegli anni, mi aiutò a pensare ciò che resta.
Negli anni dell’Università mi piaceva pen- sarmi come inattuale, cioè in anticipo sui tempi, perché aperto, nella proiezione utopica, verso un futuro di civiltà in cui sognavo risolti i grandi drammi dell’umanità. Ho compreso, poi, che l’inattuale viene raggiunto e superato, soprattutto quando i contorni dell’utopia trascorrano nell’ideologia, quando lo slancio utopico perda la sua carica positiva, come è stato per il Comunismo.
Un’opera di Nietzsche prima e la lettura che ne diede poi Cacciari mi fecero scoprire gli uomini postumi.
Su una collina che guarda Vien- na sorge la chiesa dello Steinhof, opera di Otto Wagner. Nello spazio rac- colto della sua cupola si incon- trano forze che «danno vita a un’unità difficile e breve». Uscen- do dallo spazio di quella chiesa lo sguardo si perde in un paesaggio di «pellegrinaggi infiniti» e «follie inter- minabili»: Vienna. A questa città, e a certi memorabili «uomini postumi» che vi abitarono nei primi anni del secolo scorso, è dedicato questo libro di Massimo Cacciari.
La definizione di «uomo postumo» è di Nietzsche, ma si può dire che Vienna sia il luogo privilegiato dove quegli esseri si sono manifestati. Musil e Hofmannsthal, e certi loro personaggi, o gli eterni nomadi di Joseph Roth, lo «straniero» Trakl o, infine, Wittgenstein stesso, il quale in Inghilterra non fece che trapiantare, senza per altro essere capito, le aporie e i paradossi evocati da una indagine sul linguaggio peculiarmente ‘viennese’: tutti questi nomi rinviano a un centro comune, un centro però vuoto, dove non risiede una Verità da comunicare, ma al più un’assenza, un oscuro rimando a un’«origine», la traccia di un limite invalicabile, di un conflitto che non attende una conciliazione. È questo il luogo di un «moderno» ben più radicale, ben più penetrante di ogni avanguardia costruttivista e baldanzosa.
Il suo primo carattere è l’inconfondibile compresenza di un’angoscia che fa ammutolire e di una lucidità che è anche limpidezza. L’ossessione comune per il linguaggio, si tratti del linguaggio musicale, filosofico o letterario, indica una volontà testarda di fissare «ciò che si può dire», di misurarne l’immensa portata e, al tempo stesso, l’invincibile impotenza, di metterlo a contrasto con tutto ciò che non si può dire, che è «indecente» dire – eppure continuamente viene detto e costituisce ormai il tessuto stesso del mondo.
Cacciari ha provato in queste pagine a traversare diagonalmente tutto lo spessore di questa intransigente ricerca ‘viennese’: dalla filosofia (Wittgenstein) alla pittura (Schiele) alla musica (Schönberg e Berg) alla letteratura (Musil e Hofmannsthal e Joseph Roth e Altenberg e Kraus). Ma, anche se a Vienna il «problema dei fondamenti» si rivela sempre con la più drastica evidenza, in altre zone della cultura di lingua tedesca quella stessa ricerca prosegue in altre avventure, sfocia su altri paesaggi: così alcune sezioni del libro sono dedicate a Robert Walser e a Ernst Jünger, a Böcklin e a Max Klinger, a Kubin e a Hesse, in un gioco vibrante di affinità e di opposizioni. E alla fine di questi tortuosi, intrecciati percorsi, che nella loro molteplicità irriducibile non si ritrovano più su alcuna via regia, riconosceremo ancora una volta nell’orizzonte che si apre «dallo Steinhof» quello stesso orizzonte che abbiamo davanti.
Acquistata il 14 aprile 1980, ho ‘sostato’ per anni sull’opera di Cacciari. Ancora oggi torno ad approfondire pagine che hanno segnato la mia vita. Quando, cinque anni dopo averla acquistata, mi ritrovai sulla Baumgartner Höhe, dopo aver parcheggiato la mia macchina proprio davanti all’Ospedale psichiatrico di Vienna, l’emozione fu grande. Oltre il muro di cinta dell’Ospedale, sulla sommità della collina, la Chiesa di Otto Wagner. Mi ritrovai con mia figlia davanti alla facciata con il volume di Cacciari in mano e le lessi le pagine introduttive, perché comprendesse cosa le stavo proponendo.
‘Motto’ del libro è «Wer seiner Zeit nur voraus ist, den holt sie einmal ein» (Ludwig Wittgenstein, 1930), che significa: «Merita di essere raggiunto dalla sua epoca colui il quale si limita ad anticiparla».
Due simmetrici nastri di viali, alle falde della foresta viennese, danno accesso alla Chiesa di San Leopoldo. Dalla cima della Baumgartner Höhe doveva aprirsi su Vienna un degradante, nitido paesaggio, come in un Bellotto, solcato da brividi e luci infinite. La chiesa di Wagner, posta a corona del complesso dell’ospedale per i malati di mente della città di Vienna, sbucava dal folto del verde con la sua rifulgente cupola di rame dorato. E’ impossibile dire che cosa quest’opera anticipi – ed è impossibile dire che cosa la raggiunga.
Quattro angeli di bronzo ritti sul protiro introducono all’interno: ermeneuti di questo interno e loro custodi, insieme. Il ritmo ieratico che ne scandisce l’apparizione cita, evidentemente, quello delle figure di Ferdinand Hodler. I principi dell’iterazione e della simmetricità, con i quali Hodler fece «irruzione aspra e minacciosa nel mondo dell’impressionismo», dominano, d’altronde, l’intera costruzione. Alle spalle degli angeli di Othmar Schmikowitz si apre la grande vetrata semicircolare di Kolo Moser. Nel mezzo sta in trono il Padre, ai suoi lati due angeli ricoperti di vesti preziose con le ali superbe dispiegate. Adamo ed Eva sono in ginocchio agli angoli estremi dell’arco, quasi nell’intrico di grandi piante ricurve. Da questa vetrata e e dalle due del transetto l’interno prende luci bianco e oro, verdi e blu. Anche nelle vetrate del transetto appaiono grandi figure angeliche, nel pieno della loro gloria. Le due che occupano la parte superiore semicircolare della vetrata, sospese sopra i santi che rappresentano le opere della misericordia, portano magnifiche, vastissime ali di pavone. Per l’altare maggiore, di maiolica, stucco e mosaico, Moser aveva disegnato altri due angeli eretti, in posizione frontale, recanti i segni del martirio di Cristo. Il grande pannello di mezzo doveva raffigurare il trionfo del Cristo nel centro di un coro di santi, tra i quali la protettrice dei folli, Dymphna.
Il ritmo simmetrico, iterativo è sottolineato all’esterno dal rivestimento di sottili lastre marmoree; le staffe e i bulloni che le tengono, ricoperti in testata di rame, muovono queste mura senza nessun’enfasi monumentale e senza nessuna concessione all’ornamento. Ma all’interno la perfetta misura delle forme fondamentali dell’edificio si accompagna, senza contrasto, alla policroma chiarezza della luce che viene dalle vetrate. Qui è l’incontro, mai altrettanto riuscito, tra il principio della tradizione e della citazione, da un lato, e il Nervenleben del segno e del colore della Secession, dall’altro. Quest’ultimo dà luce alle pure forme fondamentali del tempio, e queste costituiscono lo spazio in cui le oscillanti tonalità Jugendstil trovano un ordine, una consistenza chiara e comprensibile, per quanto effimera essa sia. Lo spazio interno tiene raccolto, al suo centro, questo incontro. Una profonda necessità muoveva Wagner, perciò, a ‘costringere’ lo spazio interno della cupola. Se essa doveva apparire all’esterno da lontano e dominare il paesaggio, all’interno doveva prevalere un forza centripeta, un movimento di ‘raccolta’ – poiché le forze che qui si incontrano danno vita a un’unità difficile e breve. Forse, la chiesa allo Steinhof si comprende soltanto quando da essa si esce e le si volge le spalle. Allora, se ci si interroga sulle diverse vedute che ci si aprono di fronte, comprendiamo l’intima debolezza delle sue estreme teofanie. I pellegrinaggi infiniti e le follie interminabili che si profilano in questo paesaggio hanno forse avuto inizio dalla utopia che ci siamo lasciati alle spalle. Qui essi hanno cercato un’ultima impossibile dimora. Il bosco di Kubin abbraccia questa chiesa ed è ormai impenetrabile alla sua luce. Ma la grandezza di questa chiesa sta nel suo continuo, consapevole frangersi ai bordi del bosco, sulle spiagge della notte, come una di quelle stelle cadenti di cui Trakl ha parlato. (Dallo Steinhof: come introduzione, in MASSIMO CACCIARI, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, ADELPHI 1980, pp.13-15)
UOMINI POSTUMI
Da questa chiesa, lo sguardo abbraccia il paesaggio degli uomini postumi. Anch’essi ‘praticano’ la società, vanno tra gente travestita, sono oggetto di conoscenza, di considerazione e di interesse. Ma insieme – e non in contraddizione, come Nietzsche riteneva – fanno i fantasmi. Nietzsche ne parla in La gaia scienza e, poi, nel Crepuscolo degli idoli. Passano per porte chiuse, oppure quando tutte le luci sono spente. Gli altri si protendono verso di loro ma non arrivano ad afferrarli. La maschera, il travestimento non li esaurisce. Manifestano, anzi, un’inesauribile molteplicità di maschere o di ragioni. L’uomo postumo ha troppe ragioni, per accontentarsi di una verità semplice («ogni verità è semplice – ma non è questa una doppia menzogna?»). L’uomo postumo trascorre per infinite maschere senza fissarsi in nessuna. E «questo mette paura», è il suo Unheimliches.
Non avendo un Fondamento, egli viene compreso peggio degli altri, peggio degli uomini attuali, però viene ascoltato meglio. «O più esattamente: noi non siamo mai compresi», ma il fantasma dell’uomo postumo costringe quasi all’ascolto, fa riscoprire la dimensione dell’ascoltare. La sua «autorità» non è che questo solitario, muto invito all’ascolto. […]
Ma è Musil che più di ogni altro ha compreso l’inaudita forza della distanza che l’uomo postumo permette. La nettezza e la forza da incisione tedesca della Rinascenza di un brano come La carta moschicida deriva da questa distanza. L’uomo postumo illumina a fuoco gli eventi più segreti. […] Occorre saper resistere nell’atmosfera più pura e rarefatta perché l’occhio raggiunga questa limpidezza e possa riflettere le immagini fin nei particolari più infinitesimi – fino, dunque, a divenire tutt’uno con esse. Al colmo della distanza si apre, difatti, la simpatia più profonda. E’ grande perciò la potenza di questo linguaggio. Da un lato, si inabissa nella distanza, ma, dall’altro, coglie l’evento nelle sue fibre più segrete, lo ‘scopre’ dalle maschere della verità che pretendevano di fissarlo, di immobilizzarlo, e ne ascolta l’irriducibile polifonia. Se questa è la poesia di Pagine postume pubblicate in vita, pagine postume sono anche (e forse per eccellenza) quelle di Wittgenstein, da cui prende inizio questo lavoro. (pp.16-18)
La mia esperienza dell’ascolto è nata da qui, da questo interrogare i limiti del linguaggio, perché l’inaudito finalmente avesse voce. Ho acquistato le Pagine postume a Rovereto il 28 aprile 1975. Allora, inseguivo Entsagung, un’idea forte di rinuncia alla totalità, alla sintesi conchiusa della vita, che queste pagine esemplificano con il nitore dello sguardo, a cui non ho mai smesso di aspirare.
L’incontro più recente con Cristina Campo mi ha fatto scoprire il significato dell’imperdonabile, un ideale di perfezione morale che appartiene solo a chi sa essere una mente ospitale.
La passione della perfezione viene tardi. O, per me- glio dire, si mani- festa tardi come passione cosciente. Se era stata una passione sponta-nea, l’attimo, fatale in ogni vita, del “generale orrore”, del mondo che muore intorno e si decompone, la ri- vela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione.
In un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all’uno o all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita.
E’ prudente dimenticare che, secondo la cronaca, quell’uomo dovette a ciò la sua testa: l’ufficiale tedesco di scorta ai condannati non resse alla sua compostezza e gli fece grazia. E’ decente ritenere le parole che il cinese proferì, interrogato, prima di perdersi tra la folla: «Io so che ogni rigo letto è profitto». E’ lecito immaginare che il libro che egli teneva tra le mani fosse un libro perfetto. – CRISTINA CAMPO, Gli imper- donabili, ADELPHI 1987
Perfezione è la parola chiave dell’im- perdonabile. Essa riassume un intero catalogo di virtù legate alla verità, alla bellezza, all’aristocrazia: silenzio, attesa, capacità di durare, grazia, leggerezza, ironia, sensi fini, occhio fermo, chiarezza, sottigliezza, agilità, impassibilità. Ma poiché si tratta di perfezione rubata a un mondo che la disconosce o non sa che farsene, scovata nei luoghi e nei generi più diversi, in un grande filosofo o nella mossa di una ballerina, nella rilegatura di un libro o in antiche stoffe preziose, imperdonabile è la non contemporaneità, non essere segno, testimone del proprio tempo, ma stare avanti o indietro rispetto ad esso, in ogni caso in posizione eccentrica, senza legami con saperi costituiti o con ideologie.
Imperdonabile è dunque assolutezza, purezza, o almeno l’aspirazione ad esse: la cifra, viene subito da dire, della parola e dell’esistenza femminile, in qualunque forma si esprima, teoretica, poetica, religiosa. – LAURA BOELLA, Le imperdonabili. Etty Hillesum. Cristina campo. Ingeborg Bachmann. Marina Cvetaeva, TRE LUNE EDIZIONI 2000
Laura Boella, in verità, fa diventare Le Imperdonabili quello che in Cristina Campo è appannaggio degli imperdonabili. Tra di essi, non solo Leopardi e Hölderlin, ma anche i ragazzi che aspirano alla purezza e alla perfezione. Tra di essi, perché non imma- ginare anche tutti gli adulti – maschi e femmine – che siano interessati ad approdare a un’innocenza seconda, per dare voce a un bisogno di pulizia morale che sembra non trovare altre vie per esprimersi, oggi?
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