E’ importante avere un’idea della scuola, nonché della relazione educativa, come delle cose che si possono dire ma soprattutto di quello che non si potrà mai dire ai propri alunni. Una delle cose da tacere sempre è il segreto da custodire fino alla fine: quello che sappiamo dei nostri Colleghi, le debolezze a cui essi si abbandonano, gli errori imperdonabili che commettono.
Posso dire con orgoglio che dal 1974 ad oggi – dopo aver concluso la mia carriera di insegnante – non mi sono mai abbandonato al pettegolezzo o alla critica – non importa quanto veritiera e fondata – nei confronti dei miei Colleghi. Non mi sono permesso nemmeno di giudicare di fronte ai ragazzi Presidi che meritavano solo disprezzo per la loro immoralità. Non ho mai contribuito a deformare o ad appannare l’immagine – che ho considerato sempre sacra – degli Educatori, nei quali i ragazzi riponevano le loro speranze e ai quali affidavano ogni giorno tacitamente il destino della loro mente.
Nella famiglia e nella scuola, nella società come nelle comunità di ogni genere, cosa c’è di più prezioso e raro dell’integrità dell’immagine di un Educatore? E quando dico immagine non mi riferisco al simulacro – all’involucro che nasconde il vuoto di senso a cui ci abitua la società dello spettacolo oggi – di una persona, all’effigie impressa in una foto o alle vane dicerie dei detrattori o dei millantatori.
Costruire l’immagine di sé presso i ragazzi è la fatica più grande: siamo al loro cospetto, con la nostra anima nuda, esposta allo sguardo penetrante di chi è avido di conoscenza ed è pronto a succhiare ogni stilla vitale che trasudi da un moto improvviso come dal gesto più calcolato e consapevole.
‘Salire sulla cattedra’ ogni giorno è il più grande privilegio, perché ogni volta di nuovo si tratta di costruire lo spazio linguistico nel quale far precipitare gesti e parole, concetti e sentimenti.
Ai ragazzi occorre insegnare quello che anche noi abbiamo appreso per tempo, che bisogna abituarsi alla propria voce, accettandola e provando piacere a sentirla vibrare nell’aria. La voce che si diffonde intorno è musica per l’anima, come è musica il tono accogliente dei ragazzi che restituiscono la nota, accordandosi alle vibrazioni suscitate con la lezione avviata.
I passi e i tempi dell’azione educativa, le svolte e gli strappi, i monologhi in fiamme e i dialoghi più misurati, le esortazioni e i rimproveri, le prescrizioni e le ‘consegne’… ogni tempo della relazione educativa è fatica personale, che nessun testo sacro può prevedere o anticipare, né suggerire.
Massimo Cacciari ha parlato di arrischio della relazione, riferendosi al fatto che siamo sempre esposti, anche nella vita quotidiana. Un mio vecchio amico, negli anni di Liceo, amava dire istericamente: Ma dove trova il coraggio la gente di uscire di casa al mattino? E voleva dire che incontrare il mondo non è facile né scontato: c’è sempre da rischiare qualcosa in proprio.
Immaginate tutto questo ed altro. Immaginate che uno di noi si sia messo a dire ai suoi ragazzi che bisogna fare questo e quello, che bisogna resistere e consistere qui, prima di ogni vana illusione. Immaginate che un gruppo di ragazzi abbia imparato da lui la fatica e la rinuncia e che abbia creduto alle sue parole; che lo abbia visto dormire con loro alle stesse ore e mangiare le stesse cose ogni giorno della vita comune. Immaginate che ai ragazzi sia stata data la speranza, e che la fragilità del bene sia affidata a noi che sappiamo di lui.
Immaginate poi che un giorno uno di quei ragazzi si sia rivoltato contro di lui, rimproverandogli ciò che quel ragazzo non avrebbe potuto mai scoprire se non ascoltando noi e le nostre critiche aspre e severe. C’è da meravigliarsi poi che qualcuno dei ragazzi che ci sono stati affidati si ritrovi oggi sotto tre metri di terra, senza parole ormai, nell’impossibilità di rimproverarci ormai, per aver detto di uno di noi che non meritava di essere lì, a fare le stesse cose che siamo impegnati a fare noi? Immaginate che lì dove c’era la speranza ora ogni cosa è in pericolo, revocata in dubbio. Lo spazio linguistico comune in pericolo. L’immagine ‘pubblica’ dell’Educatore erosa dal dubbio della critica e della rivelazione improvvisa. Che dire di noi, immemori come siamo della fragilità del bene, come ha chiamato la vita buona Martha Nussbaum, la filosofa americana che raccomandava la compassione all’America dopo l’11 settembre, preoccupata che le ragioni eccessive che avevamo potessero travolgere chi pure era impegnato nel suo cantuccio a costruire un pezzetto d’America, e si ritrovava nella condizione di poter essere giudicato e condannato, non importa quanto a ragione?
Si tratta sempre di chiedersi a che punto sia la notte, cioè se riusciamo ancora a distinguere tra la folla che avanza il volto di un fratello o di una sorella, di un vicino o di un amico, senza pretendere di sapere per ognuno di quei volti se si tratti di un nemico o no.
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