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Venerdì 15 luglio 2011
For fools rush in where angels fear to tread. – Poiché gli sciocchi si gettano a capofitto là dove gli angeli non osano camminare. – Alexander Pope
E’ così. I nostri ragazzi a volte (io dico: a volte, perché ho esperienza da 22 anni di persone che ‘hanno appreso’; lo studioso Fabio Fagnani parla di una incapacità di apprendere propria di tutti i tossicomani; Claude Olievenstein sostiene che la difficoltà che essi incontrano è quella di darsi un’identità) non apprendono, non riescono ad approdare a un nuovo stile di vita.
Sono ‘sciocchi’, per dirla affettuosamente, perché non ‘vedono’ la porta aperta che hanno davanti. Indicarla ripetutamente, anche per anni, non è sufficiente: scopriamo ad ogni piè sospinto una difficoltà che ha dell’incredibile, a una considerazione ‘ingenua’ del loro comportamento. ‘Chiusi’ tra emozione e motivazione, si agitano senza muoversi, confondono sentimento e azione, attribuiscono all’esterno la ‘causa’ di tutto ciò che accade dentro di loro. Il linguaggio del cambiamento – indicato da Watzlawick – non sempre è efficace, a meno che non si instauri un adeguato setting terapeutico. Al di fuori delle posture e dei contesti terapeutici, perché si dia vera ‘presa in carico’, in un Servizio sociale privato, occorre un lungo lavoro di motivazione. Il tempo, non importa se breve o lungo, riservato ai colloqui di motivazione, serve a incidere sulla struttura delle motivazioni della persona, per favorire la decisione di abbandonare gli stili di vita ‘controproducenti’ adottati.
Se diciamo, ad esempio, che è preferibile non ‘bivaccare’ per ore in un bar frequentato da tossici, per evitare il contagio emotivo, essi si difendono dicendo che “i tossici sono dappertutto”, allora, perché evitare un certo bar?; oppure ascoltano scettici, per continuare a fare come sempre. Non capiscono. Non credono a quello che si dice loro. Riferire innumerevoli casi di persone che hanno avuto ‘ricadute’ a causa di quel comportamento non basta con loro. Raramente è efficace. E il tratto ‘sociale’ della sindrome tossicomanica è proprio questo: è nell’incapacità di agire. Questo tratto della malattia rende indispensabili programmi residenziali ‘di recupero’: raramente le persone riescono a ‘superare’ la dipendenza con terapie territoriali. Queste ultime consistono in un contratto con il Servizio pubblico (il SER.T.), che somministra per un lungo periodo – mediamente, un anno – un farmaco antagonista degli oppiacei, che dovrebbe evitare ‘ricadute’. Naturalmente, la tendenza della persona a perpetuare comportamenti d’abuso in altri ambiti – con cannabinoidi, alcol, cocaina, psicofarmaci – costringe a contemplare controlli settimanali. Il lavoro dell’équipe del SER.T. e del Centro di ascolto consiste nel motivare la persona al cambiamento.
(Mi riferisco a questo solo aspetto, perché del modello bio-psico-sociale che seguiamo ovviamente non interessa qui trattare gli aspetti più strettamente clinici, cioè le patologie organiche e i disturbi psicologici. Il metodo di rete è nativamente un approccio multimodale: concorrono alla ‘cura’ tutte le figure professionali che sono indispensabili, cioè il Medico, l’Assistente sociale, lo Psicologo, l’Infermiere, l’Avvocato di famiglia, gli Educatori di Comunità, i Volontari. Questi ultimi, assieme alla famiglia, entrano nella Rete, quando siano presenti nel territorio e siano ‘attivati’, costituendone due nodi preziosi perché siano opportunamente affrontati i problemi ‘sociali’ della persona. L’alleanza costruita nel tempo con i Servizi pubblici e privati fa del Centro di ascolto in cui opero qualcosa in più di un nodo della rete che debba essere attivato da altri: il locale SER.T. fa i suoi invii al Centro, periodicamente; più spesso, – direi, sempre – siamo noi che proponiamo all’utente una modalità di lavoro ‘concordata’, in cui il raccordo con il SER.T. è costante: nessuna scelta è fatta senza una preventiva consultazione dell’équipe del SER.T. E’ così che il lavoro sociale procede sicuro, in quanto l’utente è contemporaneamente sotto lo sguardo dei Medici e delle altre figure professionali. I bisogni relativi alla salute mentale, poi, sono affrontati con il locale Dipartimento di Salute Mentale).
E’ interessante la serie di domande a cui cerca di rispondere Carla Caterina Rocchi nel suo piccolo saggio Riflessioni etiche su una volontà “discutibile”. Proviamo a riferirne una, per dare l’idea dei labirinti in cui ci aggiriamo:
L’assuefazione è meglio concettualizzata come patologia cerebrale o come condizione morale, o come una combinazione delle due? (questa domanda, in realtà, è dello scienziato Steven Hyman)
Un’esistenza esposta, come quella di chi è affetto da una qualche dipendenza, soffre sicuramente una limitazione della libertà personale. Se le cose non sono facili da comprendere, poi, e se è difficile trovare una collaborazione immediata con le persone che sono affette da dipendenza, la difficoltà è da ricondurre alle modifiche che subisce il comportamento, ma soprattutto al grave condizionamento che la patologia esercita sull’esperienza personale, sul tempo vissuto come sulla capacità d’azione. Se non ci trovassimo di fronte a una volontà che non si sa libera, a dispetto di tutti i proclami di un falso Sé, sarebbe tutto veramente facile. Ma non è così!
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