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Giovedì 4 agosto 2011
Mentre una nostra giovane amica lotta per la vita in una stanza d’Ospedale a Roma, il pensiero va a Benedetto, che dall’8 giugno riposa nel Cimitero della città. I sentimenti che a lungo giacciono nel nostro cuore, magari dandoci l’impressione di sonnecchiare, perché rivolti a una persona lontana o a un’altra che forse ci sfuggiva, all’improvviso si risvegliano, rivelandosi per quello che sono: un forte sentire, spia di legami non superficiali e di pensieri che non ci hanno mai abbandonato.
C’è qualcosa che alcuni non sanno, soprattutto i più giovani, che si affacciano alla vita stupefatti: che sia possibile amare ancora una persona che non c’è più; che sia possibile pregare, senza avere un dio personale a cui rivolgersi, ma spinti dal bisogno profondo di farlo.
Oggi ci sentiamo così: campo del dolore e preghiera. D’altra parte, in un caso e nell’altro, non è un muto dialogo quello che intrecciamo con gli assenti, comunque convinti che esso debba continuare e che da esso dipenda addirittura il persistere nel tempo degli eterni a cui rivolgiamo il pensiero e la preghiera?
L’esperienza del dolore non è mai breve. Sento dire ogni tanto: questo è un periodo terribile. Stanno accadendo troppe cose tutte insieme. C’è chi vorrebbe un funerale all’anno. Non di più. Qualche rara malattia, senza conseguenze. C’è chi si stupisce che qualcuno si ammali e muoia e che qualcun altro inspiegabilmente vada incontro alla morte proprio quando sembra che la vita incominci a sorridergli… Più ragionevole l’insegnamento dei filosofi che dicono: l’uomo non è l’animale che muore perché si ammala; piuttosto, l’uomo è l’animale che si ammala perché deve morire.
La nostra esperienza del dolore è sempre dimentica di questa verità elementare. Allo stupore ottuso di chi non sa o crede di non sapere bisognerà sostituire un più umano sentire, che sia compreso della condizione che ci è propria. A una madre addolorata non diremo parole rassegnate né ostenteremo un sano realismo, che non si capisce bene cosa abbia di sano, posto che non è certo malato credere di essere eterni. Ma quando la stessa madre decidesse di approntare tutti i dispositivi necessari per far durare la memoria della persona cara, allora diventerebbe possibile ragionare degli assenti e con essi proseguire il cammino interrotto, nella sacralità del ricordo.
Probabilmente, non siamo pronti a riconoscere prima quello che ci ritroviamo a pensare e a sentire poi, che non si muore del tutto. Noi non vogliamo che cessi di esistere chi per lungo tempo giacque nel nostro cuore, presenza cara e silenziosa a volte, rumorosa e appassionata altre volte. Ma ciò che è veramente doloroso è sentir dire che bisogna disfarsi degli oggetti appartenuti a chi non c’è più, che non ha senso andare infinite volte al Cimitero, dove non ci sarebbe nessuno; che bisogna ‘elaborare’ il lutto, curarlo addirittura, come cosa che opprime l’anima impedendole di vivere. La vita continua! Bisogna pensare a chi resta. E via cianciando, con la chiacchiera mondana che conosciamo bene.
Io credo, invece, che bisogna lasciare che la ferita non cessi di sanguinare; che il ricordo resti sempre vivo, che sia anzi alimentato con tutti i dispositivi di cui disponiamo e approntandone anche di nuovi; che si continui a parlare con la persona cara, a parlare sempre di lei. Al presente. Solo così quello che giudicammo sacro al fondo del nostro cuore non cesserà di essere tale. Nel recinto dell’anima ci sarà posto per vere presenze. Se alla semplice-presenza dei viventi non crediamo, perché non ci accontentiamo del (solo) visibile, dove cercheremo e troveremo i nostri eterni se non là dove essi non cessano di esistere, perché all’ora che non ha sorelle non abbiamo lasciato l’ultima parola?
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Ascolta Emanuele Severino sugli eterni,
dopo la pubblicazione del libro
“Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia“.
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