CAMMINARSI DENTRO (215): Lo statuto della voce nella relazione d’aiuto

 

Scripta volant, verba manent.
JACQUES LACAN

La verità è il tono di un incontro.
HUGO VON HOFMANNSTHAL

0. Rispetto al motto di Lacan – I testi (scritti) volano, i discorsi (orali) restano – e a tutta la lezione del maestro Jacques Derrida, c’è da segnalare qui il primato del significante, rispetto al significato, e il primato della voce, rispetto al testo scritto. Quest’ultimo ‘vola’, nel senso che non costituisce documento ‘fedele’ della realtà che più ci sta a cuore: il ‘luogo’ del soggetto, lo spazio ‘relazionale’ della verità.
A noi interessa raggiungere il cuore della verità, e questo luogo è là dove si disloca il soggetto che è di fronte a noi e che parla. Di lui diremo che non è semplice-presenza. Di lui ci interessa la trascendenza, ciò che lo supera, collocandolo in un altrove che desideriamo ‘abitare’. Ciò che appare a noi non è tutto. Seguiremo la traccia del suo apparire e i modi di quell’apparire, per ‘andare’ là dove si dilegua ogni nostro apparire.
Il soggetto, poi, non è più il legislatore dell’esperienza, perché non è padrone a casa sua, come ci ha insegnato Freud. ‘In casa’ c’è qualcun altro con cui il soggetto è perennemente impegnato a ‘dialogare’. E’ stato Ricoeur a parlare del «sé come un altro». Già Mallarmé aveva sentenziato: «Je est un autre», Io è un altro. Sicuramente, non siamo di fronte a un ‘semplice’, e la nostra coscienza non è mai possibile ri(con)durre a un dominio conchiuso, ad una sintesi chiara, se non al culmine della nostra vita, quando ormai essa è stata interamente vissuta…
Ciò che ‘resta’ è la vita della ‘parola’, la qualità dell’accordo, che costituisce l’autentico καιρός – ο κρόνος καιρός, il tempo ‘debito’ – di cui si sostanzia l’efficacia dei processi empatici. Riconoscere il primato della parola, dunque, – della voce – equivale a proporre una diversa posta: è altro ‘in gioco’. Cercheremo – e troveremo – l’altro non in un intemporale significato della verità che dovrebbe mostrarsi a noi  incontrovertibile nel bagliore della luce meridiana.
Già Eco nel 1980 aveva avvertito, in apertura del suo primo romanzo, che la verità ci si mostra spesso «per speculum et in aenigmate» – attraverso giochi di specchi e tale che debba essere interpretata -, dunque non ci fermeremo alle mere apparenze, anche se sappiamo bene che «nulla appare invano»: l’apparenza non ci ingannerà, se noi sapremo farci condurre da essa al cuore ben rotondo della verità. Seguire il significante è già metodo, qui – cioè dentro la relazione -, per noi.
Il significante per eccellenza è la voce umana. Da essa ci faremo guidare in tutte le vicissitudini della nostra vita activa.

1. «Viviamo in una fonosfera, presi nell’ascolto, tesi all‘ascolto, estroflessi e portati fuori di noi, per intendere qualcosa» (Carlo Serra). In Exodus siamo abituati a parlare di paesaggio affettivo, per indicare le figure di riferimento della famiglia d’origine che ogni ragazzo deve riscoprire, al culmine dei programmi riparativi e ricostruttivi che si rendono indispensabili per uscire dalle dipendenze. Una sede residenziale – noi preferiamo parlare delle nostre Case – è propriamente una fonosfera, come lo è ogni Centro d’ascolto. In ‘casa’ risuonano le voci alle quali si impara ad essere fedeli, se è vero che ‘tradire’ è un ‘tra-udire’, cioè sentire altre voci, prestar fede ad altre voci. Creare in sé lo spazio indispensabile per ospitare gli altri, tutti gli altri con i quali si intrattengono relazioni significative, vuol dire propriamente accettare ogni risonanza affettiva, che solo la voce ‘direttamente’ restituisce. Nella dimensione dell’ascolto occorre inserire poi la nozione complessa di paesaggio sonoro.
La voce dell’Operatore e la voce della persona che chiede aiuto non sono mai in questione: non costituiscono, cioè, materia di studio né, tantomeno, oggetto di riflessione personale o argomento su cui riferire esperienze significative, come se si desse comunicazione solo a livello di concetti, di significati, di riferimenti oggettivi facilmente condivisi! Nel colloquio, che è una delle strutture portanti della condizione umana, invece, sono implicati piani di realtà relativi ai parlanti che non sono ri(con)ducibili al solo dominio della parola. Il contenuto manifesto e l’espressione verbale delle proprie intenzioni e dei propri scopi non esauriscono il senso. Al di là di impliciti e di presupposti, su cui pure si basa la comunicazione umana, ci riferiamo qui al non detto delle emozioni, al preverbale, ai tratti sovrasegmentali dei sintagmi che vanno a comporre le catene di parole con le quali costruiamo i nostri discorsi [vedi anche  ].
Il senso, poi, è costruzione collettiva; non è il mero significato delle parole, che pure sono soggette al fenomeno della connotazione, limitatamente all’esperienza del singolo parlante: noi siamo quotidianamente impegnati a contrattare con gli altri il senso da dare alle parole con le quali poi interagiamo sempre, perché un mondo a noi sostanzialmente estraneo si trasformi in una realtà durevolmente condivisa.
Lo statuto della voce, anche considerata nella comune relazione faccia a faccia che intratteniamo con le persone che ci circondano, resta inindagato, quasi fossero irrilevanti gli effetti di senso che pure essa produce e veicola.
Io credo che questa ‘omissione’, che si configura come vera falla teorica, dipenda da una sottovalutazione del peso della voce, soprattutto all’interno dei processi di empatia che mettiamo in moto, non solo nei Centri di ascolto. La stessa cosa non si può certo dire della prassi (psico)terapeutica, che è da sempre consapevole della funzione della voce, come se facesse parte del setting terapeutico.
Chiedersi quale sia lo statuto di una ‘cosa’ equivale a chiedersi quale sia la sua natura, cercare il fondamento, l’origine; assegnare alla ‘cosa’ un campo, farne un fenomeno, cioè un oggetto di scienza; indicare la scienza alla quale ricondurre l’oggetto, il fenomeno.

2. Della voce non diremo che appartiene al dominio della fonetica o della fonologia, di una scienza medica che ci sveli i segreti della fonazione umana, a partire dalla corporeità degli apparati, degli organi, delle funzioni. La mera produzione di suoni non basta per esaurire l’essenza della voce.
Se, ad esempio, ne facciamo l’espressione del desiderio, come fa Sergio Solmi nel suo Canto di donna, l’asse della connotazione e il riferimento all’invisibile, alla realtà dell’anima, prevarranno: siamo già oltre il fenomenico. 
La voce, dunque, non si lascia sottomettere all’azione classificatoria e categorizzante di nessuna scienza. Più che di una logica, essa si avvale di una grammatica. La voce non è un oggetto, un fenomeno. Non appartiene a una classe di oggetti con tratti comuni, che si manifestino in modo sempre uguale sotto tutte le latitudini geografiche e storiche. Il danno che la fenomenologia ha procurato all’ascolto è nella pretesa che l’essere si manifesti nella verità ultima del fenomeno. In questo modo, l’ascolto fenomenologico annullerebbe la risonanza di fondo, «l’eco della figura nuda nella profondità aperta» (Nancy). «L’ascolto, invece, designa il luogo dell’ascoltare in segreto, il potere della sorpresa in una conversazione o in una confessione… Ma quale segreto svelerebbe l’ascolto? La voce… Prestare ascolto significa ascoltare la voce, essere all’ascolto della voce, che risuona nel fondo abissale del linguaggio». Sentire significa comprendere, sentir dire o sentirsi parlare. In fondo al sentire è come se ci fosse una risonanza fondamentale, «una profondità prima o ultima di “senso” stesso (o della verità)». Sentire significa comprendere il senso. Ascoltare «è essere tesi verso un senso possibile, e quindi non immediatamente accessibile». In tale senso possibile si stabilisce una spaziatura – un ‘intervallo’, una ‘sospensione’ – che è quella dove abita il soggetto, meglio il senso del soggetto. E tale senso «consiste nel rinvio». La struttura del rinvio è il luogo del soggetto, il quale non è altro che la forma di questo rinvio.

3. «La logica dell’ascolto fa appello a un’altra logica, non quella della manifestazione, ma quella dell’evocazione, come nella musica. E’ questo un modo dell’ascoltare che non pretende di essere padrone del senso, della voce che svanisce. La voce si dilegua in una deriva ed è sempre una promessa. Il suo vero prodursi viene dal silenzio. Essa dice poco, o nulla, ma ci consente di ascoltarla se ad essa si tende l’orecchio. Essa ci concede il momento di uno stupore, una meraviglia e ci permette di considerare la parola come un evento che non si lascia avvolgere ed esaurire da un significato. La voce ci chiede una sospensione, uno svuotamento che ci consenta di accoglierla come un’eco nella nostra disposizione soggettiva. Non è ascolto dell’ovvio, ma dell’estraneo  che guadagna margine e spazio nel soffio della parola; interrompe il tempo e irrompe nel flusso del pensiero, premendo e spingendo ad interrogarlo. Il silenzio, in questa prospettiva, non è privazione, ma “una disposizione alla risonanza”, alla sua tensione, vibrazione, grido, appello, canto. Una disposizione profonda ad accogliere una enunciazione senza enunciato, “un’alterità da ciò che si dice” (Lacan): una voce.» (Giovanni Rotiroti).
Proprio perché essa appartiene al dominio dell’immateriale – a dispetto della materialità da cui proviene -, in quanto soffio, flatus, richiede un altro sguardo, per farsi fine ascolto, capacità ‘discreta’ di cogliere in essa l’interruzione del continuum dell’esperienza: il ‘discreto’ da cogliere è proprio il tratto suo specifico. Essa appartiene a un parlante e solo ad esso. Restituisce l’unicità del singolo, il suo declinarsi al mondo, nei modi che gli sono propri, non importa quanto ‘corretti’ e ‘sani’. E’ inconfondibile, cioè non è assimilabile a nessun’altra voce. E’ problematica nelle sue manifestazioni: richiede sempre un supplemento di riflessione, poiché non è da confondere con termini, definizioni, concetti, regole, leggi, categorie… Essa è, piuttosto, la vibrazione particolare che un’esistenza in un momento dato esprime. Quando diciamo “dare voce a…”, immaginiamo forse che dalla voce dipende la chiarezza del concetto, la forza del linguaggio, la precisione della lingua… In realtà, la voce ‘supera’ le manifestazioni logiche, di cui pure è capace, per ‘dire’, piuttosto, e meglio della parola, il non detto, l’indicibile, il silenzio.
L’espressione usata da Antonio Prete per ‘mostrare’ l’oggetto de L’infinito leopardiano è molto eloquente: «non esperienza del piacere, ma parola del desiderio». Naturalmente, per noi, quella parola del desiderio è il farsi parola della voce del desiderio, è il tentativo di dare ad esso forma. E l’infinità del desiderio, la sua inesauribilità, può essere ‘espressa’ compiutamente solo dalla voce. La tensione romantica per eccellenza, quella che modernamente ‘guarda’ all’illimite degli «interminati spazi» e dei «sovrumani silenzi», trova forse il suo più convincente compimento nel rinvio alla «voce» del vento, che ci conduce oltre la mera presenza delle cose, ad altre epoche, in un rinvio indefinito che produce lo scacco del pensiero. Se il rammemorare iniziale è «caro», non può non essere «dolce» il «naufragar» conclusivo. Oltre ogni diretto riferimento all’estetica del sensismo, da cui pure Leopardi proviene, qui vale l’affermazione degli spazi aperti e del protendersi oltre il puro apparire delle cose nell’ek-stasis mondana: il ‘superamento’ del dato sensibile, della presenza alle cose, del mero nunc è possibile solo nel ‘risalimento’ a quell’unica sorgente del nostro consistere che è data dal punto di incontro del desiderio e della parola che segna la ‘nascita’ dell’individuo. A quell’origo occorre dare, appunto, ‘voce’. Non era stato già Platone a porre, in tema d’amore, la questione della dicibilità dell’indicibile, come vero ‘fondamento’ dell’amore stesso? Lo sfondo di impossibile in cui si colloca la domanda d’amore non ci consente altro, se non divinare da quel fondo enigmatico e buio da cui ‘parliamo’. Le parole non basteranno mai per dire compiutamente cosa ci leghi a un oggetto d’amore e perché: sempre di nuovo affronteremo il compito dando voce al desiderio. 

4. Se consideriamo più da vicino il non detto delle emozioni, cioè l’impossibilità di dire compiutamente cosa esse producano in noi (a questo occorrerà aggiungere il non detto della droga, il non detto della sessualità), ci renderemo subito conto della rilevanza della voce, ché è il mezzo con il quale noi tentiamo di esprimere il ‘fondo’ da cui le cose ‘provengono’, per assicurare una ‘risposta’ convincente alla domanda di senso che ci viene sempre dall’altro, ad ogni piè sospinto. Relativamente alla vita degli affetti, dare voce a emozioni e sentimenti è uno dei compiti più ardui per noi.
La difficoltà in cui versa chi chiede aiuto riguarda fortemente la percezione confusa che la persona ha di sé, soprattutto nella fase della precontemplazione, quando, cioè, per lei la richiesta di aiuto non sia possibile ancora formulare chiaramente. Quella percezione è anche un insieme di stati di corpo e d’animo che hanno bisogno di essere decantati, perché sia possibile poi favorire l’accesso alla coscienza e da lì partire alla ricerca di ‘ragioni’ da dare al proprio consistere ‘qui’ e ‘ora’. L’incidenza sulla struttura delle motivazioni personali è possibile se riusciamo a far accettare all’altro una diversa rappresentazione delle cose, anche con il ricorso a forme di modellizzazione dell’esperienza (mappe del ‘territorio’, ‘esempi’, metafore, fino al ricorso all’antifrasi) in cui sia sempre implicata la nostra esperienza, cioè i tentativi fatti per trovare una via d’uscita dalle difficoltà della vita. Voglio dire che le nostre emozioni, ma soprattutto la voce che ad esse daremo, potrà essere determinante nello sforzo di ‘presa in carico’ che non sempre dà i frutti sperati.
Sicuramente, nel colloquio di motivazione, pesa l’autorevolezza della nostra voce. Se l’attitudine non-giudicante spiana la strada, si tratta poi di indicare un cammino possibile. Procedere insieme diventa realtà, se saremo convincenti validatori dell’esperienza dell’altro. Per questo non bastano scienza e conoscenza della vita, saggezza pratica e misura: l’accesso al simbolico, che il Padre garantisce, è via, verità e vita. (Oltre i processi riparativi e ricostruttivi previsti dai programmi di ‘recupero’, conta sempre lavorare – ad esempio, con le terapie territoriali – per l’empowerment della persona, attraverso la motivazione all’affrontamento della realtà, che vengono indicati con il linguaggio del cambiamento, anche se sono appannaggio di altri momenti del complesso lavoro di aiuto che la Rete appronta con la persona). Si potrebbe dire che l’autorevolezza del Padre è nella sua voce, più che nell’esempio di vita, come si è sempre creduto. Se i ragazzi guardano all’esempio, riusciranno a individuarsi compiutamente attraverso il riconoscimento della realtà del Padre. Ogni figlio sa che, a dispetto di tutti i limiti che pure scopre nel proprio padre, ciò che conta alla fine è che quello sia il proprio padre. Nient’altro. Ciò che il Padre ancora incarna è difficile afferrare, se non si è disposti a farsi figli, corrispondendo alla sua legge. Montale ha scritto del mare che è vasto è molteplice, e si è voluto vedere in questa espressione la legge del padre: comprendere, cioè abbracciare, fino a ‘ridurre’ il suo significato a mero concetto, non è possibile. Consistere in modo ‘sano’ è possibile, a condizione che si accetti quella legge. La creatura è in ascolto. E’ compito del figlio interpretare – cioè, accettare – la voce del Padre. Il ‘ricordo’ più vivo della mia vita è la voce di mio padre.
Il riferimento al Padre qui non appaia peregrino: in un Centro di ascolto, un sessantaduenne come me come apparirà agli occhi di un ragazzo o di un ragazzo-adulto? In tutti i colloqui che tengo settimanalmente con i ragazzi è presente in me la consapevolezza di un ruolo o di un segmento di ‘professionalità’ che debbo prevedere e che riguarda la mia condizione di adulto: la pre-vecchiaia non è una condizione di privilegio; un anziano non necessariamente sarà saggio ed equilibrato! E’ possibile essere volgari e osceni, nonostante l’età! Piuttosto, mi riferisco all’atteggiamento che assumo. In quell’atteggiamento non posso fare a meno di contemplare un uso della voce che segni una diversa presenza. Sono sufficienti pochi riferimenti a tempi lontani della mia vita, all’esperienza educativa passata, per dare la misura di un’esperienza che è stata sempre consapevole di sé e preoccupata di aderire alla realtà che cambia: in questo modo, ad esempio, il ragazzo percepisce una chiara disponibilità, un’attitudine paziente che lo aiuterà ad aprirsi e ad affidarsi… Altre volte ho sentito dire che nelle sedi residenziali l’Educatore di riferimento è stato ‘vissuto’ dai ragazzi come un padre. In un gruppo che teniamo il venerdì con i ragazzi che hanno completato il programma residenziale e con quelli che sono impegnati in terapie territoriali (solo le terapie antagoniste degli oppiacei), il conduttore lamentava alcune settimane fa la mia assenza a un incontro, perché, secondo lui, la presenza di un’Educatrice andava bene, ma quel giorno si era sentita la mia mancanza. Secondo lui, mancava un padre. Ricordo nitidamente che i miei alunni apprezzavano la calma della mia voce, l’effetto soporifero, come dicevano scherzando. Insomma, siamo ormai dentro un campo che è parecchio da dissodare ancora.

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I testi a cui qui si rinvia – risultato di esplorazioni che durano da trent’anni –  esprimono compiutamente tutte le questioni toccate. Il post sarà rimaneggiato infinite volte, perché esprima compiutamente il senso dell’esperienza del colloquio, non solo nella relazione d’aiuto.

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