CAMMINARSI DENTRO (220): Come possiamo continuare a vivere

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Mercoledì 10 agosto 2011

Mary McNeely

Passeggero,
amare è trovare la propria anima
attraverso l’anima dell’amato.
Quando l’amato si ritrae dalla tua anima
allora la tua anima è perduta.
Così sta scritto: «Ho un amico,
ma il mio dolore non ha amici».
Di qui i lunghi anni di solitudine nella casa di mio padre,
nel tentativo di ritrovare me stessa,
e trasformare il mio dolore in qualcosa di più alto.
Ma c’era mio padre con i suoi dolori,
seduto sotto il cedro,
un’immagine che è penetrata fin nel mio cuore
portandovi una pace infinita.
Oh, voi anime che avete fatto la vita
fragrante e bianca come le tuberose
nascono dalla terra nera,
eterna pace!

EDGAR LEE MASTERS

«La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque irrimpiazzabile, dunque infinita» – JACQUES DERRIDA

La morte di un ragazzo scava nel nostro cuore una ferita che non smette di sanguinare, anche se a volte ci sembra che il dolore arrivi attutito dal frastuono della vita quotidiana. O che, addirittura, si sia illanguidito fino a spegnersi. Si torna a vivere. Un filosofo ha raccolto in un grosso volume tutti i discorsi pronunciati in onore degli amici dopo la loro morte: Ogni volta unica, la fine del mondo. Ester si è rivolta così a tutti noi, accanto alla bara di Benedetto, nell’Obitorio del nostro Ospedale: “Come possiamo continuare a vivere ora?”. Certo, la fine del mondo, di tutto il nostro mondo, racchiuso e condensato nell’esistenza delle persone che ci sono care, la morte delle quali, una per una, ci apparirà unica, come se nell’istante supremo tutte le cose precipitassero nell’insignificanza.

Ci ritroviamo di fronte al compito immane di tenere viva la memoria. Lunedì Ester mi diceva piangendo: «Ho paura di non ricordare più la sua voce!» Ma sta combattendo, come non ho mai visto fare prima d’ora, perché questo non accada, perché, piuttosto, attraverso il suo nome vivano altre cose belle a cui si dedicherà: ha in mente di realizzare una Fondazione che si occuperà delle cose che Benedetto amava di più e di quelle che hanno segnato la sua vita.

Questa battaglia incide nel mio cuore, mi aiuta a fare altrettanto, a fare meglio di come io non abbia fatto, anche con la morte di mia madre! Non starò a dire qui cosa io stia facendo, ma da quell’8 giugno in cui Benedetto se n’è andato non c’è giorno che non pensi a lui con commozione e rimpianto. Lo sgomento per la sua morte è intatto. Per la prima volta, forse, riesco a vivere con pienezza, come ho sempre cercato di fare, conservando nel cuore sempre vivo il sentimento della sua presenza. Potrei dire che si tratta di una diversa pace, una pace diversa da quella che abitava già il mio cuore. Benedetto ha portato una consapevolezza nuova. Grazie ad Ester.

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Il 12 ottobre 2004, nel cimitero di Ris-Orangis, si sono svolti i funerali di Jacques Derrida ed è stata data lettura, grazie alla moglie, Marguerite Derrida, del suo ultimo messaggio.

«Jacques non ha voluto né rituale religioso né orazione funebre. Egli sa per esperienza che prova sia per l’amico che se ne fa carico. Mi chiede di ringraziarvi per essere venuti, di benedirvi, vi supplica di non essere tristi e di non pensare che ai numerosi momenti felici che gli avete offerto l’opportunità di condividere con lui.
Sorridetemi, dice, come io vi avrei sorriso fino alla fine.
Preferite sempre la vita e affermate senza posa la sopravvivenza.
Vi amo e vi sorrido da dove io sia.»

Amici e allievi riferiscono che negli ultimi giorni aveva dichiarato: «Ho passato tutta la mia vita a perdonare e a ringraziare».

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