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Sabato 20 agosto 2011
Il testo che segue non ha solo una valenza teorica qui: appartiene alla sfera dei ricordi. Paolo Iaria, infatti, era un medico che lavorava da 14 anni nella sede di Exodus di Santo Stefano in Aspromonte quando si trasferì a Como. Negli ultimi anni fece da supervisore al gruppo dei volontari di Libera Mente. Si ispirava alla visione rogersiana per spiegarsi il fenomeno della tossicodipendenza, come si evince dallo stesso titolo dello scritto che segue.
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La responsabilità della persona tossicodipendente
nell’ottica del paradigma rogersiano
a cura di Paolo Iaria
Medico-Psicoterapeuta
Parte I: Dipendenza e psicopatologia
Lo studio adeguato della tossicodipendenza richiede un approccio multidisciplinare che spazi dalla biologia molecolare e cellulare per arrivare sino alla psichiatria e alla sociologia. Fondamentalmente l’uso di sostanze d’abuso è un comportamento appreso attraverso trasmissioni culturali di tipo orizzontale all’interno di gruppi di pari circoscritti all’interno della fascia giovanile: “la trasmissione culturale consiste di due fasi successive: la comunicazione di una novità e la sua accettazione… consideriamo immuni dal contagio gli individui cui la famiglia e comunque la società quale si esprime nelle generazioni precedenti siano riuscite a trasmettere un atteggiamento critico nei confronti dell’uso di sostanze e, soprattutto, a renderlo superfluo e non appetibile per l’economia psichica dell’individuo. Il rapporto fra virulenza della trasmissione orizzontale (disponibilità della sostanza, numero di pari già “contagiati”, etc.) e saldezza della trasmissione verticale dell’immunità darà ragione della probabilità che il contagio avvenga a livello individuale e dei “coefficienti di trasmissione” a livello sociale.[1] In questi ultimi anni, il notevole progresso della ricerca neurobiologica condotta a vari livelli, da questo neuronale e comportamentale a quello molecolare e recettoriale ha permesso una maggiore comprensione di un fenomeno complesso come la tossicodipendenza, con conseguenti ripercussioni a livello clinico e sociale. Nel DSM-IV il termine dipendenza è utilizzato per descrivere una condizione nella quale l’individuo fa uso smodato di una o più sostanze, con conseguente compromissione della condizione fisica, stato di angoscia, difficoltà nel controllare i comportamenti volti alla ricerca della sostanza, sindrome di astinenza in assenza della stessa, tolleranza ai suoi effetti. Una caratteristica comune alle tossicodipendenze è il fatto che le sostanze che le inducono possiedono spiccate proprietà motivazionali nel senso che l’esperienza dei loro effetti subiettivi è per il tossicodipendente un fine primario dell’esistenza al pari di stimoli naturali come il cibo, l’acqua, il sesso, etc. Tale proprietà motivazionale fa sì che stimoli condizionati da tale sostanze, per essere stati ripetutamente associati ai loro effetti subiettivi, diventano capaci di scatenare un intenso desiderio di riprovare gli effetti (“craving”). Il “Craving” dunque è un costrutto psicologico – comportamentale che descrive la capacità di certe sostanze chimiche di conferire spiccate proprietà emotive a stimoli altrimenti neutri che siano stati condizionati ad esso. Grazie all’acquisizione di queste proprietà emotive tali stimoli secondari diventano potenti incentivi di comportamenti finalizzati all’acquisizione della sostanza d’abuso. Così un volto, un luogo, uno spot pubblicitario, una situazione, possono scatenare una sequenza che ha come fine, e in caso positivo, come risultato, il consumo della sostanza d’abuso. Dopo questo tipo di considerazioni, viene naturale pensare che questo problema può avere diverse letture e che tutte possono concorrere a spiegarlo. Per ovvi motivi di studio e per la scelta di campo mi soffermerò qui sulla lettura psicologico-psichiatrica. Questa riveste particolare importanza, dal momento che quasi tutti i soggetti tossicodipendenti hanno anche una diagnosi psichiatrica associata. Una psicopatologia può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo della dipendenza, può condizionare decorso e trattamento, ma può essere anche il frutto di una intossicazione acuta o cronica. La maggior parte delle diagnosi psichiatriche associate alla tossicodipendenza riguarda i disturbi di personalità (asse II del DSM IV), soprattutto i disturbi borderline, narcisistici, antisociali, dipendenti e schizoidi. Tra i disturbi mentali propriamente detti (Asse I del DSM IV), abbiamo le alterazioni dell’umore, in particolare ciclotimia e depressione, che sembrano essere le più frequenti, anche se spesso scompaiono al raggiungimento della sobrietà. I disturbi psicotici transitori sono abbastanza comuni tra gli assuntori di droghe eccitanti come la cocaina, le amfetamine e, naturalmente, gli allucinogeni. Un disturbo psicotico o schizofrenico primario è infrequente tra i tossicodipendenti, soprattutto se assuntori di oppiacei. Infine, anche i disturbi d’ansia sono associati alla tossicodipendenza con una certa frequenza, sia il disturbo d’ansia generalizzato, sia le fobie o gli attacchi di panico.
Parte II: Tossicodipendenza e paradigma rogersiano
Essere persona responsabile significa comportarsi in modo riflessivo ed equilibrato, tenendo sempre consapevolmente presente i pericoli e i danni che i propri atti o le proprie decisioni poterebbero comportare per sé e per gli altri, e cercando di evitare ogni comportamento dannoso. C. Rogers in una relazione presentata nel luglio del 1980, durante il Simposio “L’Insegnante come persona”, diceva per ciò che riguarda gli obbiettivi che l’educazione dovrebbe raggiungere rispetto agli studenti:
“ – Spero che con la sua esperienza scolastica uno studente divenga una persona capace di imparare criticamente valutando le informazioni che provengono dalle varie fonti;
– riesca a fare scelte intelligenti e a darsi orientamenti autonomi;
– ciò che ancor più conta riesca ad utilizzare queste conoscenze in modo flessibile via via che affronta situazioni nuove o difficili;
– sia capace di prendere decisioni responsabili o autonome nella soluzione dei vari problemi;
– abbia trovato divertente apprendere diventando così una persona stabilmente desiderosa di conoscere”.[2]
Per il raggiungimento di questi obiettivi è essenziale, da parte di coloro che favoriscono (figure – criterio: genitori e insegnanti) la conoscenza dei processi psichici che si svolgono nella interazione sociale e nei rapporti interpersonali, sapere cosa facilita o cosa ostacola un processo in crescita. Molte sono le domande che pressano in me:
- i genitori nella loro opera educativa sono responsabili, cioè consapevoli, delle conseguenze del loro comportamento nel rapporto con i propri figli?
- c’è congruenza tra i valori personali dei genitori e i loro comportamenti?
- molti sono gli adolescenti che soffrono di disagi affettivi, disturbi della condotta, disturbi depressivi, sofferenza emotiva. Cosa spinge alcuni verso l’uso delle sostanze psicotrope? La loro scelta è consapevole, ovvero sono responsabili e consapevoli delle conseguenze delle loro scelte? È quello che veramente vogliono? È quello che serve loro per soddisfare i loro bisogni?
- mi domando ancora cosa facilita nei ragazzi lo sviluppo del senso di responsabilità, caratteristica essenziale della maturità?
- possono le comunità terapeutiche ricreare il clima favorevole per un processo di crescita della persona?
- il recupero è sempre possibile?
Sicuramente è importante dal punto di vista sociale domandarsi e verificare quale sia il modello più efficace per il recupero dei tossicodipendenti. Ritengo sia oltretutto importante cercare di capire cosa spinge il ragazzo verso la scelta dell’uso di sostanze. La mia intenzione qui è quella di centrare la mia attenzione su cosa abbia potuto ostacolare lo sviluppo del senso di responsabilità nella persona tossicodipendente, cercando di capirne le implicazioni secondo l’ottica del paradigma rogersiano. Secondo Rogers la natura umana è positiva degna di fiducia, ogni organismo umano ha in sé la tendenza attualizzante che è una forza, un’energia la cui direzione va verso lo sviluppo di tutte quelle capacità che sono utili a mantenere, autoregolare e autoanalizzare tale organismo. Se le condizioni sono favorevoli, la tendenza attualizzante si rivelerà come un processo in continuo divenire in cui l’individuo sviluppa il suo naturale potenziale di autorealizzazione, divenendo una persona sempre più pienamente funzionale. Quando la tendenza attualizzante può esercitarsi in condizioni favorevoli, senza ostacoli psicologici gravi, l’individuo può svilupparsi nel senso della maturità. Questa concezione dello sviluppo ci porta a porci una domanda:
- come la personalità si dirige verso l’autonomia e la responsabilità caratteristiche essenziali della maturità?
C. Rogers dice, se ogni individuo può vivere liberamente la propria esperienza (per libertà dell’esperienza si intende la possibilità di integrare a livello cognitivo le proprie emozioni, i propri sentimenti, senza necessità di falsarle, per paura di perdere il consenso esterno, quindi l’individuo può simbolizzarli) vi sarà stretta corrispondenza tra la sua esperienza reale e le sue percezioni e la persona potrà meglio scegliere il proprio comportamento, dirigendosi automaticamente e responsabilmente verso scelte funzionali per se e per gli altri. Le scelte responsabili e mature sono il risultato di una buona rappresentazione a livello di coscienza di più elementi possibili da valutare soprattutto che siano corrispondenti alla sua esperienza reale. Più la persona correttamente sa, meglio può scegliere; avendo maggiori e migliori informazioni, può trovare migliore soluzione per il suo mantenimento e funzionamento nella vita. Durante la sua crescita la persona prende coscienza della diversità dei suoi bisogni; più coscienza a (più e meglio ha potuto simbolizzarle), meglio può valutare, verificare e correggere. Possiamo sintetizzare dicendo che la persona più può prendere coscienza della sua esperienza meglio può valutarla, correggerla, potendo così dirigersi verso un comportamento maturo, facendo scelte autonome e responsabili. La persona può autodirigersi e autovalutarsi se gli elementi della sua esperienza sono disponibili alla coscienza. Se non c’è congruenza tra il sé reale e il sé percepito, le scelte saranno inadeguate. Mi domando: i ragazzi tossicodipendenti hanno potuto simbolizzare correttamente e liberamente la loro esperienza senza minacce esterne? Se non hanno potuto simbolizzare la loro esperienza, che cosa ha impedito che questo avvenisse? Carl Rogers risponde che è l’assenza di libertà esperienziale che impedisce la simbolizzazione dell’esperienza. Per libertà esperienziale si intende la libertà che il soggetto ha di riconoscere e di elaborare le sue esperienze e i suoi sentimenti personali serenamente. Questa libertà esiste quando il soggetto si rende conto di poter esprimere liberamente la propria esperienza interiore, i suoi pensieri, le sue emozioni e desideri, così come li prova, anche se non conformi alle norme sociali e morali. Può avvenire la libertà esperienziale solo se il soggetto non si sente costretto a negare o a deformare le sue opinioni o atteggiamenti per mantenere l’affetto e la stima dei suoi cari. La libertà esperienziale può avvenire se la persona vive in una situazione o ambiente che gli permette una sicurezza emotiva, priva di minaccia e alla struttura del sé. Quali sono le condizioni che portano una persona a provare una sicurezza emotiva? Carl Rogers risponde a questa necessità non solo con dei postulati teorici, ma attraverso verifiche scientifiche. Con il termine relazione di aiuto, Carl Rogers intende un rapporto in cui almeno uno dei protagonisti cerca di promuovere lo sviluppo, la maturazione, il funzionamento ottimale. Questa definizione può essere applicata a svariate forme di interazione umana a relazione a due come tra madre e figlio, medico e paziente, insegnante e alunno, consulente e cliente, terapista e persona. L’obbiettivo finale è aiutare, promuovere e facilitare la crescita e lo sviluppo della persona. Per Rogers una sicurezza emotiva è facilitata dalla presenza, nella relazione, di tre condizioni che ritiene necessarie. Voglio considerare in questa sede le tre condizioni (accettazione positiva incondizionata, congruenza ed empatia) e tradurle come qualità umane che un genitore potrebbe avere, per creare un clima di sicurezza emotivo e per facilitare un processo di crescita:
- la capacità di avere fiducia;
- la possibilità di dare una cura incondizionata e positiva;
- la capacità di avere rispetto profondo verso il figlio;
- essere congruente;
- avere empatia.
Per il figlio è importante avere un ambiente di fiducia, la mancanza può portare disistima verso se stessi; è importante che possa percepire accettazione dei sentimenti provati, in modo da esprimerli chiaramente e direttamente. La congruenza del genitore sta nell’essere genuini, veri, senza false facciate da duro o da investigatore; la congruenza si traduce verbalmente nell’uso di messaggi chiari in prima persona che possono far capire chiaramente e trasparentemente il sentimento provato. L’accettazione positiva incondizionata è importantissima per creare un clima di sicurezza, garantendo una situazione di piena accettazione: il genitore consente al figlio di esprimersi liberamente, di provare quella libertà esperienziale che lo porterà a sentire meglio i propri sentimenti, riuscendo a rappresentarli senza doverli negare per essere negato. In effetti, la presenza di questa condizione crea le condizioni necessarie per la realizzazione dello stato di accordo interno e quindi dell’adeguato funzionamento. Avere accettazione e provarla significa rispettare l’altro come individuo senza dare importanza a ciò che fa, ma dargli importanza e valore come persona per quello che è: il valore deve essere legato per quello che sono, non solo per quello che fanno.
Essere empatici.
I suoi interventi saranno efficaci se riuscirà a interagire in modo più genuino possibile, essendo trasparente rispetto ai propri sentimenti e congruente con la propria esperienza interna, se riesce ad essere contemporaneamente ascoltatore attivo, cosa che implica la coesistenza di un alto grado di accettazione e di empatia verso il vissuto dell’altro. I suoi interventi dovrebbero facilitare le potenzialità di attualizzazione del bambino, cosa che implica un contatto diretto da persona a persona. E anche le resistenze del figlio dovrebbero essere accettate come uno dei tanti aspetti del suo modo di essere e di provare. E’ importante sottolineare che attraverso il contatto che si instaura con l’ascolto empatico si possono meglio capire i sentimenti dell’altro; senza confrontarli con un giudizio personale, abbandonando l’atteggiamento di giudizio, si possono sicuramente accettare e si può accettare anche che esistono nell’altro quei sentimenti.
Con la comprensione empatica il figlio si sente così capito e accettato, quindi non giudicato; quindi, non percependo situazioni di minaccia, non ricorre alle difese e alle bugie che, se usate allontanano sia il genitore dal figlio sia il figlio da se stesso, negando la realtà. È strano ma la bugia è l’inizio di una strada che può portare alla psicosi. In oltre se un genitore ha e usa queste qualità nella relazione con il proprio figlio, può veramente aiutarlo a svilupparle per se stesso e con gli altri. Sicuramente se il figlio durante il corso della sua crescita troverà queste qualità negli altri verso i suoi stessi genitori. Mi sono domandato se le comunità terapeutiche possono ricreare un clima facilitante al processo di crescita. Dopo quattro anni di esperienza con l’approccio rogersiano nelle comunità terapeutiche ho verificato che è possibile, nella misura in cui sia negli operatori e soprattutto nei ragazzi ci sia il senso pieno di responsabilità verso la propria crescita e il proprio cambiamento. Nel libro “Psicoterapia e relazioni umane” di Kinget e Rogers ho letto: “il soggetto si considera sprovvisto di competenza e di valori personali, più avrà la tendenza a scaricare su di un altro le sue responsabilità”. Ritengo sia necessario creare all’interno delle comunità terapeutiche una situazione dove il ragazzo possa sperimentare il proprio valore e riappropriarsi del proprio potere personale, sviluppando il senso pieno di responsabilità per non continuare a scaricare sugli altri la responsabilità della sua condizione, dirigendosi in modo consapevole verso scelte più funzionali per la sua vita. Ritengo che l’A.C.P. (APPROCCIO CENTRATO SULLA PERSONA) applicato nelle Comunità, dia maggiori possibilità ai ragazzi di dirigere il proprio cambiamento. Essenzialmente l’aiuto psicoterapico all’interno delle Comunità sta nel creare condizioni eccezionali prive di minaccia che permettano all’esperienza bloccata di liberarsi e di mettersi al servizio del comportamento, per dirigersi verso scelte consapevoli e durature. Il clima privo di minacce deve essere pregno di sicurezza emotiva, rispetto profondo, comprensione empatica, chiarezza e trasparenza e congruenza, per permettere la simbolizzazione. Tutto questo può non bastare, se non vi è una partecipazione attiva del ragazzo in fase di recupero e quando un obbiettivo si realizza, la responsabilità del successo non sta mai solo da una parte, ma entrambi – ragazzi e comunità – hanno partecipato a realizzarlo. Ritengo che l’A.C.P. possa far sentire le persone veri agenti del proprio successo.
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[2] Maria Maddalena Bisogni, L’approccio centrato sulla persona, attualità del metodo rogersiano nell’educazione e nel couseling, Franco Angeli Editori, p.92