Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (256): Leggere LUIGI MALERBA, Itaca per sempre (1997)

________________________________________________________________

Domenica 21 agosto 2011

Il giorno 8 marzo del 2008 è stato un po’ diverso dagli altri per me. Ogni volta mi pongo il problema di cosa dire l’8 marzo. Quell’anno scelsi il romanzo di Luigi Malerba, perché lo scrittore ci propone in esso una Penelope diversa da mito omerico. Giustamente concepita oltre quello che sarebbe diventato lo stereotipo della donna paziente. Come se dovessimo aspettare eternamente che l’altro ci concedesse il suo tempo prezioso, mentre il nostro non deve essere altro che attesa! Questa Penelope non mi è mai piaciuta. Come non mi è mai piaciuto quell’Odisseo che è sempre strappato altrove, teso ad accogliere dentro di sé tutte le cose, come se nulla dovesse rimanere non pensato, non organizzato in una superiore visione: si tratta allora di partire sempre di nuovo alla ricerca di altro senso… Ma stare qui, allora, non ha molto senso! La donna nostalgicamente desiderata e il figlio e la casa?

Giustamente scrivevo di lui in un post di quell’8 marzo che è tutto Sehsucht e Streben. E’ ancora struggimento e volontà di sintesi, tensione a raccogliere in un solo sguardo tutte le cose, a ricondurre tutto ad unità. Uno sguardo – un’educazione sentimentale – tipicamente maschile. Non vorremo certo mettere in discussione la storicità della guerra e le armi! Un modello di vita, però, sicuramente. Odisseo non mi è mai piaciuto. Incarna un’idea della ragione che non mi appartiene. Io preferisco l’esempio di Socrate con la sua nobile parresia.

Di Penelope scrivevamo che «occorre che una donna tenace metta in campo ancora la sua pazienza, per indurre Odisseo a deporre le insegne regali e a farsi finalmente uomo. E’ quello che fa Penelope, per volontà di Malerba: ritarda la ‘risposta’ all’eroe greco, chiamandolo a discutere di sé, di loro, di Itaca. La Penelope di Omero non ci piace più. Ci appare troppo presto protesa a dire . La Penelope di Malerba è nostra contemporanea, come è giusto che sia: ogni riscrittura del mito ne è un aggiornamento significativo per noi…»

*

 

la Repubblica – Venerdì, 16 febbraio 1996
Una serie di conferenze che il filosofo francese tenne a Berkeley
MICHEL FOUCAULT A LEZIONE DI GRECO
di UMBERTO GALIMBERTI

SI PUÒ SEMPRE DIRE LA VERITÀ E QUALI DOVERI ESSA CI IMPONE? NON È SOLO IN GIOCO LA SUA FORMA LOGICA MA ANCHE LA CAPACITÀ E LA FORZA DI ESIBIRLA. L’ESEMPIO DI SOCRATE. 
Un grande capitolo di un ambizioso progetto. C’è una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo avanti Cristo e di cui si sono perse le tracce nel V secolo dopo Cristo. Il suo nome è parresia. Il suo significato è: Dire la verità.
Ce ne dà notizia Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all’Università californiana di Berkeley nel 1983, un anno prima di morire. Oggi queste conferenze sono raccolte in un libro: Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli, pagg. 120, lire 25.000) aperto da un’ottima introduzione di Remo Bodei che ne parla come di un «libro sulla libertà di parola. Un grande frammento, in sé compiuto, di un vasto e ambizioso progetto a cui Foucault ha dedicato i suoi ultimi anni di vita affrontando, contestualmente, il problema del sorgere dell’attitudine critica nelle filosofie dell’Occidente e quello di un’etica della verità». Verità è la parola chiave della filosofia, è il problema intorno a cui tutta la ricerca filosofica si affaccenda dal giorno in cui nacque prendendo congedo dal mito e dalla religione. Anche la religione, infatti, ritiene di dire la verità, ma il fondamento della sua verità risiede nell’autorità di chi la enuncia, mentre la filosofia cerca una verità capace di stare in piedi da sola, senza il conforto di alcuna autorità.
I filosofi greci chiamarono questa loro verità episteme, una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con scienza. Ma, così tradotta, la parola perde il suo significato originario che è poi quello che risulta dal verbo istemi che vuol dire “sto” e da epì che vuol dire “su”. Episteme vuol dire allora “ciò che sta su”, ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla come accade nel linguaggio religioso, né alla persuasione seduttiva a cui ricorre il dire retorico, né alla mozione degli affetti come accade al linguaggio poetico. Ma intorno alla “verità” sorgono subito due problemi: il primo è quello di stabilire i criteri che presiedono alle affermazioni vere e ai giudizi corretti e a ciò provvede la “logica”, il secondo è quello di dire la verità, dove in gioco non è la correttezza formale del discorso, ma il diritto o il dovere di dirlo. Qui sorgono subito questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali requisiti deve avere chi se ne sente abilitato? Su quali argomenti è importante dire la verità? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull’ uomo? Quali sono gli effetti positivi o negativi per i governanti o per i governati? Che rapporto c’è tra dire la verità e l’esercizio del potere?
Il problema qui non è di stabilire come essere sicuri che una determinata proposizione sia vera (su ciò ha insistito la tradizione filosofica occidentale, producendosi in quella che Foucault chiama “analitica della verità”), ma di sapere chi è capace di dire la verità. Che importanza ha per il singolo e per la società avere individui capaci di dire la verità? Come fare per riconoscerli? Dove in gioco non è la struttura logica della verità, ma la capacità e la forza di dirla. In tutto questo Foucault vede l’origine di ciò che in Occidente si chiama critica e che ha in Socrate il suo primo grande esempio.
Qui la filosofia si salda subito con la politica, l’una e l’altra nate insieme in quella Grecia del V secolo avanti Cristo, quando si contrappone alla parola autoritaria il dialogo filosofico in cui si confrontano le opinioni dei partecipanti, e alla tirannide la democrazia dove nell’agorà si confrontano le opinioni dei cittadini. La democrazia ateniese fu definita in modo del tutto esplicito come una costituzione (politeia) che garantisce: l’isegoria che è il diritto di parola, l’isonomia che è il diritto per tutti di partecipare all’esercizio del potere, e la parresia che è il diritto-dovere di dire la verità.
La parola parresia compare per la prima volta in Euripide (V secolo avanti Cristo), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo dopo Cristo, e per l’ ultima volta in Giovanni Crisostomo. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di “dire la verità”.
Bravo chi corre il rischio di essere punito. Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre “dire tutto” ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice. L’esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia.
Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso.
Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta pur sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l’origine dell’esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia, un facile gioco in cui ciò che si esprime non è tanto la verità quanto la propria irritazione che, non prevedendo costi, può essere detta gratuita.
Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa “autocritica”, capacità di dire la verità a se stessi, di scandagliare la propria ombra, le cantine delle propria anima, in linea con il messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità.
Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l’autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l’ interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.
Ma da noi vincono le mille astuzie di Odisseo. Chissà se abbiamo perso queste virtù perché abbiamo perso la parola “parresia”, o se abbiamo perso la parola perché non si riferiva più a nulla o a nessuno. Nel gioco intrecciato tra “le parole e le cose”, a cui Foucault ci ha abituato, parresia segnala un nodo. Provare a scioglierlo potrebbe migliorare la relazione tra gli uomini e la loro condizione civile. Ma non abbiamo la minima speranza. Da noi ha fatto scuola l’Odissea con il resoconto delle mille astuzie del suo eroe, non L’apologia di Socrate con la parresia del suo nobile testimone.

Torna su

*

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.