CAMMINARSI DENTRO (268): Destino e Responsabilità

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Mercoledì 31 agosto 2011

Quello che la cultura antica chiamava Destino – ma anche Necessità, Fortuna, Caso – noi chiamiamo Responsabilità: l’asse della Realtà si è spostato dal ‘cielo’ – in cui veniva proiettato il senso di ciò che accadeva ai singoli o che implicava scelta – alla ‘terra’ della coscienza personale.

Per quanto riguarda me, ho sempre detto ai miei alunni che mi ritengo interamente responsabile di tutto quello che mi accade, perché non lascio che le cose mi ‘accadano’, e se questo succede, se non posso prescindere da quanto può non dipendere da me, non mi appello a forze e ragioni esterne, ‘superiori’ a me, per darmene una ragione. Non c’è principio o ente che agisca per conto mio a mia insaputa.

Quando muore un uomo, tutte le persone care cercano faticosamente una ragione, una spiegazione, e se non la trovano – ma quando accettiamo ‘a cuor leggero’ che qualcuno a noi caro se ne vada? – si appellano al Destino. E’ vero che

Un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni. Questo è ciò che Goethe chiamava l’entelechia. – Moritz Heimann

ma il senso comune, anche quando sia sostenuto da una fede religiosa e riscaldato dall’azione di una Provvidenza, non rinuncia a pensare che le sventure siano volute da una forza astratta superiore, sicuramente cieca. Non sa spiegarsi diversamente il morire e ogni altro enigma della vita individuale. Eppure, alla fine dei conti, che cosa spiega veramente un Destino proiettato fuori di noi e che interverrebbe solo in alcuni casi? Probabilmente, la ‘sopravvivenza’ di una credenza così importante deriva dalla mancanza di valide ‘alternative’ che valgano a spiegarsi ciò che in sé non sarebbe veramente inspiegabile, sicuramente inaccettabile.

E’ stato detto dell’uomo che è la creatura che non muore perché si ammala, ma che si ammala perché deve morire. La condizione mortale, che costituisce il vero Destino, la destinazione di ognuno di noi, può essere ‘esorcizzata’, allora, solo a condizione che il suo termine sia assunto dentro lo stesso orizzonte del vivere. Parlare di un’esistenza mortale può aiutare a comprendere il senso del morire, se impareremo a morire. A questo scopo serviranno sia l’imparare a vivere sia l’imparare a leggere. Ogni esercizio spirituale servirà il compito della coltivazione dell’anima. L’interiorità personale acquisterà ‘spazio’ e diventerà il ‘luogo’ del dialogo muto con se stessi.

In assenza di ogni altro ‘soggetto’ a cui far risalire le ragioni del nostro vivere e del nostro morire, tutt’al più resterà il Caso a costituire una ragione a cui appellarsi, per non ritrovarsi privi di ragioni di fronte all’imprevedibile e all’imponderabile, ma soprattutto di fronte all’Irreparabile.

Se, però, ogni tempo della nostra vita e ogni gesto da noi compiuto saranno ascritti a nostra esclusiva responsabilità – se non accamperemo pretesti, per allontanare da noi il peso della responsabilità -, tutto ci apparirà chiaro, soprattutto se inscritto nell’orizzonte della nostra condizione di mortali.

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