CAMMINARSI DENTRO (285): Elucubrazione diurna

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Sabato 8 ottobre 2011

L’oltranza della bellezza ci vede sempre ‘collocati’ al di qua di essa! Le linee di fuga lungo le quali essa trascende il suo mero apparire non ci conducono in un ‘dove’ in cui appaesarsi e finalmente ‘stare’. Chi può dire di avere mai ‘posseduto’ la bellezza? Da giovani è bello coltivare questa illusione. Da vecchi, ne è concessa solo la nostalgia.

La perfetta letizia, che costituirebbe l’assenza di ogni possibile discordanza dal volere altrui, è nel compimento e nella compiutezza dell’accordo con le cose. La reciprocità del riconoscimento, che è poi ciò che si richiede nelle cose umane – lasciamo stare il rapporto con il Cielo! -, è più facile forse con i ‘lontani’. Quando siamo (troppo) vicini, l’Ombra finisce per sovrastare ogni cosa: chiediamo tutto – l’Impossibile è altra cosa! – e subito, come fanno i tossici; vogliamo sapere tutto – la Conoscenza dell’altro è altra cosa! – e consideriamo tradimento ogni diversione dalla Verità supposta tale; pretendiamo garanzie contro la Morte – comprare casa, annullare le differenze, sospettare sempre, perdonare mai – e nascondiamo accuratamente sotto il tappeto le scorie della vita, i dettagli fastidiosi, le piccole incongruenze, perché la superficie dell’anima sia sempre linda e trasparente.

La trasparenza della coscienza oggi non è facile come ai tempi di Sartre, che ne aveva fatto una religione. Egli diceva che non c’è niente di peggio della vischiosità della coscienza: bisognerebbe combattere sempre la malafede, la falsa coscienza, l’ipocrisia… Certamente, ambiguità e ambivalenze non sono tollerabili. C’è da chiedersi, però, a questo punto, cosa sia amabile, cosa si possa amare. Dopo aver professato per tutta la vita l’inutile religione secondo la quale bisogna rendersi degni di essere amati – è assodato, ormai, che l’amore non bisogna meritarselo! – mi si dice che le persone debbono essere amate così come sono. E questo suona bene. Ma se l’altro è anaffettivo o immaturo o privo di identità o malvagio o dipendente da altre personalità o analmente attaccato al denaro o PRIVO DI INTELLETTO D’AMORE, il “Sentire” di cui si parla tanto non sarà uno ‘strumento’ da ‘accordare’?

Non basta dire affetto sentimento passione sensibilità apertura e via esaltando, per poter dire che ci ritroviamo di fronte a un esatto sentire, come mi insegna Roberta De Monticelli. Cosa ama in me una persona anaffettiva? Cosa sente? Cosa sto amando di una persona priva di identità? Quale letizia ricaverò dalla relazione unilaterale con una persona malvagia? Quale gusto della libertà ricaverò dalla frequentazione di una persona che dipende eternamente da altri? Quale leggerezza mi regalerà chi vede solo ciò che vedono i suoi occhi (magari con l’etichetta del prezzo ancora incollata sugli oggetti d’elezione)? Ma, soprattutto, ha senso parlare d’amore in presenza di persona che non abbia intelletto d’amore?

Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a rispetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
(Dante Alighieri, Vita Nova, XXIX)

Io credo che ogni epoca debba riscrivere il trattato “Sull’amore”. Gli straordinari mutamenti intervenuti nella sensibilità – io parlerei di una vera e propria mutazione antropologica che ha investito negli ultimi quarant’anni maschi e femmine – dovrebbero farci sentire più liberi di esprimere i nostri sentimenti. Non solo per sottrazione – o per negazione – possiamo dire ciò che siamo, ciò che vogliamo. Abbiamo, addirittura, troppe ragioni – come direbbe Musil – rispetto al nostro tempo, che si attarda sull’osceno (cioè, sulla tendenza a sbattere sulla scena il contenuto della propria coscienza, per denaro o per trovare lì senso e ‘felicità’). Molti capitoli di quel trattato sono già stati scritti da ognuno di noi. E si tratta di scoperte, non di riscoperte di valori antichi: diversa è la nostra sensibilità. Molte cose hanno lo stesso nome, ma non corrispondono minimamente a quello che sentivano le epoche precedenti. Ci sono giorni in cui penso che il fondo di impossibile che è ‘contenuto’ nell’amore sognato è in quella misura che chiediamo e che vorremmo arrivasse non richiesta, perché veramente dall’altra parte c’è un esatto sentire che si accorda con il nostro sentire. Questo ‘chiarissimo’, come lo chiamò Freud, fa soffrire, perché è oggetto di diniego. Cercando di istituire file di continuità, ci perdiamo. Allora, forse sarebbe utile fermarsi e aspettare, forse piangere sommessamente, ma non c’è rimedio: chiediamo l’impossibile. Giustamente, Pavese chiude uno dei suoi “Dialoghi con Leucò” più belli con le parole: “Chiedi troppo, Thanatos”. Si riferiva al fatto che il mortale solleva lo sguardo verso la dea. Thanatos chiede di rinunciare. La risposta è in quelle parole bellissime: chiedi troppo.

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