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Mercoledì 9 novembre 2011
Ben nascosto tra le pieghe dell’anima, il ricordo lontano della voce aspra di mia sorella è sempre vivo. Era uscita a passeggiare come sempre con le sue amiche lungo il Corso della città. Naturalmente, attorniata da ragazzi vocianti che le accompagnavano schiamazzando, come fanno sempre i ragazzi che sciamano nel sole della giovinezza. Era il tempo in cui le donne stavano chiuse in casa. Uscivano sempre accompagnate da qualcuno. Il loro comportamento era seguito da tutta la famiglia. Ne andava dell’onore di tutti. Rientrando a casa, corsi da mio padre a raccontare di averla vista in piazza. Alle sue rimostranze io rispondevo aggiungendo sempre nuovi particolari, per irritare e allarmare mio padre, sicuramente spinto dalla gelosia…
A un certo punto, mia sorella si rivolse a me con voce ferma e sicura e mi disse: «Tu hai l’occhio di bue! Ingigantisci tutto quello che vedi!» e non aggiunse altro. In quell’istante non mi resi conto dell’importanza dell’accaduto, perciò continuai a provocare confusione, senza costrutto. Unica attenuante, l’età. Ero bambino.
Ma tutte le volte che ho ripensato a quelle parole – nel corso della mia vita – ho sentito come un monito risuonare quella voce dentro di me. Era come se volesse dirmi: «Stai attento, perché rischi di provocare guai con il tuo ‘entusiasmo’!». Ho sempre chiamato poi entusiasmo l’enfasi con la quale spesso mi sono espresso in pubblico. Potrei fare l’elenco completo dei più grandi disastri che ho provocato – fino a quelli delle ultime settimane -, contribuendo a compromettere rapporti consolidati. Come dice la mia amica Renata: «Un’altissima quantità di incontri umani viene distrutta da una scarsa tolleranza agli equivoci». Io so che spesso solo di inezie si tratta, ma basta il tono di voce sbagliato, per dare una sensazione di rimprovero. Se si alza la voce per farsi sentire, mentre altri a loro volta creano confusione, si finisce per apparire come aggressivi e intolleranti…
Il fondo di inconfessabile da cui talvolta parliamo è quella zona d’ombra i cui si condensano immagini e voci che si fanno rimprovero e rammarico. Come non sentire che qualcosa di irrevocabile sia accaduto, se anche dopo decenni riaffiorano brevi ricordi che pure pesano sull’anima come grandi torti ed errori, se il loro vivido apparire alla coscienza è sempre accompagnato dalla sensazione pungente di una colpa mai espiata!?
Dedichiamo al perdono molte energie per definirne i modi e i tempi e l’opportunità e il valore morale, ma poi siamo soli con il nostro inconfessabile, che sta lì a ricordarci che quell’errore è stato propizio, perché ha consentito di comprendere quello che andavamo facendo e ci ha aiutato a non commetterne di più gravi.
Ma come ‘spiegare’ da cosa nasca poi il bisogno di perdono che non trova risposta? Altri hanno trascurato di occuparsi di noi, di lenire le ferite dell’anima, di aiutarci a guarirne? Per quali vie aprirsi a queste evidenze, lasciando ‘entrare’ nella propria anima quelli che ci amano e che magari potrebbero essere il farmaco che cura?
La nostra esistenza è fatta anche di queste schegge luminose che mostrano zone remote della coscienza, che sono spesso ciò da cui noi proveniamo e che hanno contribuito grandemente a fare di noi quello che siamo.
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