CAMMINARSI DENTRO (327): Der Abschied

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14 gennaio 2012

Un tempo andavo fiero del fatto di sapere che «senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati», perché intimamente convinto del fatto che io possedevo la cultura necessaria per far durare l’amore destinato a durare. 
Anche lo stare a distinguere tra amore che dura e amore che non dura era operazione che facevo discendere dalla capacità personale di alimentare la relazione amorosa e di provvedere alla manutenzione degli affetti con abilità e competenza.
Perfino la convinzione inveterata che «bisogna rendersi degni di essere amati» è stata opportunamente abbandonata da me, a vantaggio di una più produttiva tendenza ad affidarmi al Caso, ai volubili capricci della fortuna: non è forse vero che anche le persone più abiette (per noi) ricevono amore, e talvolta sono quelle più fortunate?

C’è un tempo anche per l’amore, e il suo tempo si misura quando se ne conosce la fine. E’ importante anche fissare la data, se interviene la sanzione che di 13 gennaio si tratta e non di un altro tempo e di un’altra vita.
Naturalmente, c’è lo strascico, che non è il lungo velo della sposa che spazzola la strada che conduce alle prime tappe della felicità. Di un altro strascico si tratta. Il mondo preferisce dire al plurale, perché è umano che si accavallino ragioni su ragioni, per fare luce e rivendicare verità, ma soprattutto per rimettere insieme cocci che non combaciano più.

Gli antropologi raccontano i modi bruschi che prevarrebbero quando interviene una rottura nella relazione più importante della vita delle persone, a segnare un’incapacità  che deriverebbe forse da un’inadeguata educazione sentimentale.

Il ‘rifiuto’ assume la forma che Freud ha riassunto in una parola: Versagung. Non ‘frustrazione’ né ‘privazione’ o ‘castrazione’: più correttamente, io preferirei tradurre in modo non tecnico il termine con rifiutarsi di (rinunciare). Propriamente, il sostantivo tedesco allude a un uso riflessivo che è possibile scegliere tra i vari significati di Versagung: rifiutarsi di. E di che cosa mai ci rifiuteremmo nel corso di tutta la nostra vita se non di ‘rinunciare’, di astenerci dal cercare ancora, ma soprattutto di illuderci che ciò che era destinato a durare ancora non ha cessato di rappresentare per noi una ragione di vita in più?

Nell’incrocio tra due vie del cuore non scegliamo sempre quella che ci fa durare ancora, non importa se nella sospensione calda dei giorni e delle ore in cui la presenza che non è più tale noi cerchiamo di far durare ancora? E riusciamo a far durare il sentimento che dà voce e corpo per noi a quella presenza! Ma essa non è più vera presenza. La sua ek-stasis mondana non è più protesa a realizzare un nostro significato. Il cielo si è fermato. Inutile cercare di imprimere alle stelle più lontane un moto che si rifiutano di esprimere. Non si ode più palpitare in lontananza un cuore per noi. Siamo nell’infranto.

C’è un altro modo, però, di rifiutarsi di rinunciare a chi lungamente si congeda da noi senza dire arrivederci! ed è un modo mite e sereno. Occorre grazia – l’arrendevolezza della fantasia – per arrivare a congedarsi opportunamente e in modo non brusco: la parola più appropriata, che torna a visitare i miei giorni, è Entsagung, che significa sì ‘rinuncia’ ma che non è improvviso distacco e abbandono. E’ come un lungo addio alla terra, che è canto, non lamento o grido trattenuto.
Magari, nella solitudine ovattata delle proprie stanze si avvertirà la presenza di «cose che si odono piangere sommessamente e che si nascondono agli occhi della gente», ma si tratta solo di un’eco restituita dalle cose che ricordano ancora i giorni felici.
Si tratta di decidere se far durare questa voce a lungo ancora o lasciarsi sedurre dal richiamo di altre voci, come spesso accade al mondo e ai suoi giorni.
Noi non lasceremo che la porta, che abbiamo lasciato aperta, si richiuda perché i freddi venti invernali sferzano il viso o perché non giunge risposta all’eco lontana della nostra voce. Non abbiamo aperto il nostro cuore per una sola stagione.


 

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