La durata di un’attesa

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Mercoledì 1° febbraio 2012

CAMMINARSI DENTRO (343): La durata di un’attesa

Fragile patrimonio sono i sogni,
ci fanno ricchi un’ora,
poi, poveri, ci scaraventano fuori
dalla purpurea porta, sul duro recinto,
dimora di prima.
EMILY DICKINSON 

Il riconoscimento di una donna non è la meta ambita di ogni uomo? Sentirsi dire sì. Intravvedere anche da lontano sorrisi rivolti a noi, proprio a noi. E il viso inondato di luce, e quella luce essere espressione di una gioia interiore che dice chiaramente quanto sia merito della nostra esistenza, della pura esistenza, senza altre ragioni. La voce riscaldata dallo stesso sentimento. E infinite file di continuità, insperate e pure presenti. Il ricordo della felicità è nitido, come la nostalgia che prende nei giorni in cui l’uggia cala sull’anima e se ne impossessa fino a spingerci alle lacrime.
Ma di tutti modi che conosciamo per renderci infelici ce n’è solo uno che merita di essere ricordato, ed è quello in cui precipitiamo quando abbiamo la felicità a portata di mano e non riusciamo ad afferrarla più.
Dubitare dell’amore, arrivare a credere che non abbia tante ragioni per sussistere a lungo e che sia destinato a rivelarsi solo fragile illusione non è l’esito peggiore? E non è la tentazione più grande a cui resistere? E guardarsi intorno in cerca di un altro amore, di un amore possibile, magari più tenero, più confidente non è meno rischioso, quando poi occorrerà precipitarsi ad occupare di nuovo il posto che occupavamo davanti alla nuda porta?
Aver atteso tanto un amore che pure era stato promesso non è vera follia? e non è più folle spiare gli sguardi e misurare le aperture dell’anima all’evidenza della nostra presenza e sentire che non siamo molto presenti, che le nostre ragioni sono insufficienti e che c’è da fare di più e correre a riempire tutti gli interstizi e donare tutto di sé, le cose, le parole, il tempo di tutta una vita? Aspettare! Che follia! 
Noi credevamo che facesse parte della religione di questo sentimento la virtù dell’attesa. Siamo stati educati all’idea che non bisogna pretendere il dolce che l’amore distilla ora e tutte le volte che ci accade di desiderarlo. Ci siamo acconciati a questo compito. Lo abbiamo chiamato compito, dovere, atto dovuto…
Ci siamo denudati e scorticati l’anima. Abbiamo detto sì tutte le volte che sarebbe stato necessario dire no, perché era folle dire sì. E non ci è stato insegnato che di follia si trattava? che non bisogna risparmiarsi nell’esser folli?
Anche la follia abbiamo praticato con metodo, modulando la domanda nelle stagioni dell’anno e in tutti i tempi dell’anima. Con quale risultato? Abbiamo sentenziato che il risultato sarebbe arrivato. Ma nessuno ci aveva insegnato che attendere soltanto e sempre non è saggio, è stupido.

Un mandarino era innamorato di una cortigiana. “Sarò vostra – disse lei – solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su una sedia, nel mio giardino, sotto la mia finestra.” Ma alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n’andò. – ROLAND BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso

Quale nobiltà mai vorrete trovare nella lunga attesa che non trova ricompensa, in un estenuarsi che non salva nemmeno la propria dignità residua? Quando quest’ultima sia stata intaccata, ha senso parlare ancora d’amore? Aveva senso parlarne poco fa?


 

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