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Giovedì 9 febbraio 2012
CAMMINARSI DENTRO (348): Dicerie
Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.
La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell’anima tua,
e di misteri e di sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.
Ah, fosse mai che le ali vive
dell’anima librata sulla folla
potessero salvarla dall’assalto
dell’immortale volgarità umana!FËDOR TJUTCEV
Emanciparsi dalle dicerie non è impresa facile per nessuno. Sentirsi addosso per anni lo sguardo indagatore e risentire all’infinito l’accusa di chi aveva buone ragioni per parlar male di noi è esperienza interiore nota a tutti. Con questa faremo i conti rassegnati, perché ci appartiene, ha un fondamento nella realtà. Più difficile districarsi dal grumo delle cose non dette, dei ricordi nebulosi, delle ‘prove’ insufficienti che pure fanno storia, quando si dica di noi qualcosa che ci ferisce perché non vera.
Bisogna provare ripetutamente a scontrarsi con questo immateriale nemico, per trovare il modo di sconfiggerlo, e scoprire che vincerlo non è quasi mai possibile. Le forme della negazione, che pure abbiamo indagato e provato, possono anche non funzionare.
Nel tempo riaffiora fastidiosa la sensazione che di noi si sia affermata un’immagine che non corrisponde a tutti i nostri sforzi, alle fatiche fatte per avanzare andando incontro alla vita.
Forse, la risposta è tutta qui, in questo procedere che non si lascia ‘fermare’ da alcunché. Se il passato non passa, se le persone mostrano di non aver compreso, di non aver perdonato; se il silenzio dell’indifferenza e della disattenzione riempie ancora spazi grandi della nostra esistenza, io credo che non ci resti altro da fare che emanciparci da tutto ciò che è veicolato dalla diceria.
Convivere per decenni con questo tarlo nell’anima è possibile, e lo facciamo, ma a volte i ‘prezzi’ da pagare in termini di malinconia sono così grandi che è preferibile ‘andarsene’, abbandonare il campo che pure abbiamo occupato con una presenza significativa per anni e anni. Se la nostra presenza non è mai diventata una vera presenza, se i dovuti riconoscimenti non arrivano, non ha più senso aspettare. Non c’è più niente da aspettare. Siamo soli con lo stigma che ci è stato assegnato.
Mi ritrovo in cuor mio a dirmi ironicamente, con le parole di Bruce Springsteen: «Io sono della razza di quelli che se ne vanno». Non ricordo più perché lui lo dicesse di sé, e non mi interessa qui: mi bastano le parole, per rendere l’idea del da farsi.
Disinvestire emotivamente, abituarsi al silenzio, facendone non più un motivo di attesa o di speranza, come avevamo iniziato a fare tanti anni fa, convinti che quello fosse il da farsi. Abituarsi all’idea che non riceveremo risposte, che il nostro valore non dipende (più) da quel riconoscimento, che l’amore che non abbiamo ricevuto non è mai stato. Non arriverà mai.
Non si tratta di ricordare il bene ricevuto, perché abbiamo una ‘memoria’ viva del Bene. Sappiamo riconoscerlo anche da pochi segni. Ci basta un cenno, un messaggio, il tono di una voce.
Non bisogna ‘deprimere’ necessariamente il significato e il valore di ciò che fino a poco fa ne aveva per noi. Bisogna fare di più!
Il compito grande e difficile è destituire di valore anche chi ne ha uno grande, e non solo per noi.
Mi riferisco alle persone a cui abbiamo affidato in tutto o in parte la nostra vita, che mostrano di non sapere che l’amore non è revocabile in dubbio. Non ha senso immaginare che possa essere ‘sospeso’, in attesa di ‘chiarimenti’ da parte nostra. La battaglia per il riconoscimento nel campo degli affetti non può durare a lungo. Non deve durare troppo.
E al di fuori della sfera amorosa vale la stessa ‘regola’ che mi sto dando. Il tempo mi dice ciò che è reale nelle relazioni umane e ciò che non lo è, ciò che è vivo e che vive, ciò che appare a intermittenza, ciò che tende a svanire senza apparire più.
Se considero tutti i miei sforzi, l’investimento emotivo e sentimentale, i doni e le parole, e se poi mi fermo a valutare la ‘risposta’ ricevuta, non mi posso sbagliare se rivolgo lo sguardo agli atti compiuti dall’altro nei miei confronti.
Lo sguardo deve allargarsi al più ampio significato dell’esistenza dell’altro, per fissare in comportamenti significativi e conchiusi il senso che l’altro assegna alla mia esistenza. Se non si tratta di atti chiari, non ha senso illudersi ancora sul sentire dell’altro.