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Domenica 15 aprile 2012
CAMMINARSI DENTRO (376): Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine
Il potere grande dell’illusione è tutto qui, nella sua capacità di far durare nel tempo, anche per anni, addirittura per decenni, il sentimento di qualcosa che accadrà, che accadrà a breve, che senz’altro accadrà. Almeno, così ci è stato detto e promesso. Magari con vaghe allusioni, sicuramente con rinvii e pretesti credibili, per impegni verosimili, impedimenti reali, ma crescenti.
Il difetto grande della fonte dell’illusione risiede nel fatto che deve essere quasi totale, avvolgere e riempire tutto il tempo, mantenerci in uno stato di sospensione che non si traduce mai in una parola chiara, una sentenza definitiva. Noi vorremmo anche un giudizio di condanna senza appello, i sensi di una decisione irrevocabile che aiutasse a mettere il cuore in pace, distogliendo magari lo sguardo altrove, per concentrarsi meglio sulle proprie umidità gastriche, da sempre aborrite, quasi fossero trasgressione morale o tradimento. Dovevamo essere interamente proiettati sulla chimera, presi dal sogno ad occhi aperti, dalla favola di ciò che sarebbe accaduto. Ma che puntualmente non si è verificato.
La distruttività di questa emozione sta esattamente nel fatto che ci accade di chiedere, di ostinarci nella ricostruzione di momenti e di cose dette, per carpire un segreto, per far rilevare la crepa che dovrebbe immettere in una nuova verità, concedendoci finalmente lo squarcio di luce sulla nostra condizione, che è poi tutto ciò che chiediamo. La pericolosità dell’insistenza è nella povertà da cui parla. E’ la mancanza il peccato di origine.
Ci era stato promesso ciò che immancabilmente è presente in ogni relazione sentimentale che si rispetti. La promessa non risiede in un giuramento o in un patto sottoscritto con un rito non scritto. E’ sufficiente imboccare la strada del sentire condiviso perché poi si finisca giustamente per accampare diritti che non sono riconosciuti.
Ci scaraventa nel paese senza tempo delle chimere la convinzione di stare in un patto, di averlo sottoscritto con qualcuno che ha detto sì assieme a noi, che avrebbe nel tempo rispettato l’accordo, come noi abbiamo fatto fedelmente ogni giorno per mesi e per anni, ingenuamente convinti del fatto che passare dal riconoscimento quotidiano e dalle corrispondenze amorose ai silenzi studiati e ai dinieghi faccia ancora parte del patto.
Siamo ciechi. Diventiamo ciechi. L’evidenza dell’amore che sola conta non c’è più. Ora altre evidenze si impongono alla vista che non vede, perché presa da altre evidenze, dai vuoti riempiti da noi, che prestiamo le parole e ci diciamo quello che nessuno ci sta dicendo, che continuiamo a credere a ciò che non c’è lì davanti a noi, luminosa presenza di sempre.
Siamo nella mancanza, eppure riscaldiamo il nostro cuore di una fede che proviene senz’altro dal bene ricevuto, che ci acconciamo a credere che sia ancora lì, a due passi da noi, dunque ancora per noi.
Questa nostra fede non merita la smentita crudele che non verrà, che non viene. Noi crediamo di non meritare una smentita, per aver lungamente prestato fede all’amore. Questo ci sembra di poter dire a noi stessi, per affrontare i giorni sempre uguali, trafitti solo dal dolore della mente, che si affanna a cercare un varco che non si apre più.
Il nuovo in cui ci ritroviamo quando arriviamo a decidere di non credere più – e questo è ciò che prevalentemente non facciamo – è dato dal puro vuoto della mancanza, dalla perdita di senso di qualcosa di cui non ci siamo ‘sbarazzati’ ancora. Siamo lucidamente infelici, perché comprendiamo bene che la felicità è a portata di mano, ma non riusciamo ad afferrarla. Questa è l’infelicità più grande.
L’indugio e l’ostinazione nascono da qui, da questa sensazione di possibile che sconfina in una libertà infinita. E’ tutto nelle nostre mani. Sembra quasi che il nostro destino sia nelle nostre mani. Ma si tratta solo del fatto che siamo a due passi dalla decisione di riprenderci la nostra vita, per ritrarci al di qua dell’amore in cui avevamo creduto.
Noi possiamo oscillare indefinitamente tra apparenza e realtà, tra la falsa apparenza dell’amore che non c’è più e la bella apparenza di un tempo, che rinviava alla evidenza prorompente dell’amore.
Il destino dell’infelicità è tutto qui, in questo credere inutile nell’evidente apparenza che non è (più) tale, perché il nostro cuore, impegnato a far esistere e a far durare nel tempo l’oggetto d’amore, continua a generare la luce e il calore che riscalda l’altro furtivamente, che non si lascia più toccare dalle piccole mani che aprono e chiudono delicatamente, come fa accortamente la primavera con i suoi primi boccioli.