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Lunedì 16 aprile 2012
CAMMINARSI DENTRO (377): Toccare l’anima
Se l’espressione ‘toccare l’anima’ dell’altro non risultasse immediatamente tattile, riferimento diretto a una manipolazione che plasma, che dà una (diversa) forma alla cosa, potrebbe anche andar bene per noi. Ma se la depuriamo di questo suo senso fisico, dell’idea di una pressione, di un abbraccio quasi, e dell’effetto plastico su ciò che sta oltre la superficie, direi che è perfetta, perché il tocco appena accennato, quasi uno sfiorare la superficie e basta, a cui alludo, si risolve in una vibrazione intensa che assomiglia ad una voce.
Accostarsi a un’anima e avvicinarsi soltanto, avvicinandosi indefinitamente, come se lo spazio da percorrere fosse una spaziatura sonora interminabile, al pari di un’onda che si propaga da noi verso l’altro per ritornare contemporaneamente verso di noi, (ri)sospinta dall’altro, è atto più che gesto. Non un semplice passo – un passo semplice in direzione di – ma il frastuono di un’onda, il fragore di acque sommosse che si propagano con il rumore che le accompagna e che aspira a farsi onda, riverbero dei moti del cuore.
Con la voce soltanto, al di qua del comprendere di un abbraccio, arrivare lì, dove si incontra un’esultanza trattenuta e si coglie il respiro, il sospiro, l’affanno, l’impercettibile ansito breve che sale dalle vertiginose profondità del cuore, nel buio tremante palpito di un’emozione.
Ai confini dello sguardo incontriamo esattamente questo ondeggiare, che assomiglia al mal di mare in terraferma. Non è un malessere compiuto, dispiegato. Piuttosto, è l’esitazione che precede e accompagna l’accenno a un moto lento e misurato, che distilla e trattiene l’impulso a raggiungere la meta desiderata.
Il ritrarsi del corpo, che quasi si torce, per mimare la volontà di un indugio perplesso, attende risposta, l’assenso ulteriore ad un moto che aspira a farsi passo di danza, voluta di fumo al cospetto di chi non può essere (ancora) toccato veramente.
Nella misura di un’onda trattenuta è chiuso il senso di un procedere che non è vero avanzare nello spazio fisico che separa (ancora).
Continuare a separare lo spazio fisico in infinite particelle da attraversare è un centellinare il gusto dell’onda dell’altro che allo stesso modo procede verso di noi, riconoscendo un’onda familiare, non più perturbante per noi.
Il puro contatto delle voci e il corrispondersi affannato del respiro e il moto agitato e casuale delle braccia e delle gambe, quasi a voler cercare posizioni più sensibili a quanto sta per accadere, si placa in un sorriso, breve assenso soddisfatto, quasi un placato porre termine a una lunga contesa per la verità.
Il consenso che giunge fino a noi non è il termine della beatitudine e nemmeno il rasserenato stupore di chi sia stato raggiunto contro la propria volontà senza opporre resistenza.
Non ci fu contrastato diniego né altero disdegno in un inespressivo restare. Piuttosto, una bocca appena spalancata che non riusciva a dire ancora l’effetto di quel tocco che era stato uno sfiorare appena.
Il moto accennato della superficie dell’anima imprime il suo ritmo al sorriso e al respiro che accompagna il rapido affanno, il trattenuto sospiro.
Come onda che corrisponda all’onda dei ricordi, l’altro avverte l’onda che sale, l’onda del ricordo evocato dalla nostra voce accorata. Riconosce l’effetto del nostro tocco prudente e si abbandona a fiducioso e confidente sorriso.