Sintesi e forma dell’esistere

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Lunedì 27 agosto 2012

CAMMINARSI DENTRO (401): Sintesi e forma dell’esistere (1)

Mi sono svegliato poco fa all’idea che lungo la nostra vita non facciamo altro che mettere insieme la nostra canzone, nota dopo nota.

Il giorno in cui ‘tutto’ – o quasi – appare chiaro è il giorno della sintesi raggiunta, quando i frammenti combaciano, ma non in una somma di esperienze collegate fra di loro: è sintesi il risultato di infinite alchimie, di tentativi fatti per tenere insieme ciò che magari giaceva separato, quando non addirittura tragicamente risolto nell’infranto.
La sintesi è, piuttosto, la combinazione sempre nuova di elementi che aspiravano a ‘trovare posto’ in un racconto da scrivere in tutte le sue parti.
Nell’ora che non ha sorelle, tuttavia, non si creda che avverrà il grande compimento! come se nell’istante supremo fosse consegnato, per destino, ad ogni uomo, il sigillo della verità!
Il racconto non trova il suo compimento nemmeno qui, nel tempo mondano che ci è dato vivere. Siamo in cammino. La Morte è solo l’interruzione del nostro cammino. Inutile immaginare che l’Irrappresentabile per eccellenza possa acquistare un senso, quando è ciò di cui non è possibile fare esperienza.
Il nostro fare, dunque, ‘si esaurisce’ tutto qui, in questo fare, nella sola trascendenza personale che ci identifica come umani.

Senza disperderci vanamente in ricerche o in fughe in un ‘altrove’ solo sognato, conta sapersi oltre il puro dato di fatto, in un’aura temporale fatta di concreti invisibili, gesti atteggiamenti azioni atti che parlano del nostro ‘fare’.

Al senso del ‘costruire’, a cui rimanda il poiein, il fare, io preferisco il ‘crescere’. 
Rendersi consapevoli delle scelte fatte, soprattutto delle ‘pieghe’ impresse alla propria esistenza per verificarne la bontà, e scoprire che magari venti anni trascorsi sono stati un unico grande ‘errore’, perché fu un ‘errare’ in cerca di ciò che non fu trovato nei ‘contenuti’ delle scelte stesse, equivale a gettare le basi per altre scelte, più mature, perché non basate su mere illusioni o su falsi scopi, sorrette da ragioni sbagliate.
Scoprire di aver fatto scelte grandi essendo mossi da intenzioni che non potevano produrre felicità, ad esempio, è utile, se riusciamo a contemplare quel ‘così fu’, per redimerlo, per riscattarne quanto di sbagliato contiene. Per ‘salvarsi’ è sufficiente non persistere nell’errore, tornando a fare le stesse scelte.
Acquistare consapevolezza dell’errore è, tuttavia, poca cosa, a fronte del nuovo da scegliere. Realizzarsi oltre la mera ripetizione di sé equivale ad aprirsi a nuove evidenze, registrando fedelmente ‘ciò che appare’ davanti a noi, le nuove ‘presenze’, che ci chiamano lontano dalla ripetizione e basta.
Essere fedeli a quel nuovo significa ascoltarne le voci, farsi raggiungere e toccare da esse, accogliere l’evidenza di un altro sentire, consentire ad esso, lasciare che contribuisca a risvegliare strati profondi della nostra personalità, a far nascere un sentimento nuovo.

Se questo è il desiderabile, la proiezione di sé oltre il proprio ‘destino’, più grande è il compito della ‘stesura’ della propria canzone.
La maturazione affettiva è il ritmo raggiunto, il sentire adulto che tutto vede e tutto sa, perché cresciuto sull’errore e sul dolore che ne consegue sempre.
Contemplare dall’alto della collina tutta la vita e riconoscere che essa è buona e santa non è solo segno di saggezza. Occorre saper dire a se stessi cosa fu giusto e cosa no. Quanto era vero di tutto ciò in cui abbiamo creduto. Dov’è il punto da cui idealmente occorre (ri)partire, se fu imboccata una strada sbagliata. Il punctum dolens è propriamente nell’accettazione consapevole di tutto il proprio passato. Occorre patire le scelte fatte, perché si aprano nuovi scenari.
La riconsiderazione riflessiva di ciò che portò in un ‘vicolo cieco’ andrà condotta rendendosi ‘beanti’, lasciando che la ferita sanguini a lungo, suggerendo nuove strade, fino a quando la trasformazione non sarà avvenuta.

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